Utopia -
L'immaginario sovversivo
di Amedeo
Bertolo
Dopo quello dell'argentino Carlos Sabino (pubblicato sullo scorso numero), ecco un nuovo contributo per il convegno di studi sul tema "La funzione dell'utopia" che si terrà a Milano, il 26-27 settembre 1981, in una sala non ancora definita. Promotori ed organizzatori ne sono i compagni e le compagne del Centro Studi Libertari "Giuseppe Pinelli" (viale Monza 255, 20126 Milano, dalle ore 16 alle 20). Alle relazioni per il convegno sarà dedicato integralmente in n. 3 di Volontà. Altre relazioni saranno pubblicate sui prossimi numeri della nostra rivista.
Un atlante che non includa Utopia non merita neppure uno sguardo, poiché lascia fuori l'unico paese che l'umanità ha sempre avuto quale suo approdo, e quando l'umanità vi approda, spinge oltre lo sguardo e, scorgendo un paese ancora migliore, alza la vela. La vecchia landa, la vecchia isola abbandonata ha perduto il suo nome di utopia. (O. Wilde).
1. Alternativamente l'utopia ha conosciuto periodi di fortuna e periodi
di disgrazia, periodi cioè in cui prevalevano i suoi estimatori o i suoi
detrattori. Gli uni e gli altri, comunque, non mancano mai: non manca mai
chi usa il termine con connotazione negativa e chi al contrario gli
attribuisce una valenza positiva. Un lungo periodo di disgrazia è stato
quello che è seguito alla nota critica di Marx ed Engels (che tuttavia era
assai meno distruttivo dell'atteggiamento dei loro epigoni e del cosiddetto
"marxismo volgare"). Poi vi è stato un progressivo recupero di favore, anche
presso marxisti come Bloch e Ruhle, sino a riguadagnare una prevalente
connotazione positiva negli anni '60. Nel frattempo però si sviluppava una
nuova tendenza critica, questa volta di segno "liberal-democratico" (alla
Popper, alla Dahrendorf) più che "scientifico-socialista", cosicché nella
letteratura sociologica e politica degli ultimi dieci-quindici anni (così
come negli atteggiamenti mentali e nei comportamenti sociali) si trovano
elementi ed argomentazioni pro e contro l'utopia in abbondanza e per tutti i
gusti: rivoluzionari, riformisti, conservatori, reazionari.
Quello che appare abbastanza evidente ad una lettura attenta dei libri e dei
giornali è che le discordanze di giudizio sull'utopia nascono a) dalla
molteplicità di significati attribuiti al termine e/o b) dai presupposti
ideologici di chi esprime il giudizio.
Anche tra gli anarchici c'è stato, in oltre cent'anni, e c'è tuttora un
ampio ventaglio di atteggiamenti, pur potendosi generalmente escludere sia
un rifiuto assoluto sia un'esaltazione acritica. Nel caso degli anarchici,
l'uso in positivo o in negativo dei termini utopia, utopico, ecc. ci sembra
nascere in parte da influenze culturali esterne, cui accade che la cultura
anarchica di volta in volta risponda un po' troppo meccanicamente per
imitazione o per reazione ma soprattutto dal primo dei due motivi visti più
sopra e cioè dalla ambiguità semantica di quei termini.
Preliminare dunque a qualunque discorso sull'utopia anarchica, e più in
generale sull'utopia, è un'analisi dei significati che stanno dietro le
parole.
Tesi della presente relazione è che, nella gran parte dei suoi significati,
l'utopia rappresenta una dimensione ineliminabile e positiva dell'uomo - la
dimensione della speranza, della volontà innovativa, della creatività - e,
in particolare, che l'anarchismo debba, criticamente ma senza complessi,
esplorare e dilatare quella dimensione. Se un Mumford scrive che "il compito
più importante che ci aspetta è quello di costruire castelli in aria" - e si
tratta notoriamente non di un sognatore ma di un concreto riformatore -, se
un Riesman scrive che "un risveglio della tradizione del pensiero utopico ci
sembra uno dei più importanti compiti intellettuali del nostro tempo", se un
Marcuse dice che "dobbiamo perseguire l'idea di una via al socialismo che
dalla scienza porta all'utopia e non, come credeva Engels, di una via che
dall'utopia porta alla scienza", ben a maggior ragione la cultura anarchica,
che esprime la speranza e la volontà del più radicale mutamento sociale
della storia, può e deve riappropriarsi di tutta la ricca positività
dell'utopia, deve riconfermare il suo tradizionale "coraggio dell'utopia".
2. L'utopia, secondo Bloch, svolge tre funzioni fondamentali. La prima è
quella di mostrare agli altri che "il reale non si risolve nell'immediato",
la seconda di essere uno strumento di lavoro "che permette di esplorare
sistematicamente tutte le possibilità concrete", la terza di "renderci
coscienti delle imperfezioni di questo mondo, non per fuggirlo in un passato
dorato o in un futuro illusorio, ma per trasformarlo secondo le esigenze
proposte dall'utopia stessa". Un anonimo redattore così definisce l'utopia
su una rivista d'arredamento: "... è aspirazione ad una vita differente da
quella che presenta la società che viviamo, è la proiezione di quella
società che vorremmo. Utopia, quindi, non è un sogno, non è chimera, non è
fuga dalla realtà: ma è tensione intellettuale, pensiero per il futuro,
progettazione" (Caleidoscopio, marzo 1978).
Come affermazione o come negazione, troviamo nelle frasi precedenti tutti i
significati rilevanti che vengono attribuiti al termine utopia: 1) ciò che è
assolutamente irrealizzabile e dunque gioco gratuito della fantasia o fuga
schizoide in un mondo illusorio; 2) immagine del futuro; 3) coscienza
critica dell'esistente e tensione al mutamento sociale; 4) modello mentale
di una società diversa; 5) progetto di una società diversa. Resta fuori
l'utopia come genere letterario, che tuttavia non ci interessa qui. Sia che
si esprima come saggio o come canzone, come sogno ad occhi aperti o come
piano, come racconto di viaggi o come romanzo di fantascienza, l'utopia ci
sembra comunque riconducibile, come funzione sociale, di volta in volta a
una o più delle accezioni su riportate, dall'evasione al progetto.
3. Il primo significato dell'utopia, come di cosa bella ma impossibile,
società ideale ma irrealizzabile (e dunque di sogno inutile, nel migliore
dei casi, se non addirittura dannoso, perché può portare all'inazione o al
contrario a forme di azione sociale irrazionale) è senz'altro quello più
diffuso, soprattutto nel linguaggio corrente.
Non ci si deve tuttavia lasciare eccessivamente impressionare dall'apparente
crisma del "buon senso comune" (che sappiamo spesso derivare dall'ideologia
dominante) e neppure dalla valenza negativa apparentemente inoppugnabile di
questo significato. Per un anarchico, come chi scrive, non è molto difficile
diffidare dalle apparenze e dai luoghi comuni, avendo ben presente il
significato corrente di anarchia: caos e/o utopia, proprio nel senso sopra
visto.
È nuovamente necessaria una definizione terminologica e concettuale: che
cosa si intende per impossibile e, nella fattispecie, che cosa si intende
quando si dice che una speranza od un progetto di trasformazione sociale è
irrealizzabile. Impossibile in assoluto o impossibile in un certo contesto?
Impossibile perché in contraddizione con leggi scientifiche, biologiche,
fisiche, chimiche, ecc. realmente determinate e ragionevolmente certe oppure
irrealizzabile nelle condizioni del presente, i cui modi di essere vengono
arbitrariamente (e spesso con aperta disonestà scientifica) spacciati per
leggi eterne ed universali?
Mannheim ha ben chiaro l'errore (o il trucco) di "ignorare o confondere la
distinzione tra ciò che è inattuabile in senso assoluto e relativo", tra ciò
che per l'appunto chiama utopie assolute e ciò che chiama utopie relative.
"La riluttanza - scrive - a superare i limiti dello status quo
porta a ritenere ciò che è irrealizzabile in un determinato assetto sociale
come del tutto inattuabile in qualunque altro ordine, così che, venendo meno
queste distinzioni, si possa negare la validità delle istanze contenute
nell'utopia cosiddetta relativa. Denominando utopistica ogni idea che
oltrepassa la realtà presente, si tende pertanto ad eliminare il senso di
incertezza che potrebbe insorgere dalle utopie relative". Non a caso, egli
osserva, ogni qualvolta un'idea è chiamata utopica, a ritenerla tale è quasi
sempre un rappresentante di un'epoca già trascorsa.
Così, di volta in volta, sono state ritenute assolutamente irrealizzabili,
dagli ideologi della classe dominante, le utopie di cui erano portatrici le
classi in ascesa o anche più modesti progetti riformatori, quali
l'abolizione della schiavitù, il suffragio universale, il miglioramento
delle condizioni di vita dei salariati, ecc.. Fino a poco più di mezzo
secolo fa, l'abolizione della proprietà privata era considerata un'utopia
assoluta, mentre è ora una realtà indiscutibile per oltre un terzo
dell'umanità. È pur vero che il "comunismo" tecnoburocratico che ha
sostituito il capitalismo s'è dimostrato orribile, ma gli orrori dello
stato-padrone (peraltro chiarissimamente previsti dai socialisti
anti-autoritari) non inficiano l'argomentazione di fondo: la realizzabilità
di ciò che era ritenuto irrealizzabile, di ciò che si diceva essere utopia
assoluta ed era invece utopia relativa.
4. È chiaro dunque che l'utopia di cui parleremo d'ora in avanti, quella
che mi interessa e cui attribuisco un valore positivo insostituibile, non
può essere l'utopia "assoluta", ma è altrettanto chiaro, mi pare, che non si
può delegare la definizione di ciò che è assolutamente impossibile né al
common sense, né all'ideologia (nel significato mannheimiano), né alla
scienza di chi cerca di dimostrare che i comportamenti umani sono
naturalmente determinati e quindi in larga misura immodificabili.
Noi siamo ragionevolmente certi (ragionevolmente, cioè non dogmaticamente)
che il comportamento sociale dell'uomo sia essenzialmente culturale, cioè
appreso, e che sia improponibile una sua assimilazione ai comportamenti
animali, che sono essenzialmente istintuali. Proprio in questo scarto
culturale sta la specificità umana, il salto qualitativo tra l'uomo e gli
altri animali, e qui stanno anche le radici della sua specifica libertà.
Nella "natura umana" sono in realtà a malapena identificabili (e, a dire il
vero, neppure del tutto dimostrate) labili tracce di istinti in senso
proprio, cioè di comportamenti geneticamente determinati, mentre
quelli che comunemente sono indicati come istinti sono in realtà meri
impulsi o "bisogni" fisiologici, la cui espressione comportamentale è tutta
culturalmente determinata. Si sa, cioè, che anche le azioni umane
corrispondenti alle funzioni biologiche elementari, quali l'alimentazione,
l'accoppiamento, ecc., sono determinate, nel loro specifico modo di
esplicarsi, dal mondo simbolico, dalla ragione, dalla religione, dai
costumi, dalle leggi, dalle ideologie... e dalle utopie. E si sa che c'è
un'evoluzione culturale, non necessariamente lineare e progressiva, che non
procede solo per accumulazione quantitativa, ma anche per salti qualitativi,
nelle scienze come nell'etica, nelle istituzioni come nei rapporti
sessuali....
Non vogliamo con questo dire che l'uomo sia una tabula rasa dove si può
scrivere tutto, casualmente ed indifferentemente. Vi è, noi crediamo, un
nucleo irriducibile nella "natura umana", un nucleo però in cui a nostro
avviso è impossibile - perlomeno allo stato attuale delle conoscenze -
discriminare quanto vi sia di natura in senso stretto e quanto di cultura. E
se gli apologeti della disuguaglianza vogliono vedervi le radici
insopprimibili dei comportamenti aggressivi e gerarchici, noi preferiamo
vedervi l'insopprimibile ricerca della libertà e dunque dell'uguaglianza,
che della libertà è la necessaria dimensione sociale.
E ancora, dal momento che non pretendiamo di dimostrare la necessità
naturale delle nostre utopie, perché saremmo degli utopisti ben miseri e
tutto sommato contraddittori e soprattutto perché commetteremmo -
simmetricamente - lo stesso errore scientifico degli anti-utopisti, possiamo
benissimo ammettere, senza rischio per la nostra coerenza logica, che nella
"natura umana" ci siano, come potenzialità, la disuguaglianza, il dominio,
la sopraffazione, eccetera. Perché, comunque, noi sappiamo che esistono e
sono esistiti tipi antropologici non-aggressivi (si veda, ad esempio, la
rassegna curata da A. Montagu); sappiamo che un tipo antropologico non
gerarchico è possibile, non fosse altro perché è esistito in modo talmente
solido da resistere per millenni alle pressioni culturali di segno opposto
(si veda Clastres, si veda in Evans-Pritchard la bellissima definizione del
carattere propriamente anarchico dei Nuer (1)).
Noi sappiamo dunque che, quand'anche ci venisse dimostrato (ma sinora non ci
è stato dimostrato in modo convincente) che l'aggressività reciproca, la
gerarchia ed altri consimili comportamenti cari all'ideologia "scientifica"
dello status quo, sono "scritti" nella natura umana, vi sono scritti anche i
comportamenti opposti e che le "tendenze" aggressive, gerarchiche, eccetera,
possono essere annullate da meccanismi culturali che, anziché favorirle e
potenziarle (e, forse, in realtà generandole) siano modellati sulle opposte
tendenze solidali, egualitarie, libertarie.... C'è la possibilità, e tanto
ci basta.
5. Da un estremo all'altro: dalla prima definizione che, con le riserve
viste, può essere quasi universalmente accettata come negativa, passiamo al
secondo significato (utopia come immagine del futuro) che, in qualche
misura, può assumere una valenza positiva per chiunque. Lo stesso
Dahrendorf, che è uno dei più sottili - ma non per questo meno convinti -
nemici dell'utopia, si vede costretto a precisare che "vi è un concetto più
ampio di utopia che comprende ogni immagine del futuro". Non è a questo
significato che egli si riferisce, perché "senza un'immagine del futuro gli
uomini non riescono a vivere, e tantomeno a strutturare la loro vita.
Desideri, sogni e speranze, programmi e obiettivi sono i moventi delle
nostre azioni". È probabilmente a questa concezione dell'utopia che pensa un
altro grande antiutopista, Benedetto Croce, quando in apparente
contraddizione con altre frasi di decisa ripulsa della dimensione utopica si
lascia scappare che "l'utopia dell'oggi si converte nella realtà di domani",
quasi parafrasando Oscar Wilde ("Il progresso è una realizzazione di
utopie") e Karl Mannheim ("È possibile che le utopie di oggi divengano le
realtà di domani").
Il fatto è che il futuro è contenuto nel presente, come il passato. E non
già solo come potenzialità, per cui "una valutazione dei fattori esistenti
nel presente e un'analisi delle tendenze latenti in queste forze possono
approdare ad un risultato concreto solo se il presente viene interpretato
alla luce della sua effettiva realizzazione nel futuro" (Mannheim). Questa
è, a mio avviso, una concezione meccanicamente limitativa dei rapporti tra
presente e futuro, che non tiene conto dell'effetto di feed-back psicologico
per cui il futuro influenza il presente.
Più prossimo alle mie convinzioni e Bookchin, quando scrive che "chi cessa
di cercare il nuovo ed il potenziale in nome del realismo ha già perso il
contatto con il presente, perché il presente è sempre condizionato dal
futuro". È inconcepibile un uomo che esista nel puro qui e ora, se non come
un sughero che galleggia passivamente sull'eterno presente. Se l'uomo agisce
più o meno volontariamente, se sceglie più o meno liberamente,
lo può fare solo grazie al suo passato ed al suo futuro o meglio alla sua
immagine del passato ed alla sua immagine del futuro. Di più,
anche la sua rappresentazione del passato (che non è beninteso fatta solo
delle sue esperienze personali, ma è partecipe dell'immaginario sociale)
viene influenzata dalle sue previsioni e dalle sue aspettative, cioè dalla
sua immagine del futuro, perché la memoria individuale (e collettiva) non è
un magazzino, ma una funzione vitale, che continuamente rielabora il
passato, valutando ed organizzando diversamente i dati che lo costituiscono.
Se è vero che noi viviamo concretamente solo qui ed oggi, è altrettanto vero
che, da animali culturali quali siamo, nel qui e ora, viviamo anche,
simbolicamente, altrove e ieri e domani. Con una metafora spaziale, possiamo
dire che il tempo dell'uomo è in ogni istante "tridimensionale", fatto cioè
insieme di presente passato futuro.
6. Quanto sia importante il futuro per il presente lo hanno sempre saputo
gli ideologi dello status quo, che sono sempre stati incaricati (preti o
scienziati che fossero) di costruire un'immagine del futuro sostanzialmente
simile al presente, di rimuovere dal futuro - e dunque dal presente - le
aspettative incompatibili con l'ordine sociale esistente, spostandole in un
tempo mitico o sostituendole con piccole aspettative di piccoli
miglioramenti. Al contrario i gruppi sociali opposti alla classe dominante
(in lotta concorrenziale per il potere o in lotta antagonistica
contro il potere) hanno sempre fatto un uso utopico del futuro, cioè
sovversivo dell'ordine esistente.
Ma oggi, quando già da un pezzo l'utopia liberale si è rivelata per quello
che era o che comunque è diventata - ideologia borghese - e neppure il
progressivo smascheramento dell'utopia marxista per quello che era o che
comunque è diventata - ideologia tecnoburocratica - può giustificare lo
squallido repechage dell'utopia borghese; oggi quando
anche quel surrogato quantitativo di utopia che è il progresso come sviluppo
economico sembra più garantire un futuro accettabile, che cosa succede?
Succede che capita di leggere, sul principale quotidiano dell'establishment
"illuminato" italiano brani come quello che segue. "Abbiamo paura del
futuro, non riusciamo più ad immaginarcelo. Gli uomini che vivevano secoli
fa (...) lo pensavano più o meno come il presente. In epoca più recente, con
lo sviluppo della scienza e della tecnica si è diffusa l'idea di progresso:
il futuro sarà migliore del presente (...). Oggi noi non siamo in condizione
di immaginare come sarà il mondo fra cent'anni. Se - come facevano i nostri
predecessori - estrapoliamo il presente, dobbiamo pensare ad un formicaio
umano, dove tutto è razionato, città di cento milioni di abitanti, dove non
sappiamo se regnerà l'anarchia o il totalitarismo (...). In ogni caso non
riusciamo ad immaginare qualcosa di felice e nemmeno di migliore. Questo
vuol dire aver perso il futuro. Ma una società che ha perso il futuro a
cent'anni, ha, in realtà, un futuro a trenta, venti, dieci anni? La
scomparsa del futuro remoto non coinvolge patologicamente anche il futuro
più prossimo?" (F. Alberoni sul Corriere della Sera, 22 dicembre
1980).
Ecco allora un Alberto Cavallari, sempre sulle pagine del Corriere della
Sera (18 marzo 1981), inneggiare ad una nuova utopia, una "real-utopia"
in cui "la politica si risposi all'etica". Perché "questo pianeta impazzito
(...) sta precipitando nel vuoto di una crisi spirituale illimitata". E "la
crisi è la mancanza di futuro". "L'uomo deve realizzare una 'mutazione
culturale', avere il coraggio di strategie e di politiche globali (...).
L'uomo ha solo vent'anni di tempo per fare una 'rivoluzione' senza la quale
il Duemila sarà l'inizio della catastrofe (...). Mentre si verifica la crisi
di tutte le ideologie, mentre le politiche parziali e 'realiste' stanno
creando la catastrofe, l'ultima piaga del millennio è credere che non vi sia
più spazio per le 'utopie'". Sembra di rileggere Dumont, quando scriveva: "I
Realisti, o quantomeno i migliori tra essi, ci mostrano che il
'loro' mondo va verso la catastrofe. Passano dunque la parola agli
Utopisti che sono chiamati (...) a ricercare le basi di tipi diversi di
società"!
Che cosa succede? Succede che la completa chiusura del futuro è pericolosa
per la stabilità sociale come la sua completa apertura e succede che
qualcuno comincia a preoccuparsi di tenere aperto un qualche spiraglio di
immagine decente del futuro, ad evitare che ai difensori dello status quo
resti solo un uso "terroristico" del futuro (proiezioni orribili per
giustificare un presente "meno peggio"). O che si riapra nell'immaginario
collettivo un uso veramente utopistico del futuro, un uso veramente
rivoluzionario - senza le virgolette.
7. Tre sono dunque le immagini del futuro: una è la lettura ideologica
del futuro come copia del presente, copia fedele o copia appena ritoccata in
meglio, che si presta solo ad un uso conservatore; un'altra è quella che
proietta alcune tendenze "degenerative" del presente per immaginare un
possibile futuro peggiore e può prestarsi sia ad un uso ideologico di
conservazione dell'esistente ("terroristico" o correttivo), sia ad un uso
utopico (o meglio dis-topico, cioè di utopia negativa che critica il
presente amplificandone i difetti: si pensi a Zemjatin, Huxley, Orwell);
un'altra, infine, è la lettura propriamente utopica, che ci porta
direttamente al terzo significato dell'utopia, quella ben identificata dal
Mannheim nella sua classica distinzione tra ideologia ed utopia e nella sua
altrettanto classica definizione di mentalità utopica.
"Esistono due principali categorie di idee che trascendono la realtà
presente - le ideologie e le utopie", scrive. "Le utopie trascendono la
situazione sociale in quanto orientano la condotta verso elementi che la
realtà presente non contiene affatto". Per Mannheim la realtà presente dà
origine alle utopie che, alla loro volta, ne rompono i confini per lasciarla
quindi libera di svilupparsi nella direzione dell'ordine successivo (verso
una successiva "topia", direbbe Landauer), mentre la trascendenza
dell'ideologia ha una funzione conservatrice, mistificatrice. E ancora "Una
mentalità si dice utopica quando è in contraddizione con la realtà presente
(...). Utopici possono invero considerarsi solo quelli orientamenti che,
quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a
rompere l'ordine prevalente".
Così intesa, la funzione dell'utopia - come tensione innovatrice - non può
che essere caricata di valenza positiva, da chiunque condivida un rifiuto
radicale dell'assetto sociale esistente. Qualsiasi progetto di
trasformazione sociale che non si fermi al restauro del vecchio edificio
(che non si limiti cioè ad un'intelligente conservazione) ma miri quantomeno
ad un'ampia ristrutturazione, qualunque progetto non dico rivoluzionario, ma
anche riformatore di ampio respiro non può non partecipare di questa
mentalità utopica, di questa consapevole contraddizione tra aspirazione e
realtà. Chi oppone un realismo riformatore ad un utopismo rivoluzionario non
comprende che senza una certa dose di spirito utopico non è concepibile
neppure alcuna vera riforma (come del resto senza una certa dose di realismo
non è neppure possibile alcuna rivoluzione) oppure vuole spacciare, con
l'aggettivo "riformatore", una pura e semplice real-politik ed è solo uno
dei tanti ideologi incaricati di esorcizzare l'utopia, con banalità del tipo
"meglio un uovo oggi che una gallina domani".
Mentre lo spirito dell'utopia, la tensione con cui il domani si riversa
sull'oggi, ci dice che l'uovo di oggi può essere fatto proprio dalla
gallina di domani, che senza questa non avremmo neppure quello.
8. "Se l'utopia non si è spenta, né in religione, né in politica", scrive
Silone, cristiano senza chiesa e socialista senza partito (come s'era
autodefinito), "è perché essa risponde ad un bisogno profondamente radicato
nell'uomo. La storia dell'utopia è perciò la storia di una sempre delusa
speranza, ma di una speranza tenace". La tensione utopica è certo fatta di
speranza, ma non solo di speranza. La speranza di un diverso assetto sociale
non basta a definire la specificità della tensione utopica (se non forse
nelle sue espressioni fideistiche): è necessaria anche la dimensione della
volontà. La semplice speranza che prima o poi l'uomo potesse volare non
avrebbe mai fatto crescere la "tensione utopica" fino a farle rompere i
confini dell'impossibilità relativa, se non vi si fosse raggiunta la volontà
di fare volare l'uomo.
La dimensione volontaria è la dimensione dell'intelligenza creativa,
dell'intelligenza progettuale e ci porta diritto alle due ultime
definizioni-funzioni dell'utopia: l'utopia come modello mentale e come
progetto.
Qui siamo tutti dentro lo spazio della ragione e della scienza sperimentale.
L'utopia, scrive la Metelli di Lallo, è "un 'esperimento mentale',
formalmente analogo a quello che ha contribuito al balzo in avanti della
scienza contemporanea, là dove 'scienza' non significa accumulazione di
fatti, ma sfida al mondo come fenomenologicamente avvertito, in virtù di un
disegno teorico non ricavato dal già noto, bensì proposto dall'intelligenza
creativa al fine di scoprire significati del mondo altrimenti irreperibili".
E ancora, il Kateb: "Molti libri utopici sono in effetti delle sociologie di
vasta portata e fanno progredire la nostra comprensione dei rapporti sociali
nello stesso modo degli studi sulle società reali condotti su larga scala".
Come attraverso l'uso di modelli la scienza sociale può rappresentarsi e
comprendere strutturalmente e funzionalmente i sistemi reali, così
attraverso l'uso di modelli utopici è possibile esplorare razionalmente
lo spazio dell'"impossibile", per discriminarne il relativo dall'assoluto e
per trarne ulteriori elementi di critica razionale alla falsa
necessità dell'esistente. Attraverso l'uso di modelli, l'utopia allarga lo
spazio del progettabile al di là dell'immediatamente possibile e consente un
ulteriore screening in sede logica delle coerenze e delle
incoerenze nei progetti di mutamento con i valori verso la cui realizzazione
si vuole indirizzare il mutamento stesso.
Se dalla trasformazione sociale auspicata si ha una concezione volontaria,
progettuale (dell'uomo che si costruisce il suo futuro) è perfettamente
adeguato un uso - critico - dei modelli utopici, non solo di quelli
positivi, ma anche di quelli negativi, di quelli cioè che prospettano gli
sbocchi allucinanti cui può portare la realizzazione di certi modelli.
9. Il riformatore, il rivoluzionario può fare a meno di proporre modelli
e progetti minuziosamente dettagliati, ma non può fare a meno di indicare
chiaramente la direzione del mutamento. E per indicare la direzione non
basta indicare i valori perseguiti (libertà, uguaglianza, giustizia,
eccetera) perché questi valori restano parole dai cento significati se non
sono lette dentro un contesto sociale, reale o progettuale, che dia loro un
senso preciso.
Solo una concezione angustamente deterministica del mutamento sociale può
fare a meno di modelli, nella convinzione che il nuovo non debba essere
progettato e costruito ma sia tutto dentro i meccanismi necessari - della
storia o della provvidenza. Neppure il materialismo storico dialettico ha
potuto rinunciare del tutto ai modelli. Marx, come è noto, è stato molto
prudente nella descrizione della società comunista. Più volte arriva alle
soglie di una descrizione di questa società, per poi indietreggiare ed
accontentarsi di alcune formule generali, che adotta molto presto (nel
Manifesto) e che poi tornano ad apparire spesso, dall'Ideologia
tedesca alla Critica del programma di Gotha. Si tratta di un modello
appena accennato, utile tuttavia a lui ed ai suoi seguaci per darsi
un'identità che non fosse esclusivamente "scientifica" e sufficiente agli
anarchici per denunciarne il carattere autoritario e gli sbocchi totalitari.
Era certo un modello insufficiente per i suoi epigoni, alle prese dapprima
con un movimento che voleva sapere un po' meglio dove stava andando e poi
con i problemi della costruzione di un socialismo che non nasceva da solo.
Costoro fecero così rientrare, per ironia della storia, dalla porta di
servizio molte "invenzioni" degli utopisti. E certo non tutte scelte tra le
migliori, visti i risultati. Oppure sperimentarono in vivo - cioè sulla
pelle di milioni di persone - ciò che avrebbe potuto essere vagliato in sede
logica.
Paradossalmente più scientifici, in questo, dei "socialisti scientifici", i
socialisti utopisti proposero dei modelli meno vaghi, che potevano essere
più facilmente discussi, accettati, rifiutati. Non dico che fossero
necessariamente più scientifici (o più desiderabili) i contenuti
delle loro proposte, che spesso non lo erano; dico che era più scientifico
il metodo, come faceva osservare Martin Buber. In più, quando gli utopisti
od i loro seguaci passarono dal modello al progetto e da questo alla
realizzazione, lo fecero non sperimentando su cavie involontarie, in nome
della storia, ma in comunità volontarie.
I risultati, positivi e negativi, delle migliaia di esperimenti utopici, di
queste "utopie realizzate" (in modo più o meno effimero, su scala più o meno
ridotta, dalle "icarie" americane ai kibbutzim israeliani, dalle comunità
industriali francesi alle collettività agricole spagnole) hanno fornito un
ricchissimo materiale scientifico, quanto e più forse delle colossali
sperimentazioni "storiche" dell'Unione Sovietica e della Cina, un materiale
ancora in gran parte inutilizzato dall'adolescente "scienza della libertà".
10. Dopo le precedenti riflessioni sull'utopia in generale e prima di
passare a considerare più particolarmente l'utopia anarchica, è utile
soffermarsi ancora brevemente su un paio di osservazioni generali. Primo:
tutte o parte delle definizioni-funzioni che abbiamo distinto nella nostra
"classificazione", possono benissimo essere considerate come aspetti di un'unica
funzione utopica, se beninteso vengono ad esse attribuite
specificazioni coerenti tra di loro. Ciò, del resto, è apparso chiaramente
anche in sede di trattazione analitica, nei passaggi da un significato
all'altro. Tra questi aspetti dell'utopia, cioè, possono essere tracciati
collegamenti logici tali da ricomporli unitariamente. Ad esempio si può
assumere che da una tensione "oggettiva" al mutamento, dovuta alle
"oggettive" contraddizioni di un determinato sistema sociale nasce
un'immagine del futuro che nega il presente e che si può tradurre in modelli
e progetti "impossibili" in senso relativo, i quali a loro volta, attraverso
una "retro-azione" sull'immaginario collettivo, aumentano la tensione verso
la rottura dei limiti dell'esistente. Questo significa, nel nostro caso, che
i diversi aspetti dell'utopia anarchica possono essere studiati
singolarmente ma debbono anche essere considerati come necessariamente
correlati l'uno con l'altro.
Secondo: se la funzione utopica è propria di qualunque movimento sociale che
persegua una trasformazione radicale, essa non ci dice, di per sé, nulla sul
senso di questa trasformazione. Una volta osservato che l'ameba, il pesce,
la farfalla e il cavallo sono in grado di spostarsi nello spazio, lo studio
della funzione locomotoria è ancora agli inizi: per procedere è necessario
andare oltre l'osservazione che questa funzione è presente in (quasi) tutti
gli organismi animali ed assente in (quasi) tutti quelli vegetali. Ciò che
ulteriormente definisce e qualifica le singole "utopie" sono i valori su cui
si fondano, le aspirazioni e gli interessi di cui sono espressione
dichiarata o meno, i contenuti dei modelli esplicitamente od implicitamente
proposti, la natura dei mezzi e delle strategie indicate.... Questo
significa, nel nostro caso, che la funzione utopica dell'anarchismo va letta
dentro il suo contesto teorico-pratico specifico.
Anche un attento studioso dell'utopia come il Manneheim non ha saputo
cogliere la specificità dell'utopia anarchica. Egli infatti vi vede solo
l'ultima, moderna espressione della utopia chiliastica o millenaristica.
Ora, è vero che, parafrasando quanto il Manneheim stesso scrive del
bolscevismo, molti dei fattori costitutivi dell'atteggiamento chiliastico si
trasformarono e si trasferirono nell'anarchismo (specie in certo anarchismo
popolare, latino e slavo), in cui assunsero la funzione di accelerare e
catalizzare l'azione rivoluzionaria, ma è anche vero che prima, dopo, a lato
e perfino dentro quelle espressioni "chiliastiche" dell'anarchismo
ritroviamo altre espressioni che presentano al contrario forti affinità con
altre due forme mannheimiane: l'utopia "liberale-umanitaria" (o
illuministica) e l'utopia "socialista-comunista".
In realtà l'utopia anarchica non è riconducibile ad alcuna delle altre
forme, se la funziono utopica viene letta in tutti i suoi aspetti
costitutivi ed in relazione ai tratti essenziali dell'anarchismo.
Essa possiede una specificità straordinaria, non riconoscendo la quale è
possibile darne solo un'interpretazione riduttiva e - in buona o mala fede -
caricaturale, facendone, di volta in volta o tutt'insieme, una variante
tardo-millenaristica, tardo-illuministica o proto-socialista.
11. Il fondamento assiologico dell'anarchismo, cioè il valore "primo" da
cui derivano e cui fanno riferimento costante la teoria e la pratica
anarchica è la libertà. Non volendo qui occuparci della libertà come
categoria filosofica ma come categoria sociologica, la definiamo, in prima
approssimazione, come assenza di potere. Ne diamo una definizione in
negativo perché, in questo contesto, ci pare più utile di una definizione in
positivo (del tipo "massimo sviluppo delle potenzialità personali", ecc.).
D'altro canto, come indica anche l'etimologia della parola anarchia, gli
anarchici sono convinti che l'assenza di potere sia per l'appunto la
condizione sociale che consente il massimo sviluppo eccetera.
"Assenza di potere" è tuttavia ancora una definizione insufficiente, se non
si definisce a sua volta il potere. Con un'altra semplificazione un po'
approssimativa, definiamo qui il potere come la facoltà - attribuita a
determinati ruoli sociali - di emanare norme ed applicare sanzioni; di
emettere ordini e farli eseguire. Cioè, come una serie di rapporti sociali
autoritativi permanentemente asimmetrici. Ci spieghiamo. Se, con un uso un
po' eretico rispetto alla semantica anarchica tradizionale, intendiamo per
autorità la natura asimmetrica di un rapporto sociale in termini di facoltà
decisionale, dobbiamo riconoscere che l'autorità è presente in forme più o
meno accentrate ed esplicite in ogni società, reale o immaginaria. Essa
appare cioè come una funzione sociale ineliminabile, quanto meno come
funzione collettiva (l'assemblea, l'opinione pubblica, ecc.). In società
altamente differenziate, non basta immaginare un'autorità collettiva
indivisa, in esse è indiscutibilmente ampia la gamma di scelte che
oltrepassano la sfera individuale e che non possono essere effettuate
collettivamente da tutti gli interessati in senso rigoroso, cioè con
unanimità rigorosa e su un piano di rigorosa parità, sia per motivi di
funzionalità sia per motivi di competenza, ecc.. Singoli rapporti
possono così esplicarsi in forma asimmetrica, tra gli individui e tra essi e
la comunità. Ma questa asimmetria non è ancora potere se, nel loro
complesso, i rapporti sociali ricompongono una sostanziale equivalenza
d'autorità di tutti gli individui, se cioè si verifica quello che potremmo
chiamare un generale ed equo "scambio simbolico" d'autorità, per cui nessuno
è determinato nel suo comportamento più di quanto determini il comportamento
altrui e viceversa.
Quando invece l'asimmetria tra gli individui viene resa permanente e quando
l'asimmetria tra i singoli individui e la comunità viene sottratta
all'accettazione spontanea dei (e nei) suoi limiti inevitabili e la relativa
autorità diventa funzione separata dalla società e mediata ed imposta da
gruppi sociali particolari, quando cioè l'asimmetria viene
istituzionalizzata in strutture e codici di comportamento gerarchici, allora
nasce il potere.
Il potere deriva dall'autorità, ma non necessariamente, come la
diseguaglianza può nascere, ma non necessariamente dalla diversità.
Ripetiamo, a scanso d'equivoci, che il significato che abbiamo qui
attribuito ai termini autorità e potere, per esigenze analitiche, non
corrisponde all'uso corrente degli anarchici (che perlopiù avvolgono
entrambi i termini in un'unica ed indistinta valenza negativa) e neppure
all'uso corrente degli apologeti della gerarchia, che volutamente confondono
autorità e potere per giustificare il secondo con la prima (si vedano i
banali esempi dell'autorità del capitano di nave e del dentista, ma anche le
più sofisticate argomentazioni di Dahrendorf). Distinguendo a modo nostro i
due termini, possiamo dire che, per l'anarchismo, la libertà tanto più
permane o si sviluppa, quanto più si impedisce che l'autorità diventi potere
e la diversità diventi disuguaglianza. Con una differenza sostanziale: che
l'autorità presenta per sua natura pericoli assai maggiori di trasformarsi
in potere, cioè di contraddire e ridurre la libertà, mentre la diversità è
perfettamente congeniale con la libertà. La prima va pertanto ridotta ai
"minimi" fisiologici, anche come funzione collettiva (2), mentre la seconda
va dispiegata in tutta la sua ricchezza sino ai "massimi fisiologici'".
Dunque la libertà sociale dell'anarchismo significa necessariamente
anche eguaglianza e diversità. O, se si preferisce, la
libertà anarchica, che è la più estrema e coerente interpretazione sinora
pensata e progettata, può anche essere letta come la più estrema e coerente
uguaglianza (perché è tale anche di fronte all'autorità, negandone la
trasformazione in potere, cioè in autorità diseguale) coniugata alla più
estrema e coerente diversità.
Infatti, lungi dall'essere contraddittori, i concetti di uguaglianza e
diversità sono complementari: è infatti la diseguaglianza, paradossalmente,
che porta all'uniformità, al livellamento, alla massificazione. "Anche oggi
si sente stancamente ma accanitamente ripetere - scrive Guiducci - che
proporre l'uguaglianza significherebbe "violentare" la natura umana, che
comporta le "differenze", quando è semplice comprendere che le differenze
diventano possibili, e senza conflitti per tutti, in situazioni di
uguaglianza, e tendono a schiacciarsi, invece, nei livellamenti oppressivi
delle classi e degli strati dove tutti sono intercambiabili". "La diversità
- come dicevo, scrivendo di autogestione - dev'essere non semplicemente
accettata, ma esaltata, ricercata, creata e ricreata continuamente. Perché
la diversità è un bisogno dell'uomo, perché la diversità è un valore in sé.
Diverso è bello".
Libertà uguaglianza e diversità al più alto grado possibile ed in necessaria
coerenza tra loro: questo è il nocciolo della specificità anarchica. E da
ciò deriva la specificità dell'utopia anarchica.
12. L'anarchismo è dunque la speranza e la volontà di una trasformazione
sociale talmente radicale, talmente in contraddizione con l'ordine esistente
da rendere possibile una fortissima tensione utopica. Ma quella
stessa fortissima tenuto utopica è anche necessaria per indirizzare
l'azione sociale verso un mutamento così eccezionale da implicare un vero e
proprio salto di qualità: maggiore è lo scarto fra l'esistente e ciò che lo
nega, maggiore deve essere la tensione per consentire al "futuro" di
riversarsi sul presente per trasformarlo, per consentire all'impossibile di
diventare possibile. Incidentalmente, questo forse spiega la presenza di
elementi "chiliastici" nei movimenti anarchici di massa.
Poiché il mutamento anarchico implica un salto di qualità culturale (una
"mutazione culturale", staremmo per dire), la funzione dell'utopia anarchica
è innanzitutto la funzione rivoluzionaria di far crescere la speranza e la
volontà di cambiare la società sino al punto non semplicemente di superare i
confini di un dato sistema di potere, ma di spezzare addirittura la tenace
membrana culturale che separa lo spazio simbolico del potere dallo spazio
simbolico della libertà. Una membrana fatta dal millenario depositarsi e
stratificarsi e tramandarsi di generazione in generazione, nelle strutture
caratteriali e nell'immaginario sociale, dei comportamenti
gregaristico-autoritari e dei valori gerarchici, dei fantasmi e dei miti
costruiti da e per società costituzionalmente divise in dominanti e
dominati.
In questa rottura culturale sta il vero senso della rivoluzione anarchica,
che non è la grande-soirée, non è l'apocalisse, ma una "mutazione" culturale
di intensità e portata inaudite, fatta di trasformazioni etiche strutturali,
comportamentali, di trasformazioni individuali e collettive. Poiché lo stato
è innanzitutto nella testa della gente, dei servi più ancora che dei
padroni, la funziono utopica è funzione rivoluzionaria in senso anarchico
innanzitutto se e in quanto riesce a dissolvere questo "stato incosciente",
come lo chiama Lourau, consentendo la liberazione di energie potenziali
enormi, aprendo le tanto temute (dai padroni, ma anche dai servi) "cateratte
dell'anarchia".
La tensione utopica dell'anarchismo non si esaurisce tuttavia nella funzione
rivoluzionaria che consente il salto culturale, perché essa non porta da un
sistema chiuso ad un altro sistema chiuso, come succede per le utopie che si
muovono nello spazio del potere. L'utopia anarchica è un'utopia permanente,
forse l'unica utopia che non possa diventare ideologia nel senso
mannheimiano, cioè giustificazione dell'esistente. Si può certo immaginare
un calo di tensione, dopo la rottura rivoluzionaria, ma la specificità
libertaria dell'utopia anarchica garantisce comunque la permanenza
di una irriducibile tensione al mutamento. Perché lo spazio in cui sposta la
società è lo spazio delle infinite possibilità da esplorare. La società
libertaria è la società aperta. L'utopia anarchica è un orizzonte
irraggiungibile: si può dire di essere arrivati in India, quando invece si è
arrivati in America e ci si può costruire sopra un'ideologia, ma nessuno può
dire d'avere raggiunto l'orizzonte. Nessuno potrà mai sostenere che le
infinite forme della libertà sono state esaurite.
13. L'utopia anarchica è dunque in realtà lo spazio di mille utopie, che
non solo si possono succedere l'una all'altra, come nell'immagine di Wilde,
ma anche coesistere in diverse società contemporanee o addirittura in seno
alla medesima società. L'utopia anarchica non ha nulla a che vedere con
quelle "costruzioni monolitiche ed omogenee, in cui manca il mutamento", che
paventa Dahrendorf. Questo può essere vero di singole costruzioni utopiche,
di singoli modelli utopici. Non abbiamo anzi difficoltà a riconoscere che la
grande maggioranza dei modelli utopici presentano questo carattere
di asfissiante conformismo e di morta stabilità (non a caso moltissime
utopie - quasi tutte - erano utopie autoritarie, modelli di potere). Lo
stesso non può dirsi della funzione utopica che è funzione
dinamica, come s'è visto, e proprio la sua scomparsa, semmai porterebbe ad
una "condizione statica" in cui l'uomo non è più che una cosa, implicando
"la fine stessa della volontà umana" (Mannheim) E ancor meno si concilia con
la specificità dell'utopia anarchica l'immagine che lo stesso Dahrendorf dà
della società egualitaria, confondendo disuguaglianza e diversità: "La
società totalmente ugualitaria è un'idea non soltanto non realista ma anche
terribile: in Utopia non regna la libertà (...) ma la perfezione del terrore
o della noia assoluta". Perché l'anarchismo presuppone una scelta della
libertà, che è la massima concepibile garanzia di quella libertà di
scelta di cui soltanto si occupano i liberal-democratici alla
Dahrendorf.
L'utopia anarchica è lo spazio delle mille utopie, e cioè lo spazio dei
mille modelli che esplorano le forme della libertà, con la duplice funzione
di agire sovversivamente sull'immaginario sociale (indicando le possibilità
dell'"impossibile", dimostrando credibile l'"incredibile") e di sperimentare
mentalmente progetti di società libertarie ed egualitarie. La costruzione di
modelli ed il loro raffronto sono operazioni logiche che, come dicevamo,
consentono di esplorare razionalmente il futuro che si vuole costruire,
proprio per poterlo costruire, riducendo l'ambito della sperimentazione in
vivo, dei tentativi e degli errori. Forse, per fare un esempio, molti degli
errori e delle fatali incertezze della rivoluzione spagnola avrebbero potuto
essere evitate se il movimento anarchico avesse avuto una visione meno
semplicistica della società liberata e dei meccanismi decisionali e
dell'enorme problematica della transizione.
Il rifiuto di parte degli anarchici per questa sperimentazione mentale, per
la discussione cioè dei problemi dell'organizzazione sociale egualitaria e
libertaria è irragionevole, sia che nasca dal timore di "fughe in avanti"
sia dalla considerazione che la costruzione della libertà è compito non
nostro ma delle masse, del protagonista collettivo della rivoluzione sociale
e che ora ci si debba occupare solo del momento distruttivo. Gli errori che
stanno dietro queste argomentazioni sono riconducibili ad un'incomprensione
della funzione utopica oppure ad una concezione strettamente deterministica
della storia o strettamente naturalistica dell'uomo oppure ancora ad una
visione mistica, apocalittica della rivoluzione. È un rifiuto che mortifica
la creatività sovversiva, che impoverisce il bagaglio intellettuale e la
stessa carica emotiva dell'anarchismo, che rischia infine di lasciare la
teoria e la prassi libertaria disarmate di fronte ai problemi immediati
della distruzione-costruzione e soprattutto di fronte alla formidabile forza
d'inerzia sociale con cui il potere si ricostruisce dopo ogni rottura
rivoluzionaria.
14. "Se il vecchio Padrone morisse - scrive Guiducci - il Servo
riuscirebbe finalmente a vincere, ma non saprebbe costruire una nuova
società. Infatti ha praticato sempre il rigetto, ma non ha mai elaborato un
progetto di una società alternativa capace di funzionare democraticamente in
ogni sua parte". Di una società senza stato, direbbe più esplicitamente un
anarchico.
Lo stato oggi più che mai riassume in sé il principio gerarchico. Se ieri
era solo l'organizzazione del potere politico, oggi lo stato - di fatto o
tendenzialmente - assorbe e giustifica (e ne è giustificato) una gran
varietà di funzioni sociali (economiche, pedagogiche, logistiche, culturali,
assistenziali). L'utopia dello stato - l'utopia tecno-burocratica - è la
strutturazione di tutta la società secondo le sue linee gerarchiche, è il
vero potere assoluto. È un'utopia che se si realizzasse significherebbe la
morte della società, ma paradossalmente anche il suicidio dello stato, che
può esistere solo come parassita della società.
Come il virus cancerogeno va a sostituirsi ai nuclei cellulari, cellula dopo
cellula, tessuto dopo tessuto, fino ad uccidere l'organismo, così lo stato
invade sempre più ampiamente e sempre più a fondo la società. L'utopia
anarchica è dunque l'anticorpo che la società deve produrre in quantità
crescente se vuole sopravvivere.
La società contro lo stato dell'utopia anarchica è la rivolta dei
gruppi sociali dominati (delle classi sfruttate, delle donne, delle
minoranze oppresse...) contro il principio della dominazione, contro la
logica del potere riassunta nello stato. Ma perché la società si possa
muovere contro lo stato, essa deve innanzitutto potersi immaginare - come
possibilità reale, non come sogno - senza poliziotto, prete, giudice,
padrone, burocrate, compagno-dirigente... deve cioè potersi concretamente
immaginare senza ruoli di potere, senza strutture gerarchiche. Deve pensare
- e per quanto possibile sperimentare - forme di autogestione e di
democrazia diretta, di decentramento e di federalismo. Deve pensare e
sperimentare rapporti non-gerarchici tra uomo e donna, tra adulti e bambini,
tra città e campagna, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.... Deve
pensare e sperimentare modelli utopici anarchici, appunto.
15. "Non abbiamo la minima intenzione - scriveva Bakunin - di imporre a
qualsiasi popolo un sistema sociale tratto dai libri o da noi elaborato. Il
popolo sarà felice e libero solo se potrà organizzarsi da se stesso". È,
questa, un'affermazione che nessun anarchico può non condividere. Ma ciò che
qui viene negato con forza non è la progettualità utopica in genere, è la
pretesa, irrimediabilmente anti-anarchica, di imporre dall'alto piani
globali al presente e al futuro, è l'orribile sogno tecnocratico di tanti
aspiranti ingegneri sociali di costringere la realtà nella camicia di forza
della loro razionalità, è la "felicità" preconfezionata per il
popolo da "principi illuminati" (o da dittature "rivoluzionarie"), la
"felicità" delle utopie autoritarie costruite sull'idea che di felicità
hanno i loro autori.
Le utopie anti-autoritarie al contrario, come osserva Maria Luisa Berneri,
"non cercavano di presentare un piano prefabbricato, bensì idee audaci ed
eterodosse, (...) esigevano che ogni uomo fosse 'unico' e non uno tra i
tanti", proponevano "un ideale di vita senza farne un piano - cioè una
macchina morta applicata alla materia vivente".
Tutt'altra cosa rispetto al piano utopistico-autoritario è la progettualità,
intesa come creatività e sperimentalità individuale e collettiva, una
progettualità che si sviluppa insieme alla lotta sociale, con il movimento
rivoluzionario, in un'interazione continua tra teoria e pratica e tra
scienza ed etica. Infatti precisa Malatesta: "L'essenziale non è il trionfo
dei nostri piani, dei nostri progetti, delle nostre utopie, le quali del
resto hanno bisogno di essere confermate dall'esperienza e possono con la
pratica esigere delle modifiche". È qui ancora più chiaro che si rifiuta -
coerentemente - la rigidità dogmatica dei modelli, non la loro esistenza e
la loro utilità.
Lui stesso, Malatesta, diede forma abbastanza esplicita ne L'anarchia
ad un suo modello di società libertaria e prima di lui il Kropotkin de
La conquista del pane e dopo di lui il Besnard de Il mondo nuovo.
Essi, ed altri anarchici, noti ed ignoti, hanno dato il loro contributo non
solo a distruggere le basi del sistema di dominazione e di sfruttamento ma
anche a gettare le basi di una società senza potere, delineando alcuni dei
mille volti dell'utopia anarchica, a volte per iscritto, più spesso con i
loro comportamenti, le loro scelte, la loro vita....
Essi, gli anarchici, hanno tenuto viva con le parole e con l'esempio - nella
quotidianità e nelle lotte, nell'entusiasmo dei periodi rivoluzionari o
nella stanchezza del riflusso, nelle fabbriche di Barcellona o nei gulag
staliniani, con cento contraddizioni ma con una indistruttibili coerenza di
fondo - l'immagine di una possibile-impossibile comunità di uomini liberi ed
uguali. Possibile perché è tutta dentro la "natura" umana, impossibile
perché tutta fuori dalla cultura dominante. Possibile perché l'uomo può
pensarsi e volersi libero tra liberi, impossibile se il servo continua a
pensarsi servo o a sognarsi padrone.
Essi hanno dato contenuti di maggiore concretezza e consapevolezza ad
un'immagine che, come sogno o come progetto, latente per lo più e a tratti
emergente, attraversa tutta la storia del dominio, nelle rivolte individuali
e collettive. Essi - e quei movimenti sociali che in varia misura, sia
spontaneamente sia per loro influenza, hanno cercato di realizzare quella
stessa immagine libertaria ed egualitaria - hanno dimostrato che l'utopia
anarchica, lungi dal generare "sovversivi immaginari", produce e nutre un
immaginario sovversivo.
1) "Il Nuer è il prodotto di un'educazione dura ed egualitaria (...); nessuno riconosce un superiore sopra di sé. (...) Nella loro società non ci sono né padroni né servi, ma solo uguali. (...) Nei rapporti vicendevoli il solo sospetto di ricevere un ordine è causa di irritazione, e chi lo riceve non lo compie, oppure lo fa in maniera casuale e dilatoria più insultante di un rifiuto. (...) Nelle relazioni quotidiane (...) mostra rispetto per gli anziani (...) purché non interferiscano nella sua indipendenza, ma non si sottometterà mai ad alcuna autorità che contrasti con i suoi interessi, né si considera obbligato ad obbedire a chicchessia". (E.E. Evans-Pritchard, I nuer, un'anarchia ordinata, Angeli, Milano 1975).
2) Gli anarchici hanno ben presente il pericolo che l'autorità collettiva si trasformi in quella "tirannia della società" di cui parla John Stuart Mill, cioè la "tendenza ad imporre con mezzi diversi dalle pene legali le proprie idee come regole di comportamento a coloro che sono di diversa opinione, a turbare ed eventualmente impedire lo sviluppo e la formazione di qualsiasi individualità che non si armonizza con i propri modi ed a costringere tutti i caratteri a conformarsi secondo il modello del proprio stesso carattere". (J.S. Mill, Saggio sulla libertà).
Gli autori ed i testi da cui ho tratto citazioni e materiale di
riflessione per questa relazione sono:
A. Argenton, Utopia e condotta umana, in: AA. VV., La ricerca
pedagogica tra scienza ed utopia, La Nuova Italia, Firenze, 1979.
M. Baldini, Il pensiero utopico, Città Nuova, Roma, 1974.
M.L. Berneri, Viajes a través de utopia, Proyeccion, Buenos Aires,
1962.
M. Buber, Sentieri in utopia, Comunità, Milano, 1967.
M. Bookchin, Utopianism and Futurism, in Toward an Ecological
Society, Black Rose Books, Montreal, 1980.
E. Callenbach, Ecotopia, Mazzotta, Milano, 1979.
G. Campanini, La società industriale tra ideologia e utopia,
Angeli, Milano, 1978.
B. Cattarinussi, Utopia e società, Angeli, Milano, 1976.
P. Clastres, La società contro lo stato, Feltrinelli, Milano, 1977.
R. Dahrendorf, Uscire dall'utopia, Il Mulino, Bologna, 1971.
R. Dumont, L'utopie ou la mort, Seuil, Parigi, 1979.
P. Giordani, Il futuro dell'utopia, Calderini, Bologna, 1973.
R. Guiducci, La società impazzita, Rizzoli, Milano, 1980.
A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Mondadori,
Milano, 1971.
H.F. Infield, Dall'utopia alle riforme, Comunità, Milano, 1956.
U. Leguin, I reietti dell'altro pianeta, Nord, Milano, 1976.
R. Lourau, Lo stato incosciente, Antistato, Milano, 1980.
K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1978.
H. Marcuse, La fine dell'utopia, Laterza, Bari, 1968.
A. Montagu, Learning Non-Aggression, Oxford University Press,
Oxford, 1981.
W. Morris, Notizie da nessun luogo, Guida, Napoli, 1978
L. Mumford, La storia dell'utopia, Calderini, Bologna, 1969.
G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1967.
K. Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano, 1975.
O. Ruhle, Il coraggio dell'utopia, Guaraldi, Firenze, 1972.
G. Statera, Storia di un'utopia, Rizzoli, Milano, 1973.
B.F. Skinner, Walden due, La Nuova Italia, Firenze, 1975.
A. Zemjatin, Noi, Feltrinelli, Milano, 1963.
In particolare, per chi volesse cominciare ad approfondire il tema
dell'utopia, suggerisco la lettura del Baldini, del Buber, del Cattarinussi,
del Dahrendorf e del Mannheim.