Lo scorso 6 luglio, nella sua
casa in via Paolo Sarpi, a Milano, si è spenta la vita
di Pietro Valpreda. Si è spenta dopo una lunga malattia,
un cancro devastante che l’ha fatto tribolare
nell’ultimo periodo della sua vita. I funerali,
organizzati dal circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”
ed in particolare da Mauro Decortes (che gli è stato
vicino come un fratello) si sono svolti nel primo
pomeriggio di lunedì 8, nella sede anarchica di viale
Monza 255: un corteo di 3.000 persone si è snodato lungo
un tratto del viale. Musica classica e jazz (come da lui
richiesto) e canti anarchici hanno fatto da sfondo
musicale. La salma è poi stata cremata.
Clima pesante
Pietro nasce a Milano nel 1933. Dai primi anni ’60
frequenta gli ambienti anarchici a Milano, a Roma, dove
lo porta la sua professione di ballerino nei teatri di
rivista. Intorno al ’68 dà vita, con altri più giovani
compagni, ad un gruppo anarchico, scegliendo come nome
la data dell’inizio del movimento di lotta francese: il
22 marzo. Il gruppo è caratterizzato da posizioni
spacca-tutto e da un linguaggio incendiario: me li
ricordo bene quando in piazza Duomo, durante un corteo
nel ’69, gridano a squarciagola “Bombe, sangue,
anarchia” e noi – militanti e simpatizzanti del circolo
anarchico “Ponte della Ghisolfa” (con la sede, allora,
in piazzale Lugano, nel quartiere periferico della
Bovisa) – sovrapponiamo con la stessa cadenza e con voce
ancora più forte “Malatesta, Cafiero, Bakunin”. Cercando
di evitare che la gente senta simili bestialità.
Per questo loro modo di presentarsi e per l’estrema
“apertura” del loro gruppo (predestinato ad ogni tipo di
infiltrazione e provocazione), Valpreda ed i suoi
compagni sono guardati male dal movimento anarchico
(variamente) organizzato. A Roma commettono in quei mesi
una grave scorrettezza, mettendo su di un loro volantino
antimilitarista, infarcito di espressioni… da denuncia,
non il proprio indirizzo, ma quello della sede anarchica
di via dei Taurini, punto di riferimento del movimento
anarchico organizzato e sede della redazione del
settimanale “Umanità Nova”. A Milano, nel marzo 1969,
Valpreda con altri due giovani compagni pubblica il
ciclostilato Terra e libertà in cui tesse
l’elogio di Ravachol, discussa figura di anarchico
dinamitardo di fine Ottocento.
Ce n’è abbastanza perché i militanti li tengano a
distanza. A Milano Valpreda viene allontanato dal “Ponte
della Ghisolfa”. Idem a Roma, dove i compagni della FAI
– quelli di via dei Taurini – fanno capire alle “teste
calde” del 22 marzo che “non è aria”.
Ricordiamoci che la persecuzione poliziesca e la
campagna di calunnie contro gli anarchici inizia su
scala nazionale subito dopo alcuni attentati del 25
aprile 1969: vengono arrestati alcuni anarchici, ai
quali frettolosamente e senza prove viene addossata la
responsabilità. Due anni dopo, in sede processuale,
verranno riconosciuti innocenti. Ma intanto il clima si
è fatto pesante, ci sono compagni in galera, la tensione
si taglia con il coltello e la pressione della polizia
si fa insistente: i militanti anarchici sentono
l’esigenza di fare chiarezza verso chi ostenta
comportamenti poco seri, estremismi verbali, ecc...
Non è questa la sede per ripercorrere quelle vicende e
preferisco rimandare alla lettura dell’ottimo volume
Bombe e segreti (Elèuthera, 1997), scritto da
Luciano Lanza – attivo militante del “Ponte della
Ghisolfa” in quegli anni, poi nel 1971 tra i fondatori e
per un decennio redattore di questa rivista, ora
responsabile della rivista (nostra cugina) Libertaria.
Quell’undici febbraio ’69
Quel che mi preme sottolineare è che con il suo
comportamento Pietro Valpreda – che di quell’ambiente un
po’ folkloristico è il più “anziano”, l’unico non
ragazzino – attira su di sé l’attenzione interessata
delle forze repressive, che in quei mesi si attivano per
inserire un loro uomo (il poliziotto Salvatore Ippolito)
in quel gruppetto, un cui altro membro (Mario Merlino) è
stato per anni un attivista neo-nazista e, pur avendo
abbandonato i camerati per “abbracciare la causa
anarchica”, mantiene rapporti con boss del livello di un
Pino Rauti.
Personalmente conosco Pietro nel ’68, umanamente mi è
subito simpatico ma non mi piace quel suo estremismo
verbale. Insieme partecipiamo all’organizzazione della
manifestazione anticlericale dell’11 febbraio 1969. In
vista del quarantesimo anniversario dei Patti
Lateranensi e del Concordato clerico-fascista del ’29,
alcune forze politiche (tutte piccole) accettano
l’invito dei radicali a trovarsi presso la loro sede di
via Lanzone per mettere a punto l’iniziativa. Valpreda
viene, ci sono anche i radicali Carlo Oliva, Felice
Accame, c’è Franco Corleone (allora esponente dei
giovani del Partito Repubblicano), per gli anarchici
della Ghisolfa c’è Pinelli, io – che già bazzicavo gli
anarchici – rappresento in quella sede il Movimento
Studentesco della mia scuola, il liceo Carducci. E così,
quando l’11 febbraio ci ritroviamo in corso Venezia,
scortati da numerose forze dell’ordine, a gridare “Né
Chiesa, né Stato, né servi, né padroni”, ci sono anche
le varie anime dell’anarchismo.
Più volte in quel periodo mi capita di riaccompagnare
Pietro in moto a casa di sua zia. E con lui si parla
molto, è un tipo simpatico, ricco di umanità, un po’
spaccone. Ma aldilà delle differenze (anche
d’abbigliamento: lui eccentrico, io “normale”), c’è un
feeling di simpatia. E ci si ritrova, a volte, presso
l’edicola in via Orefici, a due passi dal Duomo, gestita
dall’anarchica Augusta Farvo: una bella figura di
compagna, oggi quasi novantenne, anche lei presente ai
funerali di Pietro.
“La furia della belva umana”
Il 12 dicembre 1969 Valpreda è a casa della sua
prozia Rachele Torri e vi rimane tutto il giorno, ed
anche i successivi, febbricitante. Non ha piazzato lui
la bomba nella Banca dell’Agricoltura, in piazza
Fontana. Non ha fatto niente, perché è rimasto tutto il
giorno chiuso in casa. Ma il 15 dicembre, mentre si reca
in Tribunale per una piccola pendenza politica, viene
arrestato. 0E lì inizia un vero e proprio calvario, che
durerà tre anni, ne segnerà la vita e lo trasformerà
nell’anarchico più famoso in Italia.
Valpreda è perduto. La furia della belva umana
(“Corriere d’informazione”), L’anarchico Valpreda
arrestato per concorso nella strage di Milano
(“Corriere della Sera), Arrestati gli assassini
(Il Messaggero), Un anarchico arrestato per la strage
(Il Resto del Carlino), Arrestato un comunista per la
strage di Milano (Il Secolo d’Italia), Il mostro
è un comunista anarchico ballerino di Canzonissima:
arrestato (Roma). Sono questi alcuni dei titoli
cubitali dei quotidiani del 17 dicembre.
Proprio lo stesso giorno i militanti anarchici milanesi
convocano una conferenza-stampa nello scantinato alla
Bovisa che ospita il circolo anarchico “Ponte della
Ghisolfa. “Valpreda è innocente, Pinelli è stato
assassinato, la strage è di Stato” sostengono i
compagni, certi – senza alcuna ombra di dubbio –
dell’innocenza di Pietro. Certo, lui si era più volte
comportato come “un pirla”, come lo aveva definito
Pinelli (assassinato in questura due notti prima della
conferenza-stampa) con quel suo minacciare verbalmente
“bombe, sangue, anarchia”. Ma tra il dire e il fare… Qui
si è davanti ad un gioco molto più grosso, nel quale
devono essere coinvolti, e ai massimi livelli, lo Stato
e i fascisti.
I pochi giornalisti presenti ascoltano, prendono
appunti. Ma non danno credito a quel pugno di anarchici,
preferendo far del colore sulle nebbie della periferia,
sullo scantinato visto come “un covo”. Farneticante
conferenza-stampa al Circolo Ponte della Ghisolfa.
Nessuna recriminazione fra gli anarchici. Titola il
giorno dopo il “Corriere della Sera”.
Inizia proprio da quella conferenza-stampa la battaglia
di giustizia e verità che progressivamente si estende
alla sinistra extra-parlamentare, poi a quella
parlamentare fino ad abbracciare, tre anni dopo, ampi
settori della società. Nel nome di Valpreda (e dei suoi
co-imputati, e di Pinelli, e dei tanti compagni caduti
in quegli anni sotto il piombo poliziesco o in imboscate
fasciste) si sviluppa la più vasta mobilitazione
popolare nell’Italia del dopoguerra: migliaia di
iniziative, una grande tensione, una campagna di
contro-informazione che si sviluppa capillarmente un po’
ovunque.
Si arriva nel ’72 (dopo che Valpreda è stato
candidato-protesta nelle liste elettorali de “Il
Manifesto”) all’approvazione da parte del Parlamento di
una legge appositamente promulgata per permettere la
scarcerazione di Valpreda, vissuta come un’ingiustizia
bruciante da troppe persone. Quella legge, passata alla
storia come “legge Valpreda”, abroga la norma
precedentemente in vigore, secondo la quale un imputato
per gravissimi reati (tra cui, la strage) non poteva
essere scarcerato fino ad una sentenza di assoluzione.
Con la nuova legge, invece, la scarcerazione anche in
quei casi è possibile. E così Pietro può uscire,
salutato da festosi articoli di gran parte dei
mass-media, compresi quelli che ne avevano accompagnato
l’arresto con complimenti tipo “mostro”, “assassino”,
“belva”.
In quei tre anni Pietro, nella sua cella, regge ad una
poderosa pressione, tendente a fargli confessare quello
che non aveva fatto. Con un’imputazione da ergastolo e
tanti fuori che invocano per lui la pena di morte,
Pietro diventa subito il protagonista di una vicenda
allucinante. Conosce sulla propria persona, sul proprio
fisico, la malvagità e la falsità del Potere, quello con
la P maiuscola: quello che incrimina i suoi parenti che
ne confermano l’alibi, che cerca di far crollare la
vecchia zia Rachele, che per lunghe settimane cerca
disperatamente di “sporcare” Pinelli e gli anarchici in
generale.
Pietro diventa un simbolo, come nel caso Dreyfuss, come
nella vicenda di Sacco e Vanzetti.
Qualche mese dopo il suo arresto, mentre fuori ferve
la campagna di controinformazine sulla strage di Stato,
gli scrivo una prima lettera in carcere – un po’ timida
– di incoraggiamento e di saluto, lui mi risponde (e i
miei si impressionano vedendo arrivare a casa una
lettera da Rebibbia: da qui la mia decisione di prendere
una casella postale…). E nelle sue lettere – che ho
conservato – mi colpisce un Pietro più ragionevole di
quello che avevo conosciuto fuori. Si pone il problema
della continuità della vita sociale anche in epoca
rivoluzionaria (e in molti, in quel periodo, pensavamo
che magari ne avremmo vissuta una, e neanche dopo troppo
tempo), cita Errico Malatesta e le sue intelligenti
osservazioni in materia. Sorprendente.
Una pacca sulle spalle
Nel 1972 esce di carcere. Per molto tempo l’incubo
dell’ergastolo prolunga la sua ombra sulla sua vita
quotidiana. Intanto, dall’unione con Lauretta, nasce
Tupac. E poi, nella sua vita, ci sarà Pia, dolce e forte
compagna. I processi si succedono: Roma, Catanzaro,
Roma. Nel 1979 arriva la prima, grossa assoluzione: la
festeggiamo con una cena nella trattoria vicino alla
redazione di “A”. Ci sono Corrado Stajano, Camilla
Cederna, Luca Boneschi, Marco Nozza e altri esponenti
della “società civile”, della Milano democratica e
impegnata, che tra i primi si sono mobilitati per la
verità, per Pietro. E lui, al suono della fisarmonica di
Gigi, balla come… un ballerino. Un ballerino anarchico,
appunto. Partecipa a centinaia di conferenze, dibattiti
pubblici, interviste televisive.
È rimasto un tipo impulsivo, a volte si lascia andare a
dichiarazioni un po’ forti. Anche perché resta un
“personaggio pubblico” ed i giornalisti non mancano di
sollecitarne le dichiarazioni su fatti clamorosi di
cronaca politica.
Ricordo un giro nel Triveneto proprio nell’80, dopo
l’assoluzione di Catanzaro. Ogni sera centinaia di
persone, Vicenza, Padova, Trieste. A Marghera, a casa di
Elis ed Elettra, dormiamo nel loro letto matrimoniale.
Mi ricordo le sghignazzate quando gli confesso: “È la
prima volta che vado a letto con un mostro”. “Sarai
bello tu” mi risponde. E di fronte al pubblico, quando
lo vedo partire per la tangente, qualche toccata al
ginocchio o qualche tirata alla giacchetta spesso evita
che il giorno dopo i giornali speculino su qualche
parola di troppo. Spesso, non sempre.
Con il morbo di Buerger aggravato dalla detenzione,
Valpreda non può più proseguire la sua carriera di
ballerino. Vende libri per l’Einaudi, poi nel popolare
quartiere del Garibaldi apre un locale (“La Barricata”)
e lo gestisce per anni. È il Peder di sempre,
estroverso, disponibile con tutti, chiacchierone, un po’
bauscia (“spaccone”, in milanese). In tutti
questi anni la gente lo riconosce per strada, una pacca
sulle spalle, “dai Pietro, l’ho sempre detto che sei
innocente” e via. E lui continua a bazzicare gli
ambienti anarchici, le manifestazioni, soprattutto è
sempre presente la sera del 15 dicembre al corteo
tradizionalmente organizzato dal Circolo anarchico
“Ponte della Ghisolfa” per ricordare l’assassinio di
Pinelli: un corteo che significativamente parte sempre
da piazza Fontana. Si appassiona alle tematiche del
federalismo e del localismo, entra in contrasto con
molti compagni per le sue esagerazioni in materia. Certi
accenti di tipo leghista sono penosi. E, come un quarto
di secolo prima, si litiga.
Negli ultimi anni scrive quattro gialli che si
aggiungono ad un libro di poesie scritto ai tempi della
detenzione. Il primo Tri dì a luii pubblicato dal
Circolo Ponte della Ghisolfa. Gli altri tre, scritti con
Pietro Colaprico, editi dall’editore Tropea. Poi il
progressivo aggravarsi delle sue condizioni di salute,
fino alla morte.
Comunque, un simbolo
Con la morte di Pietro si sarebbe dovuta chiudere
un’epoca, quella che iniziò con la criminalizzazione
degli anarchici per gli attentati del 25 aprile ’69 e
poi esplosa con il catapultamento del “colpevole”
Valpreda in pasto ad un’opinione pubblica frastornata
per le bombe del 12 dicembre e per la morte in questura
di Pinelli. Invece gli strascichi politico-giudiziari di
quei fatti non sono ancora finiti.
Pietro Valpreda, l’anarchico Valpreda, resterà comunque
nella storia del nostro Paese quale simbolo di una
vicenda per molti aspetti molto più grande di lui, di
cui fu la vittima non passiva, ma resistente – con il
suo fermo e dignitoso comportamento. Aldilà dei suoi
difetti, gli stessi che quasi sembrano averlo
“predestinato” a quel ruolo, resta innanzitutto la
valenza simbolica della sua drammatica storia personale,
oggettivamente intrecciata con gli sporchi disegni del
Potere, con i silenzi di Andreotti, con le indagini
indirizzate a senso unico, con le coperture dei
fascisti, con i servizi segreti più o meno deviati.
La più grossa montatura politico-giudiziaria del secolo
scorso in Italia resterà per sempre legata al nome di
quest’uomo, di questo nostro compagno, al quale comunque
abbiamo voluto bene.
Intorno alla sua bara, in una bollente giornata di
luglio, ci siamo ritrovati in tanti: un’umanità varia,
quasi un campione di quella che lo ha circondato in
vita. C’erano gli anarchici, innanzitutto quelli del
Ponte della Ghisolfa che più di tutti gli sono stati
vicini. Tanti compagni, anche di quelli che in più
occasioni con Pietro avevano avuto motivi seri per
litigare. Ho poi visto tanti volti del dicembre ’69, i
militanti della “Crocenera Anarchica” di allora, alcuni
suoi coimputati per la strage, Paolo Braschi ed altri
imputati (poi assolti) per le bombe del 25 aprile ’69,
alcuni degli avvocati di punta della mobilitazione
anti-strage (da Luca Boneschi a Francesco Piscopo),
tanti esponenti del popolo di sinistra che si mobilitò
per Valpreda, “Atomo” di Rifondazione, Arturo Schwarz,
Franca Rame, Corrado Stajano, Licia Pinelli, Franco
Trincale che tante volte in piazza ne ha cantato con la
sua chitarra l’innocenza, e tante tante altre persone.
Ognuna con la sua storia, ognuna con le sue ragioni per
essere vicina a Pietro.
Paolo Finzi |