L'utopia
quotidiana
di Stephen
Schecter
La vita è piatta e triste e anche riuscendo a rubare
qualche ora di gioia all'ingranaggio dell'ordine costituito, si rimane
vagamente delusi. Certo, la rivoluzione, anche la rivoluzione anarchica,
sarà indubbiamente al di sotto delle sue promesse. Ecco, del resto, il vero
problema: non è che la prospettiva anarchica sia troppo utopistica, quanto
piuttosto che l'utopia stessa si dimostrerà deludente. Chi vorrà lavare i
piatti dopo la grande abbuffata; si può forse pensare che le vibrazioni
rivoluzionarie renderanno il compito gradevole? Kropotkin ha tentato di
abbozzare il problema, di esplorare possibili soluzioni, ma la questione
rimane, quasi nella sua interezza. Forse, però, l'abbiamo prospettata male.
Eredi del Rinascimento, abbiamo trasposto il paradiso celeste sulla terra
promessa, mescolando la felicità alla rivoluzione e concedendo a quest'ultima
lo status particolare di motore della storia. E se non fosse così?
Se l'utopia non fosse né gratificante, né utilitaria, forse che tutto il
progetto crollerebbe? L'utopia esige una missione? La rivoluzione esige dei
militanti? E, se no, che senso avrebbe parlare di utopia, di rivoluzione,
insomma, di anarchia?
Qualche anno fa, al convegno di Venezia sull'autogestione, Nico Berti ha
ipotizzato che l'anarchismo rimarrà sempre un progetto più grande della sua
messa in pratica. Questa idea, formulata in maniera ambigua, sottolinea
comunque un punto importante: l'utopia non ha fini, la rivoluzione è
obbligatoriamente permanente, il vissuto del momento non può abolire la
storia. Ma l'utopia ha sempre oscillato sotto l'attrazione dei suoi poli
contraddittorii, offrendo ai suoi creatori ed ai suoi credenti la visione di
un mondo diverso e nondimeno simile. Da un lato, il nuovo ordine, l'apogeo
della razionalità, il dominio dell'unicità, il regno dell'amore; dall'altro
il grande rifiuto, la speranza protesa, il sogno che abolendo le proprietà
del tempo si apre alla molteplicità infinita dell'esperienza. Platone, Gesù
Cristo, Tommaso Moro, Giordano Bruno, William Godwin, Jean-Jacques Rousseau,
Karl Marx, Charles Fourier, Henry Thoreau: i grandi del pensiero utopico la
cui realizzazione nella storia ci rivela un quadro assai scuro: la dittatura
della polis, la manipolazione della Chiesa, l'intransigenza della Riforma,
l'instabilità del Terrore, il duro, instancabile lavoro del socialismo
moderno, la banalità deludente dell'Amore Romantico. E, parallelamente, i
primi cristiani, gli alchimisti, gli anabattisti, i livellatori, la massa, i
sanculotti, gli operai. Quale legame esiste tra la rivolta e la rivoluzione
che divora i suoi figli, tra l'utopia e la restaurazione del mondo che essa
denuncia?
Probabilmente nessuno, poiché lo sforzo per tessere tali legami non resiste
all'esame empirico minuzioso e tuttavia il barlume di un sospetto rimane,
dinnanzi a un mondo divenuto sempre più intollerabile ed ingiustificabile.
Non si tratta di credere che il Cristo porti necessariamente alla Chiesa
Cattolica, né che Marx sia il padre dell'URSS, né che il delirio di Rousseau
abbia generato il giacobinismo della rivoluzione moderna. Si tratta
piuttosto di scorgere nelle correnti del pensiero utopistico una tendenza
comune e seduttrice il cui pericolo aumenta man mano che l'avventura diviene
amorosa. Poiché i sogni utopici dell'umanità paiono ossessionati sia dal
recupero lealista, sia dalla vampata savonaroliana e quelli che ne soffrono
superano di parecchio, per numero, quelli che li han concepiti. La rivolta
dei contadini tedeschi, attizzata dal fuoco anabattista, soccombette alla
passione di Münster molto prima che venisse schiacciata dalle milizie di un
altro potere, ormai in via di riforma. E chi ha pagato il conto del
puritanesimo di Milton e di Cromwell se non i "diggers" all'epoca del
cosiddetto Lungo Parlamento? Chi ha lenito l'ardore di Lenin, lo zelo di
Trotsky, se non i marinai di Kronstadt, che soccombettero per mano del
governo che essi prima avevano difeso?
Si potrebbe naturalmente evocare la deviazione dai progetti iniziali, il
modo nascosto e originale con cui s'erano impegolati nel fascino del potere.
Ma rimane sempre la dimensione del progetto che denunciava l'ordine
costituito e prometteva un nuovo ordine, l'"ordo novarum et rarum", questa
dimensione che aveva il potere di agitare l'umanità, piena di speranza.
Quale legame pericoloso implica sempre che l'alternativa tanto desiderata si
manifesti in un nuovo ordine, che trasforma sempre la sete d'ignoto in
riforma del vissuto, l'avventura in ritorno eterno. È così che ogni utopia
si rivelava un vero romanzo giallo, mentre anche la sua versione anarchica
rischiava di non distinguersi neppure dal suo antecedente alchimista. A meno
che, naturalmente, non si cominci a cercare l'utopia non al di fuori della
civiltà ma nel suo cuore.
Abbiamo di solito considerato l'utopia come proprietà del millenarismo,
destinata obbligatoriamente al fallimento o all'addomesticamento da parte
del potere che essa critica. L'utopia apparteneva al dominio del sogno come
l'anarchismo a quello della notte di cui esso ha il colore, e ciò, malgrado
gli sforzi di Kropotkin per dimostrare che l'anarchismo, e solo l'anarchismo
tra le correnti socialiste, si basa su fondamenta scientifiche. Certo, quel
che colpisce nel suo pensiero è lo sforzo di legare una riflessione
razionale ad un possibile "altro", ai valori umani che dovrebbero dominare
questo "altro". In questo senso, aveva ragione di basare un'economia
politica anarchica sul consumo e non sulla produzione, contrapponendo al
socialismo un insieme di rapporti sociali che rispondono ai bisogni umani,
parzialmente percepibili e parzialmente sconosciuti. Ma il problema era
duplice. Da una parte, circondando l'anarchismo con l'aureola scientifica,
si è riprodotto lo schema secondo cui questa utopia secolare appariva
comunque come l'arcobaleno dopo il temporale. Certamente, si dovevano
abbozzare i contorni probabili di una società autogestionaria, lo si deve
ancora fare, altrimenti non si riproducono che le stupidaggini
dell'accumulazione primitiva e delle compatibilità nazionali, senza parlare
dei contabili che hanno segnato le rivoluzioni socialiste del nostro secolo.
Però il progetto così concepito mantiene un sapore molto novecentesco: la
rivoluzione che si giustifica in nome della scienza, la vita reale di cui ci
si deve appropriare e che resta altrove, lo scopo della storia, della
pratica militante, della riflessione impregnata di modelli teorici, ecc..
Nel frattempo, la vita prosegue, il mondo gira e nulla cambia. Forse che
questo progetto utopistico si inserisce sempre nel quotidiano e che tentare
di toglierlo dal suo ambiente naturale come cosa a parte, non fa che
renderlo estraneo a quelli che lo conoscono profondamente? Non è forse
questa una delle grandi trappole del pensiero rivoluzionario del secolo
scorso, di cui noi siamo gli eredi, quella di concepire la trasformazione
sociale come una trascendenza comandata dalla storia, giustificata dalla
scienza, che la militanza esige? È un "prodotto già pronto per l'uso"
concettuale e pratico i cui pezzi sono intercambiabili. Quelli che non
rientrano nell'ordine sono relegati nel regno dell'utopia (l'anarchismo, il
marxismo libertario, ecc.), il resto serve a raffinare l'ordine che si
intende rovesciare (il socialismo scientifico e serio), il tutto facente
parte dello stesso universo discorsivo, il mondo e il suo specchio.
D'altra parte, allorché si cerca di prefigurare l'organizzazione di una
società a misura d'uomo, ci si scontra subito con le difficoltà che pone
ogni teoria dei bisogni. Da un lato, i nostri bisogni sono eminentemente
contraddittori; dall'altro, noi non siamo degli esseri che abbiano solo
bisogni, abbiamo anche desideri, e desideri spesso contraddittori.
Senza dubbio la società che ci circonda non ha alcun legame organico con le
persone che l'abitano. I grandi centri urbani non possono mai appartenere a
quelli che li hanno costruiti o che vi lavorano e ci vanno a spasso. Essi
sono il riflesso perfetto del capitale al quale essi servono. Solo le merci
e quelli che le manipolano possono sentirvisi a proprio agio. Si potrebbero
facilmente concepire un altro tipo di ambiente che sia più conforme ai
bisogni della specie di una vita che comporti un minimo di socievolezza. La
domanda che ci potrebbe mettere in imbarazzo è: perché non l'abbiamo
concepito? Forse perché noi preferiamo la solitudine nella folla a una vita
di buon vicinato? Si può davvero dire che noi, che abbiamo creato questo
mondo non vi vediamo soddisfatto alcuno dei nostri bisogni? In altri
termini, si può veramente dire che siamo alienati?
Il vantaggio del concetto di alienazione è che ci dà un criterio attraverso
il quale possiamo criticare e denunciare l'ordine sociale dominante. Il suo
svantaggio è che questa critica vien fatta in nome di criteri che rimangono
al di fuori della società, cioè anche della storia e rimane una critica
morale, filosofica, ontologica, immersa nella trascendenza. Marx, nella
prospettiva dell'alienazione, ha scorto e ha esplorato il feticismo che
caratterizza la società capitalista ma, ironia della sorte, questa stessa
prospettiva gli ha impedito di andare più in là e di analizzare il modo in
cui noi costruiamo questo feticismo, la portata della nostra complicità
nell'affare. Il feticismo, visto come creazione del capitale, è divenuto
feticcio a sua volta, mascherando i bisogni che ci portano ogni giorno, una
generazione dopo l'altra, a riprodurla.
Bakunin l'aveva compreso. Non a caso ha studiato a lungo il problema
religioso. Dopotutto, una volte inventato Dio, feticcio supremo, il denaro
diventa un gioco da bambini. Quel che importa è la nostra capacità e il
nostro bisogno di reificare. Da dove viene questo bisogno e quale speranza
abbiamo di sfuggirvi? Bakunin parlava dello stupore degli uomini dinanzi
all'universo, della solitudine e del terrore che ispirano la moltitudine di
fatti che non potremo mai comprendere, anche con l'aiuto della scienza. È
d'altronde curioso che la contemplazione dell'infinito produca un simile
effetto, a meno che non corrisponda all'angoscia umana che tutti ci portiamo
dentro in quanto irriducibile ontologico, segno della nostra mortalità
inevitabile, vissuta fin dalla nascita. Se dinanzi alla morte noi non
desideriamo che il riposo, se dinanzi ad ogni incrinatura, separazione o
rottura, noi indietreggiamo verso l'inizio in cui tutto ci sembrava integro,
non è tanto inconcepibile che dinanzi all'universo senza fine noi abbiamo
creato Dio è che noi abbiamo, a sua immagine, tentato di confezionare un
mondo. Dall'esterno e dall'interno convergono forze che ci portano sempre a
sfuggire la realtà per costruire, nella fuga, l'ordine del reificato. Ecco
perché il mondo sembra sempre contemporaneamente reale ed illusorio, uno di
quegli impermeabili che non si manda mai in lavanderia.
Tuttavia, l'ontologia umana non è che regressione. Ha anche una componente
che sfugge alla previsione e che resiste alla ripetizione. Ancorata al
linguaggio che ne è il testimone ed il servitore fedele, comprende la nostra
capacità di creare dal nulla, lo spazio di libertà in cui noi giochiamo con
l'ignoto e scegliamo l'imprevisto. Così, siamo degli esseri tesi verso
l'ordine e il bordello, prigionieri del panico e padroni della curiosità,
che desideriamo insieme l'avventura e la sicurezza del conosciuto. Dilaniati
tra Eros e Thanatos, oscilliamo tra l'utopico e il reificato, il ricorso al
linguaggio, al pensiero concettuale e alla facoltà d'invenzione e di
trasformazione, sfiorando sempre i due campi. Poiché gli strumenti che
utilizziamo per trasformare il mondo sono gli stessi che utilizziamo per
riprodurlo. Estensioni sociali del nostro corpo organico, confermano il
duplice carattere del nostro status ontologico, che trova la sua
corrispondenza nella vita sociale. La storia dunque, più che una successione
di lotte di classe o di modi di produzione, si sviluppa come un gioco in cui
si alternano il teatro e il potere. Le conseguenze involontarie che Weber ha
individuato come caratteristiche dell'azione umana, si spiegano meglio così:
si tendeva a correggere il rapporto tra Dio e l'individuo e questo si è
chiuso con l'accumulazione del capitale, si voleva l'utopia e ci si è
ritrovati col terrore, si rivendicava la trasformazione dei rapporti
d'autorità in una aula e si è finiti con uno sciopero di dieci milioni di
persone e colle barricate per le strade.
I sociologi, tra gli altri, si danno da fare per spiegare gli avvenimenti
collegandoli tra loro, sorta di ricerca tomistica della causa principale. Ma
se la vita si svolgesse in modo diverso? Se fosse contemporaneamente
regolarità e disordine? Se tentiamo di rifare tutto, da cima a fondo e ne
proviamo paura? Allora, ci sono cose che si spiegano e cose che non si
spiegano, delle cose prevedibili e delle cose imprevedibili e la vita
potrebbe esser vista insieme come desiderio e pratica dell'utopia e come suo
contrario. In questa ottica, l'utopia si presenta come parte integrante
della vita che si manifesta in mille e un modo diverso nella nostra
costruzione quotidiana della realtà. Come nella trilogia di Asimov, l'altro
fondamento non si trova in fondo alla galassia, ma nel suo centro. Basta
leggere bene i messaggi che sono sempre dei geroglifici. Così, l'anarchismo
non è soltanto un progetto costantemente più grande della sua pratica; la
vita stessa è l'anarchia e per forza più larga dello stesso anarchismo. Ma
questa prospettiva implica la trasformazione delle nostre categorie
tradizionali di pensiero e di azione: l'immanenza e la trascendenza, la
speranza e la dominazione, l'intransigenza verso il nuovo ordine e
l'accettazione dello svolgersi lento e contraddittorio della vita quale è.
È forse possibile credere che noi siamo alla soglia del rigetto non solo di
un mondo mostruoso ma della critica trascendente che ne è lo specchio?
Naturalmente, ci si potrebbe chiedere dove si deve cercare gli indizi, ma
pare che nessuno, ad eccezione forse di qualche tecnocrate delirante, creda
più al sistema, o al bla-bla dei politicanti, dei padroni o degli ideologi
che cercano di giustificare, rassicurare, spiegare perché e come il mondo
sfugga ormai a qualsiasi controllo. Del resto, pochi pensano ancora di
essersi liberati dal male che ci circonda attraverso la grande ondata
rivoluzionaria, risultato del militantismo duro che farà sorgere il nuovo
mondo, come una fenice, dalle ceneri della lotta finale. È come se noi
avessimo saputo che questa vita è tutto ciò che abbiamo, non un granché e
tuttavia molto. Comunque, questa riconoscenza intransigente del momento
presente, del qui e adesso, s'iscrive in un processo contraddittorio. La
crisi della legittimazione non ha impedito al processo di desublimazione
repressiva di toccare degli abissi tanto impressionanti quanto funesti.
Questo processo conta anch'esso sul rigetto del trascendente, ma l'immediato
che esso favorisce è tanto mono-dimensionale quanto il trascendente
rifiutato, nocciolo della società dello spettacolo che si sforza di
distrarci dalla morte che essa organizza e nella quale ci precipita.
All'opposto, rimangono un'infinità di resistenze che s'innalzano dappertutto
nella società, in parte complici, a volte violentemente ostili, sempre
all'interno anche quando esse credono di essere al di fuori, sorte
ineluttabile che anche la versione più anarchica non potrebbe ricusare e non
senza un filo di humour.
Dallo sviluppo di queste resistenze l'utopia moderna trae le sue forze. Di
fronte alla società mono-dimensionale, essa solleva la speranza immanente
che qualcuno altrove ha già chiamato la speranza contro la speranza, la
capacità di vivere controcorrente in nome della vita che dev'essere diversa.
Nient'altro. Questa speranza non fa appello ad alcun fine prefissato che si
trasforma in bilancio critico e in causa militante. Emerge dalla vita
stessa, dalla coscienza della sua oppressione intollerabile, dal ricordo dei
resti di pratiche più onorevoli, più decenti e di promesse che nascondono
rapporti più erotici, più corroboranti. Provenendo dalla prassi concreta,
riconosce il carattere ambiguo e contraddittorio della memoria di cui spicca
la speranza a doppio taglio, insieme ripetizione dell'ordine che rassicura
dinnanzi al rischio e incarnazione di sogni archetipici di esseri che
desiderano altre cose, come la storia della rivolta dimostra.
Questo principio di speranza prende ispirazione dall'immanenza che comprende
la trascendenza. Simile superficialmente all'immediato che palpita
attraverso i nostri schermi quotidiani, questa posizione implica una duplice
prospettiva simultanea: esigere la rivoluzione oggi come la rivendicazione
più semplice e più naturale e rimanere pazienti dinnanzi alla moltitudine di
ostacoli che ci creiamo lungo il cammino, deviare con dolcezza e
intransigenza dalla via troppo ben segnata e comprendere che le nostre
traiettorie, nel tempo e nello spazio della nostra fenomenologia comune,
raramente sono parallele. Rivendichiamo e pratichiamo "l'altro", perché non
abbiamo scelta, perché comprendiamo che la vita erotica e sovversiva è così,
va d'accordo e comunque è più gradevole, senza coltivare l'illusione che
finiremo per avere sia l'utopia che la felicità. È un po' la situazione
delle donne nel loro rapporto con gli uomini: potrebbe essere bellissimo, ma
per il momento è così e si tira avanti. E niente più dell'amore di oggi può
cancellare le cicatrici di ieri o risparmiarci quelle che verranno; l'utopia
non può abolire il passato o arrestare il divenire. Non è né l'orgasmo
cosmico, né l'apocalisse dell'Uno, bensì l'acqua che scorre, passa ma rimane
sempre là, la cui conoscenza appena sospettata ci apre all'esperienza di
questi mondi infiniti che costituiscono una vita.
Che cosa dunque si può pretendere? Tutto. Senza attenderci nulla. E questo
desiderio di cambiare tutto, che è così poco, in fondo, da all'anarchismo
moderno la durezza più flessibile conveniente a una visione utopica che
comprende che tutti diserteranno, come il dissidente rumeno nel libro di
Updike, appena le sue camicie ritorneranno dalla lavanderia. In effetti, il
mondo ufficiale non ammette compromessi. Rimanere vivi implica un fermo
partito preso contro il controllo e contro il metodo. Coloro che reclamano
quest'utopia devono viverla, ma non è sempre facile per loro e per tutti
quelli che la desiderano senza reclamarla. Noi siamo costretti per forza di
cose a darci aiuto reciproco, a costituire, per quanto possa esser lungo e
penoso, una comunità anarchica attiva, al suo interno e contro il potere, in
grado di attirare, battere, pungere, attaccare, sedurre e incoraggiare tutti
e tutte coloro che hanno la dubbia fortuna di abitare questo mondo. Questa
pratica di aiuto appartiene anch'essa all'Eros, a quella parte dell'energia
umana, storicamente assunta dalle donne, che è preposta a generare la
capacità di tutti i bambini, piccoli e grandi, di accettare dei rischi e di
trasformare il loro mondo, durante quei lunghi intervalli che s'aggirano e
s'intercalano tra i momenti di ribellione. Certuni, temendo di ricadere
ancora nella trappola della trascendenza e di rovinare la vita in nome di
un'utopia illusoria, possono considerare questa pratica come una nuova forma
di militantismo. Ma questo timore non è giustificato, se non nella misura in
cui ne valutiamo la ricompensa, il tempo e il reale, coll'orologio della
società dominante e col panico dell'ordine psichico. Forse, paradossalmente,
l'utopia che si lascia riconoscere attraverso la vita che passa, riveste un
carattere insieme più estremo e più flessibile, una sorta d'intensità dolce
che si apre, come direbbe Yeats in un altro capitolo della Storia, alla
possibilità che "Adesso e per l'avvenire, ovunque sia portato il verde,
tutto è cambiato, cambiato completamente, una bellezza terribile è nata".