Riprendiamo questa inconsueta testimonianza, d’accordo con
l’autore, dalla rivista enogastronomica “Ex Vinis”, diretta ed edita
appunto da Veronelli.
Molti dei miei lettori – molti? Pressoché tutti – si meravigliano
delle mie cavalcate (cavalcate fuori argomento). “Ex Vinis” è il titolo;
solo di vini dovrei scrivere e per estensione, di cibi e di turismo.
Considero d’obbligo giustificarmi. Scrivo di vini, di cibi e di turismo,
alla continua «presenza» dell’uomo. Non rimpiango affatto di aver
abbandonato – 1956, o giù di lì – l’intrapresa via della speculazione
filosofica. Non ho rimpianto da che so che non ne sarei stato capace;
che mi sarei fermato – così come, alla fin fine, è avvenuto – al primo
intoppo. (…). Mi sono occupato, di contro, nel modo più completo e
professionale di editoria. I primi volumi furono di filosofia e di
lettere; poi...poi mi accorsi che non ero imprenditore – economico, dico
– e che mi sarebbe convenuto applicarmi a quel che mi riusciva meglio:
l’assaggio dei cibi e dei vini e il loro racconto. Cibi e vini che
riguardano in modo diretto, in modo più diretto che ogni altro
argomento, l’uomo e la vita.
Credo – da quegli anni cinquanta – che vi sia una chiave reale, per una
sorte felice dell’uomo, per una sua vita migliore. Quella chiave bene si
esprime in due parole: la libertà dell’altro. Questa, solo questa, è la
ragione per cui non mi sembra di staccarmi da quel mio titolo, “Ex
Vinis”, quando non scrivo, puntuale, di vini di cibi e di turismo.
Ciascuno degli elementi di quel viaggio è sempre un gioco, sempre
rispettato. Sì, anche ora che mi decido, finalmente, a raccontarti –
amico lettor mio, amica mia paritaria – di una vicenda in Santo Stefano,
uno scoglio più che un isolotto, pressoché sconosciuto, proprio di
fronte a Ventotene, isola grande.
Luigi Veronelli
L’antica Pandataria
Stassentire.
Ventotene – per quelli della mia generazione, che uscivano dall’orrifico
fascismo (all’inizio della seconda guerra mondiale avevo 14 anni) – non
era il luogo di varie attrattive che è oggi. Isola del mar Tirreno che
appartiene (con l’isolotto di Santo Stefano) al gruppo più orientale
dell’arcipelago delle isole Pontine.
Anticamente era chiamata Pandataria e vi furono deportati molti illustri
esponenti dell’aristocrazia romana e, addirittura, delle famiglie
imperiali come Giulia, Ottavia e Agrippina Maggiore.
Settembre 1964. Mario D’Ambra, allora l’indiscutibile, reale promoter
della vitivinicultura campana (i suoi vini d’Ischia – Biancolella,
Forrastera e Per’e Palummo, erano i soli ad aver campo nei ristoranti
d’Italia tutta), aveva invitato me e i miei familiari, Maria Teresa,
moglie, Benedetta, Chiara e Lucia, figlie, per una vacanza in quello
scoglio a lui caro per la sconvolgente bellezza dei luoghi, la
solitudine e la caccia alle beccacce e ai beccaccini. Fossi saggio,
avrei tenuto un diario. D’estremo interesse per le tante «avventure».
Sì, s’era soli. Allo sbarco, in una cala minima e rocciosa, aperta al
mare mosso (si saltò, letterale, dal barcone che ci aveva prelevati in
Ventotene, su uno scoglio, bagnato viscido, noi e le valigie), ci
accolse un contadino e la sua mula.
Lungo un viottolo, quasi sempre a picco sull’onde, carica, stracarica la
mula, giungemmo all’unica costruzione – aveva un non so che di
spagnolesco – ove ci accolse Mario. Era stata, ci disse, la casa fuori
del Penitenziario che si ergeva sul culmine dello scoglio, imponente e
tetro. Già allora il sinistro luogo di pena era stato spogliato di
tutto, proprio tutto, sino a scardinare gli infissi, gli impianti
igienici, le tubature, i cancelli, le barre, quant’altro. Era ancor più
sinistro di quel che doveva già essere negli anni in cui ospitava gli
sciagurati, sventurati, derelitti.
Penitenziario, per i condannati a vita. L’ergastolo. Nessuna volontà di
redimere. Solo persecuzione e pena. Sì, quel mancato diario.
Dell’avventure – tante, gioiose – ne racconto una sola, tristissima.
Ho camminato i lunghi corridoi e le celle; ho sostato – si arrovesciava
il cuore – nelle «gabbie» di rigore, un metro e mezzo, per un metro e
mezzo, per un metro e mezzo, sottosuolo. Chi v’era rinchiuso non poteva
stare eretto. Sapevo della lunga detenzione, in quelle celle, cui era
stato costretto Gaetano Bresci, il giovane atleta, giunto di lontano,
per attentare e uccidere, 29 luglio 1900, re Umberto I. Lo aveva fatto.
E oggi ci si rende ben conto: aveva sbagliato.
Oggi. Era venuto d’America, sdegnato per le repressioni vili e
sanguinarie, fine 1800 e convinto, allora, che uccidere un re, colpevole
verso l’umanità, fosse un atto risolutivo.
Fu rinchiuso in una delle gabbie, sottosuolo, in Santo Stefano.
Se la cammini, l’isola, anche nei luoghi più incantati per l’ardire
senza eguali della bellezza, appena ti estranei, senti voci non solo del
vento. Ti raccontano le persecuzioni di cui fu oggetto, in quelle
gabbie, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo.
Condanna a morte
Gaetano visse da uomo libero.
Non rinnegò la sua idea. Non ottenne un metro, per un metro, per un
metro, di più. Non ergastolo. Fu condanna alla morte. Morì pesto e
battuto nella carne (la sua anima non poteva essere battuta, pestata,
offesa, era l’Anima), dieci mesi dopo, 22 maggio 1901.
Maria Teresa e le figlie, in quel periodo tra i più belli della nostra
vita, una volta sola si accorsero del mio turbamento.
Quando entrammo nel minimo cimitero, infoibato tra le rocce (ti voltavi
ed era un paradiso: il mare e un po’ decentrata, l’isola di Ventotene),
una frase all’ingresso: «Qui finisce la giustizia degli uomini. Qui
comincia la giustizia di Dio», minime croci di ferro arrugginito e dei
cartigli ai piedi. Là, proprio là, il cartiglio di Gaetano Bresci.
Piangevo, va da sé; Maria Teresa mi guardava commossa. Mi prese la mano.
Sorprese le bimbe e ammutolite.
Trascrissi, a uno a uno i nomi dei cartigli:
entrando a sinistra:
Montalbano G. 15.4.1906/11.7.1959
De Roma Francesco 15.2.1945
Donatangelo Pasquale 13.9.1954
Durante Felice 14.3.1944
Lai Salvatore 28.9.1931
Entrelli Rocco 16.8.1950
Mediati o Mediali Rocco 26.2.1952
Imbrindo Domenico 9.7.1950
Iacono Lucio 21.2.1940
Forte Michele 24.9.1945
De Rocca Salvatore 26.5.1949
Toscailli o Roscailli Benedetto 6.12.1943
distrutta
Giorgi Luigi 27.6.1914
distrutta
entrando da destra:
distrutta
Lota Kasem 16.2.1945
Dosko o Posko Nazir 9.6.1945
Ussello Giuseppe 15.5.1945
Galdi Giuseppe 16.5.1938
Nangini Guido 28.10.1946
Saracco Natale 29.5.1926
distrutta
Di Benedetto Vincenzo 19.11.1918
Sacchi Luigi 20.9.1917
Carota Antonio 25.4.1915
Reda o Beda Giuseppe 9.10.1915
Si scendono 3 gradini a destra
Pilia Benigno 19.2.1923/22.7.1962
Di Santo Rufino 11.6.1888/12.5.1957
Bresci Gaetano 22.5.1901
Messina Pietro 27.8.1908/26.4.1962
Lizio Rossano 17.1.1904
De Cuzei Giuseppe 12.6.1904
Pannuccio Antonio 25.9.1904
Monte Gaetano 3.5.1904
Biase Donadio 18.2.1904
Gemina (?) Domenico 30.10.1904
si scendono 3 gradini a sinistra:
distrutta
Baetta Filadelfo 30.3.1909 ?
Rodessi Giovanni 14.6.1909
Fissore Giuseppe 31.1.1909
Tupponi Sebastiano 30.3.1908
Lai Antioco 29.6.1908
Baches Raffaele 7.11.1906
Quante volte mi sono chiesto: sarebbe stato giusto confidare prima
questa mia scoperta? Come sarà, oggi, quel desolato luogo? Avrei dovuto
– avrei voluto – divenisse meta di un pellegrinaggio mio – mio, solo mio
– annuale.
Fare di quel luogo la mia Mecca. Non ci sono mai tornato. Questo non
ritorno pesa, sull’animo mio, come un macigno.
Luigi Veronelli
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