Utopia - L'immaginario sovversivo
di Amedeo Bertolo

Dopo quello dell'argentino Carlos Sabino (pubblicato sullo scorso numero), ecco un nuovo contributo per il convegno di studi sul tema "La funzione dell'utopia" che si terrà a Milano, il 26-27 settembre 1981, in una sala non ancora definita. Promotori ed organizzatori ne sono i compagni e le compagne del Centro Studi Libertari "Giuseppe Pinelli" (viale Monza 255, 20126 Milano, dalle ore 16 alle 20). Alle relazioni per il convegno sarà dedicato integralmente in n. 3 di Volontà. Altre relazioni saranno pubblicate sui prossimi numeri della nostra rivista.

Un atlante che non includa Utopia non merita neppure uno sguardo, poiché lascia fuori l'unico paese che l'umanità ha sempre avuto quale suo approdo, e quando l'umanità vi approda, spinge oltre lo sguardo e, scorgendo un paese ancora migliore, alza la vela. La vecchia landa, la vecchia isola abbandonata ha perduto il suo nome di utopia. (O. Wilde).

1. Alternativamente l'utopia ha conosciuto periodi di fortuna e periodi di disgrazia, periodi cioè in cui prevalevano i suoi estimatori o i suoi detrattori. Gli uni e gli altri, comunque, non mancano mai: non manca mai chi usa il termine con connotazione negativa e chi al contrario gli attribuisce una valenza positiva. Un lungo periodo di disgrazia è stato quello che è seguito alla nota critica di Marx ed Engels (che tuttavia era assai meno distruttivo dell'atteggiamento dei loro epigoni e del cosiddetto "marxismo volgare"). Poi vi è stato un progressivo recupero di favore, anche presso marxisti come Bloch e Ruhle, sino a riguadagnare una prevalente connotazione positiva negli anni '60. Nel frattempo però si sviluppava una nuova tendenza critica, questa volta di segno "liberal-democratico" (alla Popper, alla Dahrendorf) più che "scientifico-socialista", cosicché nella letteratura sociologica e politica degli ultimi dieci-quindici anni (così come negli atteggiamenti mentali e nei comportamenti sociali) si trovano elementi ed argomentazioni pro e contro l'utopia in abbondanza e per tutti i gusti: rivoluzionari, riformisti, conservatori, reazionari.
Quello che appare abbastanza evidente ad una lettura attenta dei libri e dei giornali è che le discordanze di giudizio sull'utopia nascono a) dalla molteplicità di significati attribuiti al termine e/o b) dai presupposti ideologici di chi esprime il giudizio.
Anche tra gli anarchici c'è stato, in oltre cent'anni, e c'è tuttora un ampio ventaglio di atteggiamenti, pur potendosi generalmente escludere sia un rifiuto assoluto sia un'esaltazione acritica. Nel caso degli anarchici, l'uso in positivo o in negativo dei termini utopia, utopico, ecc. ci sembra nascere in parte da influenze culturali esterne, cui accade che la cultura anarchica di volta in volta risponda un po' troppo meccanicamente per imitazione o per reazione ma soprattutto dal primo dei due motivi visti più sopra e cioè dalla ambiguità semantica di quei termini.
Preliminare dunque a qualunque discorso sull'utopia anarchica, e più in generale sull'utopia, è un'analisi dei significati che stanno dietro le parole.
Tesi della presente relazione è che, nella gran parte dei suoi significati, l'utopia rappresenta una dimensione ineliminabile e positiva dell'uomo - la dimensione della speranza, della volontà innovativa, della creatività - e, in particolare, che l'anarchismo debba, criticamente ma senza complessi, esplorare e dilatare quella dimensione. Se un Mumford scrive che "il compito più importante che ci aspetta è quello di costruire castelli in aria" - e si tratta notoriamente non di un sognatore ma di un concreto riformatore -, se un Riesman scrive che "un risveglio della tradizione del pensiero utopico ci sembra uno dei più importanti compiti intellettuali del nostro tempo", se un Marcuse dice che "dobbiamo perseguire l'idea di una via al socialismo che dalla scienza porta all'utopia e non, come credeva Engels, di una via che dall'utopia porta alla scienza", ben a maggior ragione la cultura anarchica, che esprime la speranza e la volontà del più radicale mutamento sociale della storia, può e deve riappropriarsi di tutta la ricca positività dell'utopia, deve riconfermare il suo tradizionale "coraggio dell'utopia".

2. L'utopia, secondo Bloch, svolge tre funzioni fondamentali. La prima è quella di mostrare agli altri che "il reale non si risolve nell'immediato", la seconda di essere uno strumento di lavoro "che permette di esplorare sistematicamente tutte le possibilità concrete", la terza di "renderci coscienti delle imperfezioni di questo mondo, non per fuggirlo in un passato dorato o in un futuro illusorio, ma per trasformarlo secondo le esigenze proposte dall'utopia stessa". Un anonimo redattore così definisce l'utopia su una rivista d'arredamento: "... è aspirazione ad una vita differente da quella che presenta la società che viviamo, è la proiezione di quella società che vorremmo. Utopia, quindi, non è un sogno, non è chimera, non è fuga dalla realtà: ma è tensione intellettuale, pensiero per il futuro, progettazione" (Caleidoscopio, marzo 1978).
Come affermazione o come negazione, troviamo nelle frasi precedenti tutti i significati rilevanti che vengono attribuiti al termine utopia: 1) ciò che è assolutamente irrealizzabile e dunque gioco gratuito della fantasia o fuga schizoide in un mondo illusorio; 2) immagine del futuro; 3) coscienza critica dell'esistente e tensione al mutamento sociale; 4) modello mentale di una società diversa; 5) progetto di una società diversa. Resta fuori l'utopia come genere letterario, che tuttavia non ci interessa qui. Sia che si esprima come saggio o come canzone, come sogno ad occhi aperti o come piano, come racconto di viaggi o come romanzo di fantascienza, l'utopia ci sembra comunque riconducibile, come funzione sociale, di volta in volta a una o più delle accezioni su riportate, dall'evasione al progetto.

3. Il primo significato dell'utopia, come di cosa bella ma impossibile, società ideale ma irrealizzabile (e dunque di sogno inutile, nel migliore dei casi, se non addirittura dannoso, perché può portare all'inazione o al contrario a forme di azione sociale irrazionale) è senz'altro quello più diffuso, soprattutto nel linguaggio corrente.
Non ci si deve tuttavia lasciare eccessivamente impressionare dall'apparente crisma del "buon senso comune" (che sappiamo spesso derivare dall'ideologia dominante) e neppure dalla valenza negativa apparentemente inoppugnabile di questo significato. Per un anarchico, come chi scrive, non è molto difficile diffidare dalle apparenze e dai luoghi comuni, avendo ben presente il significato corrente di anarchia: caos e/o utopia, proprio nel senso sopra visto.
È nuovamente necessaria una definizione terminologica e concettuale: che cosa si intende per impossibile e, nella fattispecie, che cosa si intende quando si dice che una speranza od un progetto di trasformazione sociale è irrealizzabile. Impossibile in assoluto o impossibile in un certo contesto? Impossibile perché in contraddizione con leggi scientifiche, biologiche, fisiche, chimiche, ecc. realmente determinate e ragionevolmente certe oppure irrealizzabile nelle condizioni del presente, i cui modi di essere vengono arbitrariamente (e spesso con aperta disonestà scientifica) spacciati per leggi eterne ed universali?
Mannheim ha ben chiaro l'errore (o il trucco) di "ignorare o confondere la distinzione tra ciò che è inattuabile in senso assoluto e relativo", tra ciò che per l'appunto chiama utopie assolute e ciò che chiama utopie relative. "La riluttanza - scrive - a superare i limiti dello status quo porta a ritenere ciò che è irrealizzabile in un determinato assetto sociale come del tutto inattuabile in qualunque altro ordine, così che, venendo meno queste distinzioni, si possa negare la validità delle istanze contenute nell'utopia cosiddetta relativa. Denominando utopistica ogni idea che oltrepassa la realtà presente, si tende pertanto ad eliminare il senso di incertezza che potrebbe insorgere dalle utopie relative". Non a caso, egli osserva, ogni qualvolta un'idea è chiamata utopica, a ritenerla tale è quasi sempre un rappresentante di un'epoca già trascorsa.
Così, di volta in volta, sono state ritenute assolutamente irrealizzabili, dagli ideologi della classe dominante, le utopie di cui erano portatrici le classi in ascesa o anche più modesti progetti riformatori, quali l'abolizione della schiavitù, il suffragio universale, il miglioramento delle condizioni di vita dei salariati, ecc.. Fino a poco più di mezzo secolo fa, l'abolizione della proprietà privata era considerata un'utopia assoluta, mentre è ora una realtà indiscutibile per oltre un terzo dell'umanità. È pur vero che il "comunismo" tecnoburocratico che ha sostituito il capitalismo s'è dimostrato orribile, ma gli orrori dello stato-padrone (peraltro chiarissimamente previsti dai socialisti anti-autoritari) non inficiano l'argomentazione di fondo: la realizzabilità di ciò che era ritenuto irrealizzabile, di ciò che si diceva essere utopia assoluta ed era invece utopia relativa.

4. È chiaro dunque che l'utopia di cui parleremo d'ora in avanti, quella che mi interessa e cui attribuisco un valore positivo insostituibile, non può essere l'utopia "assoluta", ma è altrettanto chiaro, mi pare, che non si può delegare la definizione di ciò che è assolutamente impossibile né al common sense, né all'ideologia (nel significato mannheimiano), né alla scienza di chi cerca di dimostrare che i comportamenti umani sono naturalmente determinati e quindi in larga misura immodificabili.
Noi siamo ragionevolmente certi (ragionevolmente, cioè non dogmaticamente) che il comportamento sociale dell'uomo sia essenzialmente culturale, cioè appreso, e che sia improponibile una sua assimilazione ai comportamenti animali, che sono essenzialmente istintuali. Proprio in questo scarto culturale sta la specificità umana, il salto qualitativo tra l'uomo e gli altri animali, e qui stanno anche le radici della sua specifica libertà.
Nella "natura umana" sono in realtà a malapena identificabili (e, a dire il vero, neppure del tutto dimostrate) labili tracce di istinti in senso proprio, cioè di comportamenti geneticamente determinati, mentre quelli che comunemente sono indicati come istinti sono in realtà meri impulsi o "bisogni" fisiologici, la cui espressione comportamentale è tutta culturalmente determinata. Si sa, cioè, che anche le azioni umane corrispondenti alle funzioni biologiche elementari, quali l'alimentazione, l'accoppiamento, ecc., sono determinate, nel loro specifico modo di esplicarsi, dal mondo simbolico, dalla ragione, dalla religione, dai costumi, dalle leggi, dalle ideologie... e dalle utopie. E si sa che c'è un'evoluzione culturale, non necessariamente lineare e progressiva, che non procede solo per accumulazione quantitativa, ma anche per salti qualitativi, nelle scienze come nell'etica, nelle istituzioni come nei rapporti sessuali....
Non vogliamo con questo dire che l'uomo sia una tabula rasa dove si può scrivere tutto, casualmente ed indifferentemente. Vi è, noi crediamo, un nucleo irriducibile nella "natura umana", un nucleo però in cui a nostro avviso è impossibile - perlomeno allo stato attuale delle conoscenze - discriminare quanto vi sia di natura in senso stretto e quanto di cultura. E se gli apologeti della disuguaglianza vogliono vedervi le radici insopprimibili dei comportamenti aggressivi e gerarchici, noi preferiamo vedervi l'insopprimibile ricerca della libertà e dunque dell'uguaglianza, che della libertà è la necessaria dimensione sociale.
E ancora, dal momento che non pretendiamo di dimostrare la necessità naturale delle nostre utopie, perché saremmo degli utopisti ben miseri e tutto sommato contraddittori e soprattutto perché commetteremmo - simmetricamente - lo stesso errore scientifico degli anti-utopisti, possiamo benissimo ammettere, senza rischio per la nostra coerenza logica, che nella "natura umana" ci siano, come potenzialità, la disuguaglianza, il dominio, la sopraffazione, eccetera. Perché, comunque, noi sappiamo che esistono e sono esistiti tipi antropologici non-aggressivi (si veda, ad esempio, la rassegna curata da A. Montagu); sappiamo che un tipo antropologico non gerarchico è possibile, non fosse altro perché è esistito in modo talmente solido da resistere per millenni alle pressioni culturali di segno opposto (si veda Clastres, si veda in Evans-Pritchard la bellissima definizione del carattere propriamente anarchico dei Nuer (1)).
Noi sappiamo dunque che, quand'anche ci venisse dimostrato (ma sinora non ci è stato dimostrato in modo convincente) che l'aggressività reciproca, la gerarchia ed altri consimili comportamenti cari all'ideologia "scientifica" dello status quo, sono "scritti" nella natura umana, vi sono scritti anche i comportamenti opposti e che le "tendenze" aggressive, gerarchiche, eccetera, possono essere annullate da meccanismi culturali che, anziché favorirle e potenziarle (e, forse, in realtà generandole) siano modellati sulle opposte tendenze solidali, egualitarie, libertarie.... C'è la possibilità, e tanto ci basta.

5. Da un estremo all'altro: dalla prima definizione che, con le riserve viste, può essere quasi universalmente accettata come negativa, passiamo al secondo significato (utopia come immagine del futuro) che, in qualche misura, può assumere una valenza positiva per chiunque. Lo stesso Dahrendorf, che è uno dei più sottili - ma non per questo meno convinti - nemici dell'utopia, si vede costretto a precisare che "vi è un concetto più ampio di utopia che comprende ogni immagine del futuro". Non è a questo significato che egli si riferisce, perché "senza un'immagine del futuro gli uomini non riescono a vivere, e tantomeno a strutturare la loro vita. Desideri, sogni e speranze, programmi e obiettivi sono i moventi delle nostre azioni". È probabilmente a questa concezione dell'utopia che pensa un altro grande antiutopista, Benedetto Croce, quando in apparente contraddizione con altre frasi di decisa ripulsa della dimensione utopica si lascia scappare che "l'utopia dell'oggi si converte nella realtà di domani", quasi parafrasando Oscar Wilde ("Il progresso è una realizzazione di utopie") e Karl Mannheim ("È possibile che le utopie di oggi divengano le realtà di domani").
Il fatto è che il futuro è contenuto nel presente, come il passato. E non già solo come potenzialità, per cui "una valutazione dei fattori esistenti nel presente e un'analisi delle tendenze latenti in queste forze possono approdare ad un risultato concreto solo se il presente viene interpretato alla luce della sua effettiva realizzazione nel futuro" (Mannheim). Questa è, a mio avviso, una concezione meccanicamente limitativa dei rapporti tra presente e futuro, che non tiene conto dell'effetto di feed-back psicologico per cui il futuro influenza il presente.
Più prossimo alle mie convinzioni e Bookchin, quando scrive che "chi cessa di cercare il nuovo ed il potenziale in nome del realismo ha già perso il contatto con il presente, perché il presente è sempre condizionato dal futuro". È inconcepibile un uomo che esista nel puro qui e ora, se non come un sughero che galleggia passivamente sull'eterno presente. Se l'uomo agisce più o meno volontariamente, se sceglie più o meno liberamente, lo può fare solo grazie al suo passato ed al suo futuro o meglio alla sua immagine del passato ed alla sua immagine del futuro. Di più, anche la sua rappresentazione del passato (che non è beninteso fatta solo delle sue esperienze personali, ma è partecipe dell'immaginario sociale) viene influenzata dalle sue previsioni e dalle sue aspettative, cioè dalla sua immagine del futuro, perché la memoria individuale (e collettiva) non è un magazzino, ma una funzione vitale, che continuamente rielabora il passato, valutando ed organizzando diversamente i dati che lo costituiscono.
Se è vero che noi viviamo concretamente solo qui ed oggi, è altrettanto vero che, da animali culturali quali siamo, nel qui e ora, viviamo anche, simbolicamente, altrove e ieri e domani. Con una metafora spaziale, possiamo dire che il tempo dell'uomo è in ogni istante "tridimensionale", fatto cioè insieme di presente passato futuro.

6. Quanto sia importante il futuro per il presente lo hanno sempre saputo gli ideologi dello status quo, che sono sempre stati incaricati (preti o scienziati che fossero) di costruire un'immagine del futuro sostanzialmente simile al presente, di rimuovere dal futuro - e dunque dal presente - le aspettative incompatibili con l'ordine sociale esistente, spostandole in un tempo mitico o sostituendole con piccole aspettative di piccoli miglioramenti. Al contrario i gruppi sociali opposti alla classe dominante (in lotta concorrenziale per il potere o in lotta antagonistica contro il potere) hanno sempre fatto un uso utopico del futuro, cioè sovversivo dell'ordine esistente.
Ma oggi, quando già da un pezzo l'utopia liberale si è rivelata per quello che era o che comunque è diventata - ideologia borghese - e neppure il progressivo smascheramento dell'utopia marxista per quello che era o che comunque è diventata - ideologia tecnoburocratica - può giustificare lo squallido repechage dell'utopia borghese; oggi quando anche quel surrogato quantitativo di utopia che è il progresso come sviluppo economico sembra più garantire un futuro accettabile, che cosa succede? Succede che capita di leggere, sul principale quotidiano dell'establishment "illuminato" italiano brani come quello che segue. "Abbiamo paura del futuro, non riusciamo più ad immaginarcelo. Gli uomini che vivevano secoli fa (...) lo pensavano più o meno come il presente. In epoca più recente, con lo sviluppo della scienza e della tecnica si è diffusa l'idea di progresso: il futuro sarà migliore del presente (...). Oggi noi non siamo in condizione di immaginare come sarà il mondo fra cent'anni. Se - come facevano i nostri predecessori - estrapoliamo il presente, dobbiamo pensare ad un formicaio umano, dove tutto è razionato, città di cento milioni di abitanti, dove non sappiamo se regnerà l'anarchia o il totalitarismo (...). In ogni caso non riusciamo ad immaginare qualcosa di felice e nemmeno di migliore. Questo vuol dire aver perso il futuro. Ma una società che ha perso il futuro a cent'anni, ha, in realtà, un futuro a trenta, venti, dieci anni? La scomparsa del futuro remoto non coinvolge patologicamente anche il futuro più prossimo?" (F. Alberoni sul Corriere della Sera, 22 dicembre 1980).
Ecco allora un Alberto Cavallari, sempre sulle pagine del Corriere della Sera (18 marzo 1981), inneggiare ad una nuova utopia, una "real-utopia" in cui "la politica si risposi all'etica". Perché "questo pianeta impazzito (...) sta precipitando nel vuoto di una crisi spirituale illimitata". E "la crisi è la mancanza di futuro". "L'uomo deve realizzare una 'mutazione culturale', avere il coraggio di strategie e di politiche globali (...). L'uomo ha solo vent'anni di tempo per fare una 'rivoluzione' senza la quale il Duemila sarà l'inizio della catastrofe (...). Mentre si verifica la crisi di tutte le ideologie, mentre le politiche parziali e 'realiste' stanno creando la catastrofe, l'ultima piaga del millennio è credere che non vi sia più spazio per le 'utopie'". Sembra di rileggere Dumont, quando scriveva: "I Realisti, o quantomeno i migliori tra essi, ci mostrano che il 'loro' mondo va verso la catastrofe. Passano dunque la parola agli Utopisti che sono chiamati (...) a ricercare le basi di tipi diversi di società"!
Che cosa succede? Succede che la completa chiusura del futuro è pericolosa per la stabilità sociale come la sua completa apertura e succede che qualcuno comincia a preoccuparsi di tenere aperto un qualche spiraglio di immagine decente del futuro, ad evitare che ai difensori dello status quo resti solo un uso "terroristico" del futuro (proiezioni orribili per giustificare un presente "meno peggio"). O che si riapra nell'immaginario collettivo un uso veramente utopistico del futuro, un uso veramente rivoluzionario - senza le virgolette.

7. Tre sono dunque le immagini del futuro: una è la lettura ideologica del futuro come copia del presente, copia fedele o copia appena ritoccata in meglio, che si presta solo ad un uso conservatore; un'altra è quella che proietta alcune tendenze "degenerative" del presente per immaginare un possibile futuro peggiore e può prestarsi sia ad un uso ideologico di conservazione dell'esistente ("terroristico" o correttivo), sia ad un uso utopico (o meglio dis-topico, cioè di utopia negativa che critica il presente amplificandone i difetti: si pensi a Zemjatin, Huxley, Orwell); un'altra, infine, è la lettura propriamente utopica, che ci porta direttamente al terzo significato dell'utopia, quella ben identificata dal Mannheim nella sua classica distinzione tra ideologia ed utopia e nella sua altrettanto classica definizione di mentalità utopica.
"Esistono due principali categorie di idee che trascendono la realtà presente - le ideologie e le utopie", scrive. "Le utopie trascendono la situazione sociale in quanto orientano la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto". Per Mannheim la realtà presente dà origine alle utopie che, alla loro volta, ne rompono i confini per lasciarla quindi libera di svilupparsi nella direzione dell'ordine successivo (verso una successiva "topia", direbbe Landauer), mentre la trascendenza dell'ideologia ha una funzione conservatrice, mistificatrice. E ancora "Una mentalità si dice utopica quando è in contraddizione con la realtà presente (...). Utopici possono invero considerarsi solo quelli orientamenti che, quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a rompere l'ordine prevalente".
Così intesa, la funzione dell'utopia - come tensione innovatrice - non può che essere caricata di valenza positiva, da chiunque condivida un rifiuto radicale dell'assetto sociale esistente. Qualsiasi progetto di trasformazione sociale che non si fermi al restauro del vecchio edificio (che non si limiti cioè ad un'intelligente conservazione) ma miri quantomeno ad un'ampia ristrutturazione, qualunque progetto non dico rivoluzionario, ma anche riformatore di ampio respiro non può non partecipare di questa mentalità utopica, di questa consapevole contraddizione tra aspirazione e realtà. Chi oppone un realismo riformatore ad un utopismo rivoluzionario non comprende che senza una certa dose di spirito utopico non è concepibile neppure alcuna vera riforma (come del resto senza una certa dose di realismo non è neppure possibile alcuna rivoluzione) oppure vuole spacciare, con l'aggettivo "riformatore", una pura e semplice real-politik ed è solo uno dei tanti ideologi incaricati di esorcizzare l'utopia, con banalità del tipo "meglio un uovo oggi che una gallina domani".
Mentre lo spirito dell'utopia, la tensione con cui il domani si riversa sull'oggi, ci dice che l'uovo di oggi può essere fatto proprio dalla gallina di domani, che senza questa non avremmo neppure quello.

8. "Se l'utopia non si è spenta, né in religione, né in politica", scrive Silone, cristiano senza chiesa e socialista senza partito (come s'era autodefinito), "è perché essa risponde ad un bisogno profondamente radicato nell'uomo. La storia dell'utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace". La tensione utopica è certo fatta di speranza, ma non solo di speranza. La speranza di un diverso assetto sociale non basta a definire la specificità della tensione utopica (se non forse nelle sue espressioni fideistiche): è necessaria anche la dimensione della volontà. La semplice speranza che prima o poi l'uomo potesse volare non avrebbe mai fatto crescere la "tensione utopica" fino a farle rompere i confini dell'impossibilità relativa, se non vi si fosse raggiunta la volontà di fare volare l'uomo.
La dimensione volontaria è la dimensione dell'intelligenza creativa, dell'intelligenza progettuale e ci porta diritto alle due ultime definizioni-funzioni dell'utopia: l'utopia come modello mentale e come progetto.
Qui siamo tutti dentro lo spazio della ragione e della scienza sperimentale. L'utopia, scrive la Metelli di Lallo, è "un 'esperimento mentale', formalmente analogo a quello che ha contribuito al balzo in avanti della scienza contemporanea, là dove 'scienza' non significa accumulazione di fatti, ma sfida al mondo come fenomenologicamente avvertito, in virtù di un disegno teorico non ricavato dal già noto, bensì proposto dall'intelligenza creativa al fine di scoprire significati del mondo altrimenti irreperibili". E ancora, il Kateb: "Molti libri utopici sono in effetti delle sociologie di vasta portata e fanno progredire la nostra comprensione dei rapporti sociali nello stesso modo degli studi sulle società reali condotti su larga scala".
Come attraverso l'uso di modelli la scienza sociale può rappresentarsi e comprendere strutturalmente e funzionalmente i sistemi reali, così attraverso l'uso di modelli utopici è possibile esplorare razionalmente lo spazio dell'"impossibile", per discriminarne il relativo dall'assoluto e per trarne ulteriori elementi di critica razionale alla falsa necessità dell'esistente. Attraverso l'uso di modelli, l'utopia allarga lo spazio del progettabile al di là dell'immediatamente possibile e consente un ulteriore screening in sede logica delle coerenze e delle incoerenze nei progetti di mutamento con i valori verso la cui realizzazione si vuole indirizzare il mutamento stesso.
Se dalla trasformazione sociale auspicata si ha una concezione volontaria, progettuale (dell'uomo che si costruisce il suo futuro) è perfettamente adeguato un uso - critico - dei modelli utopici, non solo di quelli positivi, ma anche di quelli negativi, di quelli cioè che prospettano gli sbocchi allucinanti cui può portare la realizzazione di certi modelli.

9. Il riformatore, il rivoluzionario può fare a meno di proporre modelli e progetti minuziosamente dettagliati, ma non può fare a meno di indicare chiaramente la direzione del mutamento. E per indicare la direzione non basta indicare i valori perseguiti (libertà, uguaglianza, giustizia, eccetera) perché questi valori restano parole dai cento significati se non sono lette dentro un contesto sociale, reale o progettuale, che dia loro un senso preciso.
Solo una concezione angustamente deterministica del mutamento sociale può fare a meno di modelli, nella convinzione che il nuovo non debba essere progettato e costruito ma sia tutto dentro i meccanismi necessari - della storia o della provvidenza. Neppure il materialismo storico dialettico ha potuto rinunciare del tutto ai modelli. Marx, come è noto, è stato molto prudente nella descrizione della società comunista. Più volte arriva alle soglie di una descrizione di questa società, per poi indietreggiare ed accontentarsi di alcune formule generali, che adotta molto presto (nel Manifesto) e che poi tornano ad apparire spesso, dall'Ideologia tedesca alla Critica del programma di Gotha. Si tratta di un modello appena accennato, utile tuttavia a lui ed ai suoi seguaci per darsi un'identità che non fosse esclusivamente "scientifica" e sufficiente agli anarchici per denunciarne il carattere autoritario e gli sbocchi totalitari. Era certo un modello insufficiente per i suoi epigoni, alle prese dapprima con un movimento che voleva sapere un po' meglio dove stava andando e poi con i problemi della costruzione di un socialismo che non nasceva da solo. Costoro fecero così rientrare, per ironia della storia, dalla porta di servizio molte "invenzioni" degli utopisti. E certo non tutte scelte tra le migliori, visti i risultati. Oppure sperimentarono in vivo - cioè sulla pelle di milioni di persone - ciò che avrebbe potuto essere vagliato in sede logica.
Paradossalmente più scientifici, in questo, dei "socialisti scientifici", i socialisti utopisti proposero dei modelli meno vaghi, che potevano essere più facilmente discussi, accettati, rifiutati. Non dico che fossero necessariamente più scientifici (o più desiderabili) i contenuti delle loro proposte, che spesso non lo erano; dico che era più scientifico il metodo, come faceva osservare Martin Buber. In più, quando gli utopisti od i loro seguaci passarono dal modello al progetto e da questo alla realizzazione, lo fecero non sperimentando su cavie involontarie, in nome della storia, ma in comunità volontarie.
I risultati, positivi e negativi, delle migliaia di esperimenti utopici, di queste "utopie realizzate" (in modo più o meno effimero, su scala più o meno ridotta, dalle "icarie" americane ai kibbutzim israeliani, dalle comunità industriali francesi alle collettività agricole spagnole) hanno fornito un ricchissimo materiale scientifico, quanto e più forse delle colossali sperimentazioni "storiche" dell'Unione Sovietica e della Cina, un materiale ancora in gran parte inutilizzato dall'adolescente "scienza della libertà".

10. Dopo le precedenti riflessioni sull'utopia in generale e prima di passare a considerare più particolarmente l'utopia anarchica, è utile soffermarsi ancora brevemente su un paio di osservazioni generali. Primo: tutte o parte delle definizioni-funzioni che abbiamo distinto nella nostra "classificazione", possono benissimo essere considerate come aspetti di un'unica funzione utopica, se beninteso vengono ad esse attribuite specificazioni coerenti tra di loro. Ciò, del resto, è apparso chiaramente anche in sede di trattazione analitica, nei passaggi da un significato all'altro. Tra questi aspetti dell'utopia, cioè, possono essere tracciati collegamenti logici tali da ricomporli unitariamente. Ad esempio si può assumere che da una tensione "oggettiva" al mutamento, dovuta alle "oggettive" contraddizioni di un determinato sistema sociale nasce un'immagine del futuro che nega il presente e che si può tradurre in modelli e progetti "impossibili" in senso relativo, i quali a loro volta, attraverso una "retro-azione" sull'immaginario collettivo, aumentano la tensione verso la rottura dei limiti dell'esistente. Questo significa, nel nostro caso, che i diversi aspetti dell'utopia anarchica possono essere studiati singolarmente ma debbono anche essere considerati come necessariamente correlati l'uno con l'altro.
Secondo: se la funzione utopica è propria di qualunque movimento sociale che persegua una trasformazione radicale, essa non ci dice, di per sé, nulla sul senso di questa trasformazione. Una volta osservato che l'ameba, il pesce, la farfalla e il cavallo sono in grado di spostarsi nello spazio, lo studio della funzione locomotoria è ancora agli inizi: per procedere è necessario andare oltre l'osservazione che questa funzione è presente in (quasi) tutti gli organismi animali ed assente in (quasi) tutti quelli vegetali. Ciò che ulteriormente definisce e qualifica le singole "utopie" sono i valori su cui si fondano, le aspirazioni e gli interessi di cui sono espressione dichiarata o meno, i contenuti dei modelli esplicitamente od implicitamente proposti, la natura dei mezzi e delle strategie indicate.... Questo significa, nel nostro caso, che la funzione utopica dell'anarchismo va letta dentro il suo contesto teorico-pratico specifico.
Anche un attento studioso dell'utopia come il Manneheim non ha saputo cogliere la specificità dell'utopia anarchica. Egli infatti vi vede solo l'ultima, moderna espressione della utopia chiliastica o millenaristica. Ora, è vero che, parafrasando quanto il Manneheim stesso scrive del bolscevismo, molti dei fattori costitutivi dell'atteggiamento chiliastico si trasformarono e si trasferirono nell'anarchismo (specie in certo anarchismo popolare, latino e slavo), in cui assunsero la funzione di accelerare e catalizzare l'azione rivoluzionaria, ma è anche vero che prima, dopo, a lato e perfino dentro quelle espressioni "chiliastiche" dell'anarchismo ritroviamo altre espressioni che presentano al contrario forti affinità con altre due forme mannheimiane: l'utopia "liberale-umanitaria" (o illuministica) e l'utopia "socialista-comunista".
In realtà l'utopia anarchica non è riconducibile ad alcuna delle altre forme, se la funziono utopica viene letta in tutti i suoi aspetti costitutivi ed in relazione ai tratti essenziali dell'anarchismo. Essa possiede una specificità straordinaria, non riconoscendo la quale è possibile darne solo un'interpretazione riduttiva e - in buona o mala fede - caricaturale, facendone, di volta in volta o tutt'insieme, una variante tardo-millenaristica, tardo-illuministica o proto-socialista.

11. Il fondamento assiologico dell'anarchismo, cioè il valore "primo" da cui derivano e cui fanno riferimento costante la teoria e la pratica anarchica è la libertà. Non volendo qui occuparci della libertà come categoria filosofica ma come categoria sociologica, la definiamo, in prima approssimazione, come assenza di potere. Ne diamo una definizione in negativo perché, in questo contesto, ci pare più utile di una definizione in positivo (del tipo "massimo sviluppo delle potenzialità personali", ecc.). D'altro canto, come indica anche l'etimologia della parola anarchia, gli anarchici sono convinti che l'assenza di potere sia per l'appunto la condizione sociale che consente il massimo sviluppo eccetera.
"Assenza di potere" è tuttavia ancora una definizione insufficiente, se non si definisce a sua volta il potere. Con un'altra semplificazione un po' approssimativa, definiamo qui il potere come la facoltà - attribuita a determinati ruoli sociali - di emanare norme ed applicare sanzioni; di emettere ordini e farli eseguire. Cioè, come una serie di rapporti sociali autoritativi permanentemente asimmetrici. Ci spieghiamo. Se, con un uso un po' eretico rispetto alla semantica anarchica tradizionale, intendiamo per autorità la natura asimmetrica di un rapporto sociale in termini di facoltà decisionale, dobbiamo riconoscere che l'autorità è presente in forme più o meno accentrate ed esplicite in ogni società, reale o immaginaria. Essa appare cioè come una funzione sociale ineliminabile, quanto meno come funzione collettiva (l'assemblea, l'opinione pubblica, ecc.). In società altamente differenziate, non basta immaginare un'autorità collettiva indivisa, in esse è indiscutibilmente ampia la gamma di scelte che oltrepassano la sfera individuale e che non possono essere effettuate collettivamente da tutti gli interessati in senso rigoroso, cioè con unanimità rigorosa e su un piano di rigorosa parità, sia per motivi di funzionalità sia per motivi di competenza, ecc.. Singoli rapporti possono così esplicarsi in forma asimmetrica, tra gli individui e tra essi e la comunità. Ma questa asimmetria non è ancora potere se, nel loro complesso, i rapporti sociali ricompongono una sostanziale equivalenza d'autorità di tutti gli individui, se cioè si verifica quello che potremmo chiamare un generale ed equo "scambio simbolico" d'autorità, per cui nessuno è determinato nel suo comportamento più di quanto determini il comportamento altrui e viceversa.
Quando invece l'asimmetria tra gli individui viene resa permanente e quando l'asimmetria tra i singoli individui e la comunità viene sottratta all'accettazione spontanea dei (e nei) suoi limiti inevitabili e la relativa autorità diventa funzione separata dalla società e mediata ed imposta da gruppi sociali particolari, quando cioè l'asimmetria viene istituzionalizzata in strutture e codici di comportamento gerarchici, allora nasce il potere.
Il potere deriva dall'autorità, ma non necessariamente, come la diseguaglianza può nascere, ma non necessariamente dalla diversità.
Ripetiamo, a scanso d'equivoci, che il significato che abbiamo qui attribuito ai termini autorità e potere, per esigenze analitiche, non corrisponde all'uso corrente degli anarchici (che perlopiù avvolgono entrambi i termini in un'unica ed indistinta valenza negativa) e neppure all'uso corrente degli apologeti della gerarchia, che volutamente confondono autorità e potere per giustificare il secondo con la prima (si vedano i banali esempi dell'autorità del capitano di nave e del dentista, ma anche le più sofisticate argomentazioni di Dahrendorf). Distinguendo a modo nostro i due termini, possiamo dire che, per l'anarchismo, la libertà tanto più permane o si sviluppa, quanto più si impedisce che l'autorità diventi potere e la diversità diventi disuguaglianza. Con una differenza sostanziale: che l'autorità presenta per sua natura pericoli assai maggiori di trasformarsi in potere, cioè di contraddire e ridurre la libertà, mentre la diversità è perfettamente congeniale con la libertà. La prima va pertanto ridotta ai "minimi" fisiologici, anche come funzione collettiva (2), mentre la seconda va dispiegata in tutta la sua ricchezza sino ai "massimi fisiologici'".
Dunque la libertà sociale dell'anarchismo significa necessariamente anche eguaglianza e diversità. O, se si preferisce, la libertà anarchica, che è la più estrema e coerente interpretazione sinora pensata e progettata, può anche essere letta come la più estrema e coerente uguaglianza (perché è tale anche di fronte all'autorità, negandone la trasformazione in potere, cioè in autorità diseguale) coniugata alla più estrema e coerente diversità.
Infatti, lungi dall'essere contraddittori, i concetti di uguaglianza e diversità sono complementari: è infatti la diseguaglianza, paradossalmente, che porta all'uniformità, al livellamento, alla massificazione. "Anche oggi si sente stancamente ma accanitamente ripetere - scrive Guiducci - che proporre l'uguaglianza significherebbe "violentare" la natura umana, che comporta le "differenze", quando è semplice comprendere che le differenze diventano possibili, e senza conflitti per tutti, in situazioni di uguaglianza, e tendono a schiacciarsi, invece, nei livellamenti oppressivi delle classi e degli strati dove tutti sono intercambiabili". "La diversità - come dicevo, scrivendo di autogestione - dev'essere non semplicemente accettata, ma esaltata, ricercata, creata e ricreata continuamente. Perché la diversità è un bisogno dell'uomo, perché la diversità è un valore in sé. Diverso è bello".
Libertà uguaglianza e diversità al più alto grado possibile ed in necessaria coerenza tra loro: questo è il nocciolo della specificità anarchica. E da ciò deriva la specificità dell'utopia anarchica.

12. L'anarchismo è dunque la speranza e la volontà di una trasformazione sociale talmente radicale, talmente in contraddizione con l'ordine esistente da rendere possibile una fortissima tensione utopica. Ma quella stessa fortissima tenuto utopica è anche necessaria per indirizzare l'azione sociale verso un mutamento così eccezionale da implicare un vero e proprio salto di qualità: maggiore è lo scarto fra l'esistente e ciò che lo nega, maggiore deve essere la tensione per consentire al "futuro" di riversarsi sul presente per trasformarlo, per consentire all'impossibile di diventare possibile. Incidentalmente, questo forse spiega la presenza di elementi "chiliastici" nei movimenti anarchici di massa.
Poiché il mutamento anarchico implica un salto di qualità culturale (una "mutazione culturale", staremmo per dire), la funzione dell'utopia anarchica è innanzitutto la funzione rivoluzionaria di far crescere la speranza e la volontà di cambiare la società sino al punto non semplicemente di superare i confini di un dato sistema di potere, ma di spezzare addirittura la tenace membrana culturale che separa lo spazio simbolico del potere dallo spazio simbolico della libertà. Una membrana fatta dal millenario depositarsi e stratificarsi e tramandarsi di generazione in generazione, nelle strutture caratteriali e nell'immaginario sociale, dei comportamenti gregaristico-autoritari e dei valori gerarchici, dei fantasmi e dei miti costruiti da e per società costituzionalmente divise in dominanti e dominati.
In questa rottura culturale sta il vero senso della rivoluzione anarchica, che non è la grande-soirée, non è l'apocalisse, ma una "mutazione" culturale di intensità e portata inaudite, fatta di trasformazioni etiche strutturali, comportamentali, di trasformazioni individuali e collettive. Poiché lo stato è innanzitutto nella testa della gente, dei servi più ancora che dei padroni, la funziono utopica è funzione rivoluzionaria in senso anarchico innanzitutto se e in quanto riesce a dissolvere questo "stato incosciente", come lo chiama Lourau, consentendo la liberazione di energie potenziali enormi, aprendo le tanto temute (dai padroni, ma anche dai servi) "cateratte dell'anarchia".
La tensione utopica dell'anarchismo non si esaurisce tuttavia nella funzione rivoluzionaria che consente il salto culturale, perché essa non porta da un sistema chiuso ad un altro sistema chiuso, come succede per le utopie che si muovono nello spazio del potere. L'utopia anarchica è un'utopia permanente, forse l'unica utopia che non possa diventare ideologia nel senso mannheimiano, cioè giustificazione dell'esistente. Si può certo immaginare un calo di tensione, dopo la rottura rivoluzionaria, ma la specificità libertaria dell'utopia anarchica garantisce comunque la permanenza di una irriducibile tensione al mutamento. Perché lo spazio in cui sposta la società è lo spazio delle infinite possibilità da esplorare. La società libertaria è la società aperta. L'utopia anarchica è un orizzonte irraggiungibile: si può dire di essere arrivati in India, quando invece si è arrivati in America e ci si può costruire sopra un'ideologia, ma nessuno può dire d'avere raggiunto l'orizzonte. Nessuno potrà mai sostenere che le infinite forme della libertà sono state esaurite.

13. L'utopia anarchica è dunque in realtà lo spazio di mille utopie, che non solo si possono succedere l'una all'altra, come nell'immagine di Wilde, ma anche coesistere in diverse società contemporanee o addirittura in seno alla medesima società. L'utopia anarchica non ha nulla a che vedere con quelle "costruzioni monolitiche ed omogenee, in cui manca il mutamento", che paventa Dahrendorf. Questo può essere vero di singole costruzioni utopiche, di singoli modelli utopici. Non abbiamo anzi difficoltà a riconoscere che la grande maggioranza dei modelli utopici presentano questo carattere di asfissiante conformismo e di morta stabilità (non a caso moltissime utopie - quasi tutte - erano utopie autoritarie, modelli di potere). Lo stesso non può dirsi della funzione utopica che è funzione dinamica, come s'è visto, e proprio la sua scomparsa, semmai porterebbe ad una "condizione statica" in cui l'uomo non è più che una cosa, implicando "la fine stessa della volontà umana" (Mannheim) E ancor meno si concilia con la specificità dell'utopia anarchica l'immagine che lo stesso Dahrendorf dà della società egualitaria, confondendo disuguaglianza e diversità: "La società totalmente ugualitaria è un'idea non soltanto non realista ma anche terribile: in Utopia non regna la libertà (...) ma la perfezione del terrore o della noia assoluta". Perché l'anarchismo presuppone una scelta della libertà, che è la massima concepibile garanzia di quella libertà di scelta di cui soltanto si occupano i liberal-democratici alla Dahrendorf.
L'utopia anarchica è lo spazio delle mille utopie, e cioè lo spazio dei mille modelli che esplorano le forme della libertà, con la duplice funzione di agire sovversivamente sull'immaginario sociale (indicando le possibilità dell'"impossibile", dimostrando credibile l'"incredibile") e di sperimentare mentalmente progetti di società libertarie ed egualitarie. La costruzione di modelli ed il loro raffronto sono operazioni logiche che, come dicevamo, consentono di esplorare razionalmente il futuro che si vuole costruire, proprio per poterlo costruire, riducendo l'ambito della sperimentazione in vivo, dei tentativi e degli errori. Forse, per fare un esempio, molti degli errori e delle fatali incertezze della rivoluzione spagnola avrebbero potuto essere evitate se il movimento anarchico avesse avuto una visione meno semplicistica della società liberata e dei meccanismi decisionali e dell'enorme problematica della transizione.
Il rifiuto di parte degli anarchici per questa sperimentazione mentale, per la discussione cioè dei problemi dell'organizzazione sociale egualitaria e libertaria è irragionevole, sia che nasca dal timore di "fughe in avanti" sia dalla considerazione che la costruzione della libertà è compito non nostro ma delle masse, del protagonista collettivo della rivoluzione sociale e che ora ci si debba occupare solo del momento distruttivo. Gli errori che stanno dietro queste argomentazioni sono riconducibili ad un'incomprensione della funzione utopica oppure ad una concezione strettamente deterministica della storia o strettamente naturalistica dell'uomo oppure ancora ad una visione mistica, apocalittica della rivoluzione. È un rifiuto che mortifica la creatività sovversiva, che impoverisce il bagaglio intellettuale e la stessa carica emotiva dell'anarchismo, che rischia infine di lasciare la teoria e la prassi libertaria disarmate di fronte ai problemi immediati della distruzione-costruzione e soprattutto di fronte alla formidabile forza d'inerzia sociale con cui il potere si ricostruisce dopo ogni rottura rivoluzionaria.

14. "Se il vecchio Padrone morisse - scrive Guiducci - il Servo riuscirebbe finalmente a vincere, ma non saprebbe costruire una nuova società. Infatti ha praticato sempre il rigetto, ma non ha mai elaborato un progetto di una società alternativa capace di funzionare democraticamente in ogni sua parte". Di una società senza stato, direbbe più esplicitamente un anarchico.
Lo stato oggi più che mai riassume in sé il principio gerarchico. Se ieri era solo l'organizzazione del potere politico, oggi lo stato - di fatto o tendenzialmente - assorbe e giustifica (e ne è giustificato) una gran varietà di funzioni sociali (economiche, pedagogiche, logistiche, culturali, assistenziali). L'utopia dello stato - l'utopia tecno-burocratica - è la strutturazione di tutta la società secondo le sue linee gerarchiche, è il vero potere assoluto. È un'utopia che se si realizzasse significherebbe la morte della società, ma paradossalmente anche il suicidio dello stato, che può esistere solo come parassita della società.
Come il virus cancerogeno va a sostituirsi ai nuclei cellulari, cellula dopo cellula, tessuto dopo tessuto, fino ad uccidere l'organismo, così lo stato invade sempre più ampiamente e sempre più a fondo la società. L'utopia anarchica è dunque l'anticorpo che la società deve produrre in quantità crescente se vuole sopravvivere.
La società contro lo stato dell'utopia anarchica è la rivolta dei gruppi sociali dominati (delle classi sfruttate, delle donne, delle minoranze oppresse...) contro il principio della dominazione, contro la logica del potere riassunta nello stato. Ma perché la società si possa muovere contro lo stato, essa deve innanzitutto potersi immaginare - come possibilità reale, non come sogno - senza poliziotto, prete, giudice, padrone, burocrate, compagno-dirigente... deve cioè potersi concretamente immaginare senza ruoli di potere, senza strutture gerarchiche. Deve pensare - e per quanto possibile sperimentare - forme di autogestione e di democrazia diretta, di decentramento e di federalismo. Deve pensare e sperimentare rapporti non-gerarchici tra uomo e donna, tra adulti e bambini, tra città e campagna, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.... Deve pensare e sperimentare modelli utopici anarchici, appunto.

15. "Non abbiamo la minima intenzione - scriveva Bakunin - di imporre a qualsiasi popolo un sistema sociale tratto dai libri o da noi elaborato. Il popolo sarà felice e libero solo se potrà organizzarsi da se stesso". È, questa, un'affermazione che nessun anarchico può non condividere. Ma ciò che qui viene negato con forza non è la progettualità utopica in genere, è la pretesa, irrimediabilmente anti-anarchica, di imporre dall'alto piani globali al presente e al futuro, è l'orribile sogno tecnocratico di tanti aspiranti ingegneri sociali di costringere la realtà nella camicia di forza della loro razionalità, è la "felicità" preconfezionata per il popolo da "principi illuminati" (o da dittature "rivoluzionarie"), la "felicità" delle utopie autoritarie costruite sull'idea che di felicità hanno i loro autori.
Le utopie anti-autoritarie al contrario, come osserva Maria Luisa Berneri, "non cercavano di presentare un piano prefabbricato, bensì idee audaci ed eterodosse, (...) esigevano che ogni uomo fosse 'unico' e non uno tra i tanti", proponevano "un ideale di vita senza farne un piano - cioè una macchina morta applicata alla materia vivente".
Tutt'altra cosa rispetto al piano utopistico-autoritario è la progettualità, intesa come creatività e sperimentalità individuale e collettiva, una progettualità che si sviluppa insieme alla lotta sociale, con il movimento rivoluzionario, in un'interazione continua tra teoria e pratica e tra scienza ed etica. Infatti precisa Malatesta: "L'essenziale non è il trionfo dei nostri piani, dei nostri progetti, delle nostre utopie, le quali del resto hanno bisogno di essere confermate dall'esperienza e possono con la pratica esigere delle modifiche". È qui ancora più chiaro che si rifiuta - coerentemente - la rigidità dogmatica dei modelli, non la loro esistenza e la loro utilità.
Lui stesso, Malatesta, diede forma abbastanza esplicita ne L'anarchia ad un suo modello di società libertaria e prima di lui il Kropotkin de La conquista del pane e dopo di lui il Besnard de Il mondo nuovo. Essi, ed altri anarchici, noti ed ignoti, hanno dato il loro contributo non solo a distruggere le basi del sistema di dominazione e di sfruttamento ma anche a gettare le basi di una società senza potere, delineando alcuni dei mille volti dell'utopia anarchica, a volte per iscritto, più spesso con i loro comportamenti, le loro scelte, la loro vita....
Essi, gli anarchici, hanno tenuto viva con le parole e con l'esempio - nella quotidianità e nelle lotte, nell'entusiasmo dei periodi rivoluzionari o nella stanchezza del riflusso, nelle fabbriche di Barcellona o nei gulag staliniani, con cento contraddizioni ma con una indistruttibili coerenza di fondo - l'immagine di una possibile-impossibile comunità di uomini liberi ed uguali. Possibile perché è tutta dentro la "natura" umana, impossibile perché tutta fuori dalla cultura dominante. Possibile perché l'uomo può pensarsi e volersi libero tra liberi, impossibile se il servo continua a pensarsi servo o a sognarsi padrone.
Essi hanno dato contenuti di maggiore concretezza e consapevolezza ad un'immagine che, come sogno o come progetto, latente per lo più e a tratti emergente, attraversa tutta la storia del dominio, nelle rivolte individuali e collettive. Essi - e quei movimenti sociali che in varia misura, sia spontaneamente sia per loro influenza, hanno cercato di realizzare quella stessa immagine libertaria ed egualitaria - hanno dimostrato che l'utopia anarchica, lungi dal generare "sovversivi immaginari", produce e nutre un immaginario sovversivo.

1) "Il Nuer è il prodotto di un'educazione dura ed egualitaria (...); nessuno riconosce un superiore sopra di sé. (...) Nella loro società non ci sono né padroni né servi, ma solo uguali. (...) Nei rapporti vicendevoli il solo sospetto di ricevere un ordine è causa di irritazione, e chi lo riceve non lo compie, oppure lo fa in maniera casuale e dilatoria più insultante di un rifiuto. (...) Nelle relazioni quotidiane (...) mostra rispetto per gli anziani (...) purché non interferiscano nella sua indipendenza, ma non si sottometterà mai ad alcuna autorità che contrasti con i suoi interessi, né si considera obbligato ad obbedire a chicchessia". (E.E. Evans-Pritchard, I nuer, un'anarchia ordinata, Angeli, Milano 1975).

2) Gli anarchici hanno ben presente il pericolo che l'autorità collettiva si trasformi in quella "tirannia della società" di cui parla John Stuart Mill, cioè la "tendenza ad imporre con mezzi diversi dalle pene legali le proprie idee come regole di comportamento a coloro che sono di diversa opinione, a turbare ed eventualmente impedire lo sviluppo e la formazione di qualsiasi individualità che non si armonizza con i propri modi ed a costringere tutti i caratteri a conformarsi secondo il modello del proprio stesso carattere". (J.S. Mill, Saggio sulla libertà).

Gli autori ed i testi da cui ho tratto citazioni e materiale di riflessione per questa relazione sono:
A. Argenton, Utopia e condotta umana, in: AA. VV., La ricerca pedagogica tra scienza ed utopia, La Nuova Italia, Firenze, 1979.
M. Baldini, Il pensiero utopico, Città Nuova, Roma, 1974.
M.L. Berneri, Viajes a través de utopia, Proyeccion, Buenos Aires, 1962.
M. Buber, Sentieri in utopia, Comunità, Milano, 1967.
M. Bookchin, Utopianism and Futurism, in Toward an Ecological Society, Black Rose Books, Montreal, 1980.
E. Callenbach, Ecotopia, Mazzotta, Milano, 1979.
G. Campanini, La società industriale tra ideologia e utopia, Angeli, Milano, 1978.
B. Cattarinussi, Utopia e società, Angeli, Milano, 1976.
P. Clastres, La società contro lo stato, Feltrinelli, Milano, 1977.
R. Dahrendorf, Uscire dall'utopia, Il Mulino, Bologna, 1971.
R. Dumont, L'utopie ou la mort, Seuil, Parigi, 1979.
P. Giordani, Il futuro dell'utopia, Calderini, Bologna, 1973.
R. Guiducci, La società impazzita, Rizzoli, Milano, 1980.
A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano, 1971.
H.F. Infield, Dall'utopia alle riforme, Comunità, Milano, 1956.
U. Leguin, I reietti dell'altro pianeta, Nord, Milano, 1976.
R. Lourau, Lo stato incosciente, Antistato, Milano, 1980.
K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1978.
H. Marcuse, La fine dell'utopia, Laterza, Bari, 1968.
A. Montagu, Learning Non-Aggression, Oxford University Press, Oxford, 1981.
W. Morris, Notizie da nessun luogo, Guida, Napoli, 1978
L. Mumford, La storia dell'utopia, Calderini, Bologna, 1969.
G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1967.
K. Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano, 1975.
O. Ruhle, Il coraggio dell'utopia, Guaraldi, Firenze, 1972.
G. Statera, Storia di un'utopia, Rizzoli, Milano, 1973.
B.F. Skinner, Walden due, La Nuova Italia, Firenze, 1975.
A. Zemjatin, Noi, Feltrinelli, Milano, 1963.
In particolare, per chi volesse cominciare ad approfondire il tema dell'utopia, suggerisco la lettura del Baldini, del Buber, del Cattarinussi, del Dahrendorf e del Mannheim.