Violeta Parra, una voce che ringrazia la “vida”
Ritratto della cantautrice cilena
Che l’America Latina abbia avuto i suoi “martiri poetici”, come
si dice “uccisi dal potere”, non è una novità. Si sa come laggiù, forse più
che in qualsiasi altro luogo del mondo, la poesia e l’arte tutta abbiano
avuto una funzione fondamentale per lo sviluppo socio-politico.
Ma Violeta Parra, cilena come Pablo Neruda, no: lei non è stata uccisa da
alcun potere costituito. Lo ha fatto da sola, con quel colpo di pistola
sparatosi alla tempia più o meno all’età di cinquant’anni seduta su quella
stessa sedia, piccola piccola come lei, che anni addietro una sua fan le
aveva fatto costruire appositamente.
Aveva appena finito di esibirsi in un teatro di Santiago dove aveva cantato,
in quello che sarebbe di lì a poco sembrato un disperato paradosso
terminologico,
Gracias à la vida , canzone considerata il suo
capolavoro: era la sera del 5 cinque maggio 1967. Violeta era una donna
piuttosto brutta, piccolissima di statura (si dice non superasse il metro e
mezzo) e di origini veramente umili. Le foto ci restituiscono una donna dai
tratti molto marcati, ma senza particolari difetti e comunque dalle
proporzioni disarmoniche. Violeta non godette mai di buona salute, ma seppe
opporre alla propria sofferenza, anche fisica, un ruvido coraggio
esistenziale che anzi spalancò le porte al proprio personalissimo “genio
creativo”.
Era nata in un sobborgo della città di San Carlos, in Cile, il 4 ottobre
1917 ed era la terza di quei nove figli generati nella miseria più assoluta
da un insegnante di musica e da una sarta. Uno di loro, Nicaor, divenne
anch’egli poeta.
La sua vita e la sua “opera” sembrano dunque confermare, ancora una volta,
la validità di quella straordinaria regola aurea per cui “dai diamanti non
nasce niente, dal letame nascono i fior” .
Fu proprio la miseria infatti a portare Violeta, sin dalla più tenera età, a
cantare per le strade e nelle bettole, accompagnata dai suoi fratelli, solo
per raccattare qualche spicciolo. Una necessità di sopravvivenza destinata a
diventare quella stessa arte che, in un circolo magico e disperato,
rincorrerà e determinerà la vita stessa di Violeta.
In quella spaventosa povertà materiale si forgiò dunque la sua personalità
vibrante, sognatrice e anticonformista. Nel corso di tutta la propria
esistenza cercò freneticamente di appagare la propria sete espressiva
utilizzando varie forme d’arte, prima fra tutte la musica.
Una musica struggente, malinconica e, al contempo, delicata quella di
Violeta. Quella stessa musica le cui radici più remote aveva deciso di
rintracciare, recuperare e far rivivere con la sua voce.
Ma non sarebbe esaustivo definire Violeta semplicemente come la maggiore
cantante della musica popolare cilena, della quale peraltro resta
l’interprete più fedele. Il suo è stato infatti un percorso nel quale “vida”
e arte si sono sempre nutrite a vicenda in un invincibile processo di
osmosi.
Sin dagli anni ’50 ebbe così inizio il suo cosiddetto
viaje infinito
che, fino alla fine , la portò a viaggiare col marito e i due figli in tutto
il Cile e poi ancora per gran parte del resto del mondo: col magnetofono
portatile registrava i vecchi cileni incontrati per strada che invitava a
cantare per lei tutte le più vecchie nenie, filastrocche e canzonette
popolari testimoni e reduci di quel passato che altro non era se non la vera
anima del suo Paese.
E’ chiaro dunque come per lei anche il contatto tra arte e politica divenne
un passaggio quasi inevitabile: quel meccanismo di speciale simbiosi tra
vita e arte, la portò infatti - soprattutto negli ultimi anni, gli anni ‘60
- ad avvicinarsi al Partito comunista cileno.
Appartengono infatti a quel periodo i suoi testi più radicali, a tratti
addirittura rivoluzionari e forse fin troppo anticlericali, che ne fecero un
personaggio piuttosto scomodo agli occhi del potere costituito e
istituzionale.
Del folklore diceva :
“Non lo intendo come una sopravvivenza archeologica
isolata che si sviluppa come cultura dominata nei confronti di una cultura
dominante, ma come un fenomeno culturale che corrisponde a determinate forme
sociali e che si trasforma o si annulla in funzione di tale corrispondenza”.
L’opera tutta di questa donna straordinaria e coraggiosa, che ha saputo
essere musicista, poetessa e pittrice e i cui quadri dipinti sulla juta sono
stati esposti addirittura al museo del Louvre, è stata dunque la sua stessa
vita: quella medesima vita che Violeta, pur negandola definitivamente a sé
stessa, decise di cantare al mondo per l’ultima volta in quella calda sera
di maggio di trent’anni fa.
Chiara Agonigi
05/09/2004