Il valore della democrazia
di Andrea Papi

da Rivista Anarchica on line

 

La democrazia è sempre più ridotta ad uno slogan propagandistico. Solo l’anarchia può rendere effettuale l’assunto democratico della libertà.

 

 

Per l’occidente al potere, cioè per le forze governative che dichiaratamente con grande supponenza si stanno autoponendo a salvaguardia dei valori su cui si fonda l’attuale concetto occidentale di benessere dei popoli, oggi la democrazia è diventata la cartina di tornasole che dovrebbe misurare il tasso di libertà di ogni singolo stato in tutto il mondo. Vissuta e proposta come la panacea che dovrebbe liberare le forze migliori ed assicurare la garanzia del rispetto dei diritti individuali, a tutti gli effetti è stata assunta quale metro di giudizio per decidere come trattare chi non vi si vuole adeguare, ovviamente con le buone o con le cattive. In altre parole la democrazia è ridotta ad uno slogan propagandistico, capace di immettere sul mercato globale del consenso la bandiera dei presunti supremi valori occidentali, contrabbandati come superiori a qualsiasi altro di qualsiasi altra tradizione di civiltà. È ormai di fatto diventata sempre di più un alibi considerato buono per svariati usi e consumi, dai più redditizi ai più efferati.

In suo nome

In nome suo si dichiarano e si fanno guerre dagli effetti sempre più devastanti nei confronti delle popolazioni inermi. In nome suo gli stati superpotenti e le multinazionali sovrannazionali finanziarie e mercantili fanno spensierate e segrete alleanze con regimi dittatoriali di piccolo cabotaggio, capaci di distinguersi nell’arte redditizia di sorreggersi esclusivamente sull’efferatezza e la corruzione. In nome suo si perpetuano con gran disinvoltura situazioni di sfruttamento e di oppressione, alcune al limite della sopportabilità, stati di povertà e di miseria sotto la soglia dell’umano culturalmente accettata, situazioni di disuguaglianza sociale ed economica capaci di abbruttire. Di fatto in nome suo da diversi decenni il mondo sta consumando una quotidiana tragedia che vede quali indiscusse protagoniste la sopraffazione, l’ingiustizia, l’oppressione, le guerre. È del 14 gennaio scorso il rapporto allarmante e pessimista sullo stato dei diritti umani nel mondo, che investe indistintamente tutti gli stati, presentato alla riunione annuale ONU della Commissione per i diritti dell’uomo.
Eppure la parola democrazia continua ad evocare un eden politico fondato sulla libertà diffusa, sul rispetto delle singole persone, sulla garanzia dei diritti fondamentali. Nonostante tutto continua ad essere considerata l’invenzione politica più consona a realizzare le mai sopite aspirazioni di convivenza pacifica e giusta tra gli esseri umani. Perché, dunque, nel momento in cui ha trovato storicamente la maniera di diventare da momento potenziale momento effettuale, l’esperienza che ha messo in campo sta sortendo effetti che ne contraddicono la spinta propulsiva? Perché il percorso vissuto della sua attesa attuazione ha generato un mostro, non riconosciuto tale dalle oligarchie dei potenti e dagli intellettuali che ne traggono beneficio, ma sofferto come tale dalle masse di individui che ne subiscono ogni giorno gli effetti? La democrisia, come l’ha definita Massimo Nava nel suo ultimo libro, alludendo all’ipocrisia di cui è infarcita la democrazia del potere globale (1).
Nella sua formulazione quasi lapidaria la risposta appare semplice: ne è stato stravolto il senso originario. Dal momento in cui la democrazia prese avvio, trascinata con veemenza sulla scena storica dalla forza della rivoluzione (Francia 1789), da possibilità in potenza trasformandosi in fatto operativo, i nuovi moderni poteri costituiti cominciarono a mettere in atto un’operazione culturale di progressiva deprivazione di senso, per preparare una sostituzione di senso. Il fine non dichiarato (ma quando mai lor signori dichiarano le proprie intenzioni?) era quello di trovare un supporto ideologico in grado di giustificare l’instaurazione del nuovo potere, che sorgeva sulle ceneri del vecchio, l’ancien régime abbattuto, trascinato dalla richiesta popolare di istituire un nuovo assetto politico sociale che avesse le caratteristiche della democrazia, cioè di una partecipazione del popolo attiva e verace. Dovevano andare incontro alla richiesta popolare e, nello stesso tempo, garantirsi l’instaurazione del nuovo potere, eteronomo al pari di quello abbattuto, ma che avesse l’apparenza dell’autonomia come a gran voce richiedevano gli eventi.
Ne conseguì che fu inventata e prese piede la democrazia rappresentativa, come fu definita, assicurandosi tecnicamente il consenso e al contempo una chiara e netta separazione tra il potere costituito e il popolo, riproducendo in forma nuova e partecipata la divisione gerarchica tra chi comanda e chi è comandato, tra chi ha il potere e chi lo subisce. La logica del dominio, che da molti millenni incombe sulle sorti delle genti e che la rivoluzione aveva tentato di scalzare con la forza degli eventi, era così riuscita a reintrodursi adattandosi al nuovo sentire ed al nuovo volere. Diventa allora indispensabile capire un minimo il senso originario e quello del suo stravolgimento moderno imposto al momento della messa in opera.
Essa nacque e prese forma per la prima volta nella Grecia antica, nella città stato di Atene. Il suo maggior elaboratore teorico fu Aristotele, che capì subito che il problema politico fondamentale risiede nel potere decisionale e la inserì nella nota tripartizione delle forme possibili di governo: la monarchia, l’oligarchia e la democrazia. La monarchia è caratterizzata dal potere di un solo reggente, il monarca appunto, il quale assomma unicamente su di sé il potere di decidere per tutti, con l’annessa facoltà d’imporre ad ogni suo sottoposto la propria volontà. L’oligarchia letteralmente è il governo di pochi, di un’élite in linguaggio attuale, che comprende la variante specifica dell’aristocrazia, cioè del governo dei nobili, la minoranza aristocratica. La democrazia è il governo del popolo, dei più secondo Platone, letteralmente di tutti i componenti la società. Tradotto in termini quantitativi, le tre forme di governo si distinguono in quella di uno solo, in quella di una minoranza di pochi e in quella di tutti o, a seconda delle interpretazioni, della maggioranza.

Demokratia e gubernum

Per capirci qualcosa entriamo più addentro al senso vero della democrazia, che è un po’ più complesso di quello che la propaganda occidentale in auge ci sta contrabbandando. Partiamo dal significato originario: demokratia, ovvero kratia (governo, potere) del demos (popolo quale insieme dei cittadini, i politei). Il popolo vi detiene la sovranità del potere ed ha la titolarità di governare in quanto popolo. L’atto del governare inerisce all’azione capace di tenere la direzione giusta (il latino gubernum indica il timone della nave, meno efficace del greco kratia che con più aderenza al senso politico comprende il potere, quale capacità e potestà insieme, di decidere e tenere la direzione appropriata). Il governo non è in sé un’istituzione giuridica costituita (es. il premier e il consiglio dei ministri), come oggi viene comunemente inteso, ma una funzione sociale, che nella democrazia originaria dovrebbe essere svolta e condotta dal popolo nel suo insieme.
In democrazia dunque, per come è stata concepita e per il senso che continua a trasmettere, il popolo è sovrano ed è il vero titolare della gestione governativa. Il governo del popolo, appunto. Ma già in quest’assunto, frutto di una traduzione inadeguata, sono contenute ambiguità che vanno chiarite, se siamo spinti dalla volontà di una comprensione appropriata e idonea a capire veramente. Quel “del”, riferito al popolo, viene infatti inteso in maniere contrastanti. O come semplice espressione di un rito collettivo, com’è per esempio il voto elettorale, o come proprietà di, nel senso che l’atto del governare non è esercitato direttamente da chi ne è titolare mentre ufficialmente appartiene agli elettori che hanno designato chi lo esercita in loro vece, o come momento concreto e reale di esercizio diretto del potere da parte del popolo, che ne è sovrano e titolare. Delle tre l’unica interpretazione coerente non può che essere la terza, se si vuol veramente rientrare nel significato originario con serietà e chiarezza. Le altre due sono interpretazioni di comodo per adeguare il concetto a condizioni che deviano dal senso di partenza e appartenenza.
Affinché il popolo possa essere realmente sovrano bisogna che gli si permetta di trovare la maniera di esprimere la propria volontà e di decidere di conseguenza, dev’essere cioè libero di esprimersi in tutta la sua pienezza e complessità, tenendo conto che, per la natura stessa di cui è costituito, il popolo non può essere inteso come un corpo unico, ingessato e rigido, dal momento che è composto da una pluralità di individui, diversi l’uno dall’altro per il fatto stesso di essere individui. La democrazia allora, nella definizione delle sue procedure, come prima preoccupazione dovrebbe avere quella di rispettare la complessità della naturale pluralità del demos, che può realizzarsi soltanto se tutti gli individui sono liberi di esprimersi e di decidere insieme, in una condizione collettiva in cui nel farlo trovano reciprocamente pari considerazione e pari possibilità.
Se infatti può esprimersi e decidere solo una parte, è intuitivo che il demos viene scomposto in due parti, una che ha la potestas, il potere di decidere, e l’altra che deve accettare le decisioni che la prima ha preso. È il caso della democrazia cosiddetta rappresentativa, in cui il popolo è lacerato da una divisione che ripropone il rapporto dell’ancien régime tra dominanti e dominati, tra decisori ed obbedienti (i riottosi vengono sanzionati per legge). Non è a caso che non è classificata col solo termine che pretenderebbe le appartenesse, cioè semplicemente con democrazia, mentre ha bisogno dell’aggettivo rappresentativa per definirne la specificità. In verità dunque non possiamo sostenere, come con sicumera si continua a fare da più parti, che siamo in democrazia tout-court, bensì, se vogliamo essere onesti, in un regime che parte dalla democrazia come ispirazione di origine, ma che ha scelto di trasformarsi in un’altra cosa. Quest’altra cosa vigente in qualche modo le assomiglia, ma non è più lei, proprio perché non vi è rispettato l’assunto fondamentale, che cioè il demos, il popolo in quanto tale e nella sua interezza, oltre ad avere il titolo di essere sovrano dovrebbe avere soprattutto la potestas, il potere di esercitare la propria legittima sovranità, che non ha.

Divisione gerarchica del comando

La democrazia cosiddetta rappresentativa, inventata per ripristinare la divisione gerarchica del comando, si è imposta sul corpo della democrazia eliminando tutte quelle forme che permettevano l’esercizio effettivo del potere decisionale popolare, come le deleghe con mandato, il controllo sui mandati e la revocabilità immediata nel caso che il mandato non venga rispettato. Se si fosse permesso al popolo di avere il controllo effettivo delle decisioni, attraverso gli organismi che si era creato spontaneamente (in ogni rivoluzione che ha fatto la storia, da quella francese a quella russa, sono state castrate le strutture che hanno definito autonomamente l’ambito e i modi del proprio intervento, come club, comitati e consigli, per poi instaurare regimi totalitari), non sarebbe stato possibile imporre un potere in grado di ridefinire la nuova forma di dominio.
Si è lasciata la forma partecipativa delle elezioni, per cui si è regalata l’illusione di prender parte al gioco politico in cui si decide veramente, ma al contempo è stato tolto ogni vero esercizio della sovranità effettiva. Impedita e poi tolta l’autonomia politica dell’esercizio della sovranità di cui rimane formalmente titolare, si è richiesto e permesso al popolo solo di eleggere dei rappresentanti, che di fatto non lo rappresentano perché non hanno un mandato controllabile e revocabile. Sono altresì dei delegati senza mandato, cui per legge viene demandato il potere di decidere. Di fatto la supposta rappresentanza si risolve in una designazione a governare in vece di chi esprime il voto. È a tutti gli effetti un’espropriazione dell’esercizio della sovranità. Tanto è vero che lor signori sono costretti a dichiarare che scelgono in nome degli eletti anche quando le loro scelte non trovano concordi gli elettori stessi. La democrazia cosiddetta rappresentativa nei fatti non è rappresentativa se non degli interessi di potere in campo, mentre politicamente non è altro che un’immensa delega che ha l’unico scopo di designare elettoralmente l’esercizio di un potere puramente oligarchico, che trascende e tradisce senso e significato originari. Non è quindi né rappresentativa né democratica.
Il capolavoro di espropriazione della volontà popolare viene compiuto con Schumpeter, il quale conduce al limite estremo la deprivazione di senso. Schumpeter restringe ulteriormente lo spazio della rappresentanza: ispirandosi alla concorrenza economica del mercato capitalista riduce la competizione elettorale alla lotta per la designazione dei leader. L’insieme dei cosiddetti rappresentanti non è più visto come consesso di eletti, che poi si misureranno nel parlamento come individui alla pari, ma analizzato e proposto come schierame di sostenitori che fanno massa per dare forza alle leadership, unica forza politica che conta, nel gioco politico oligarchico di conquistare il potere di decidere veramente. Il bello è che praticamente ha fatto scuola ed ha trovato consenso tra i maggiori teorici della democrazia che sono venuti dopo di lui.
Non c’è affatto da scandalizzarsi. Sarebbe ipocrita. In fondo, soprattutto da quando c’è una massiccia immissione mediatica, tecnologica e informatica nella regolazione dei rapporti politici ed economici a livello globale, a cosa si è ridotta la politica oggi nei paesi cosiddetti democratici per eccellenza? A tutti gli effetti è un continuo gioco per estorcere consenso popolare alla permanenza delle leadership imperanti, espressione delle oligarchie dominanti, gestito con ingenti risorse, di provenienza frequentemente poco chiara, dal Grande Fratello dell’attuale era tecnologica, l’immenso circo mediatico che ci sovrasta, sempre più suadente, ingombrante e invadente.
A ben ragionare del resto, se proprio cerchiamo una vera coerenza semantica rispetto al suo significato originario, l’anarchia, che in modo inequivocabile si pone politicamente come superamento di ogni forma di dominio, paradossalmente rappresenta la manifestazione più radicale e conseguente dell’assunto democratico. Tanto è vero che la pluralità delle proposte anarchiche riconosce, propugna e, tutte le volte che le riesce possibile, sperimenta forme di democrazia diretta, che escludono deleghe di potere e rappresentanze fasulle. La ricerca e la tensione anarchiche si fondano sulla realizzazione di un’autentica libertà sociale, dove il livello individuale e quello collettivo trovano armonica compiutezza nella reciprocità e nella solidarietà delle relazioni, sempre concordate mai imposte. Rifugge i centri direttivi e impositivi, che hanno bisogno di stratificazioni e ruoli gerarchici, perché sa che una politica rispettosa delle relazioni sociali non ha bisogno della sferza del comando dall’alto, ma della partecipazione alle decisioni in uno spirito condiviso di reciproco riconoscimento delle differenze di idee e di comportamenti. Di conseguenza si preoccupa di mettere in opera il clima e le strutture che ne permettano la realizzazione.
In altre parole, l’anarchia va oltre la ristretta e mistificante visione meramente procedurale in cui la cultura dominante tenta d’ingabbiare il senso autentico della democrazia. Per questo pone con forza un problema ermeneutico. Sa che quando viene interpretata come puro intreccio formale di procedure giuridiche se ne snatura il senso fino a deviarne il cammino, come si sta puntualmente verificando, dal momento che oggi negli stati democratici i popoli sono sistematicamente e strutturalmente esclusi dall’esercizio della loro legittima sovranità e dalle decisioni.
Sa che va vista essenzialmente come insieme di modalità di un certo tipo di gestione politica, che ha come scopo principale l’esercizio reale della sovranità del popolo. Solo all’interno di questa visione diventa possibile definire e sperimentare le procedure più consone a renderla operativa. L’esercizio in politica non può che essere diretto, perché se viene deviato verso forme di delega permanente e di potere si trasforma in altra cosa. Così l’anarchia è l’ideale di riferimento, che per farsi e istituirsi usufruisce dei principi di modalità di gestione posti dalla democrazia originaria.

Potere concentrato in poche mani

La domanda che a questo punto sorge spontanea è se sia veramente possibile istituire organismi capaci di realizzare ciò che propugna il senso democratico originario: una sovranità autenticamente del popolo gestita dal popolo. O, come sostiene Hobbes, data la natura dell’uomo è inevitabile la concentrazione del potere in poche mani, se non in una sola, soprattutto, come afferma Schumpeter, data la complessità delle società attuali? La risposta, nient’affatto semplice per la complessità delle situazioni che investe, è però chiara nella sua enunciazione: non è possibile se si mantiene come riferimento il contesto attuale, mentre diventa possibile se l’immaginario condiviso trova la forza di ipotizzare e ritenere realista un contesto completamente diverso, addirittura contrapposto, come hanno sempre cercato di fare in nuce le rivoluzioni che si sono succedute.
Più di ogni altra cosa non è possibile se la natura umana è pensata solo negli aspetti più negativi, come appunto il noto homo homini lupus hobbessiano, supponendo arbitrariamente che non possa che essere tale. La natura umana, invece, è estremamente molto più complessa ed ampia di ciò che può apparire ad uno sguardo che pregiudizialmente la voglia inchiodare ad una visione limitata agli aspetti dell’oggi che fanno inorridire, superficialmente limitante perché si rifiuta di spaziare. Come contiene le cose orripilanti che fanno disperare, contiene pure in potenza le possibilità di esprimersi in tutt’altro senso. Banalizzando, si potrebbe dire che contiene sia il bene che il male, soprattutto possiede la propensione culturale che le permette d’immaginare e di collegare presente passato e futuro e, immaginando, di intervenire per modificare dove ritiene opportuno.
Così, rimanendo dentro il sistema capitalista diventa difficile anche solo supporre una società la cui spinta ad essere e a fare non sia dettata dal solo bisogno di procurarsi risorse finanziare, per ottenere le quali si giustifica qualsiasi intervento, per efferato che possa essere. Così, se nella definizione e nella messa in opera delle scelte che regolano la convivenza societaria permane la prevalenza della spinta a dominare, diventa impossibile realizzare relazioni sociali supportate da una libertà e da una decisionalità democratica autentiche. Se le si vuole diventa indispensabile rifondare l’insieme delle relazioni sociali, politiche ed economiche sui principi della solidarietà e della reciprocità, non più sottoposte alla separazione tra esercizio del potere e sovranità, non più ingabbiate da strutture di delega che impediscono al popolo di essere il vero protagonista delle scelte che lo riguardano. L’esperienza ce l’ha insegnato, è l’autogestione anarchica che può rendere effettuale l’assunto democratico della libertà, non la rappresentanza di potere.

 Andrea Papi

1. Massimo Nava, Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace, edizione Fazi.