L'utopia aperta
di Franco Melandri
Negli ultimi tempi l'utopia è stata da più parti
analizzata, sezionata, rivoltata e qualcuno non ha esitato anche a
dichiararne la morte definitiva. Nonostante tutto questo, nonostante i
richiami di molti al "realismo" (che sovente, a ben guardare, maschera il
comodo appiattimento sullo stato di cose presente) l'utopia non è morta. Se
l'utopia può apparire morta a molti intellettuali "di grido" (che
frequentemente seguono solo il girar del vento) lo stesso non può dirsi
avvenga per tutti coloro che si rifiutano di essere dei silenziosi
ingranaggi del mostruoso meccanismo sociale che piano piano sta fagocitando
ogni anelito di vita viva. Costoro nutrono, più o meno coscientemente, la
speranza, il sogno, di una vita diversa ed il loro vivere quotidiano
continua a nutrirsi di utopia a tal punto che se tale nutrimento venisse a
mancare, la loro stessa vita perderebbe valore.
Ma che cos'è, cosa caratterizza, cosa implica l'utopia? Prescindendo dagli
studi fatti sull'utopia da studiosi e ricercatori di ogni tipo ed estrazione
ideologica ed al di là sia del diverso segno (autoritario o libertario) che
delle diverse forme letterarie attraverso cui sono state presentate, tutte
le utopie positive (che cioè prefigurano un mondo ritenuto migliore di
quello vigente) si caratterizzano a mio parere per alcuni fondamentali
elementi comuni. Il primo di questi è dato dalla volontà rivoluzionaria,
poiché e dalla volontà di mutare un mondo sentito come estraneo e
"sbagliato" che chi immagina, o fa propria, un'utopia parte per avventurarsi
nella descrizione di un mondo pacificato e felice, basato principalmente
sulla fratellanza umana. Ciò facendo (ed è questo un altro elemento
unificante delle varie utopie) il rivoluzionario "utopista" salta,
ascrivendo ad essa ogni "male", qualsiasi mediazione con la realtà in cui si
trova ad agire. Tutti i problemi sociali vengono attribuiti alla volontà
dominatrice delle classi e degli individui al potere, mentre tutti i
"difetti" umani sono presentati come obbligatoria conseguenza dell'ingiusto
assetto sociale in cui gli individui sono costretti a vivere. Alla fine di
questo nichilistico percorso, distrutto ogni limite oggettivo e soggettivo
contro cui la sua volontà realizzatrice va a scontrarsi, l'utopista edifica
la sua società "di nessun luogo"; una società che (al di là dei
diversi, e spesso contrastanti, meccanismi sociali immaginati) è abitata da
individui nuovi, in cui ogni grettezza, ogni egoismo ed ogni violenza sono
spariti, sostituiti dall'amore universale, dall'abnegazione e da una
incrollabile volontà di proseguire nella edificazione della nuova "città del
sole".
Da tutto questo (ed escludendo le rare, ma spesso profetiche, "utopie
negative" quali 1984 di Orwell od Il mondo nuovo di Huxley)
emerge chiaramente come tutte le utopie fino ad oggi immaginate si
presentino (altro elemento comune) come prefigurazioni ottimistiche di un
possibile divenire umano. Ottimistiche perché, proprio per il già accennato
salto di ogni mediazione col mondo reale, la volontà costruttrice e la
fantasia dell'utopista hanno avuto buon gioco nell'immaginare un mondo
armonico, privo delle brutture del presente. Ma l'ottimismo di molte utopie
è (al di là delle encomiabili intenzioni di chi le ha ideate) solo apparente
perché a ben guardare in quasi tutte le "icarie" del futuro spira il vento
del totalitarismo. Un totalitarismo che emerge innanzitutto quando, come
spessissimo accade, l'utopista assolutilizza i valori e la visione dell'uomo
a lui congeniali strutturando, ferreamente ed immutabilmente, il mondo
futuro solo su quelli. Ma, così facendo, egli di fatto nega (spesso
aprioristicamente) ogni valore tanto a visioni dell'uomo diverse dalla sua
quanto a valori non coincidenti coi suoi col risultato di considerare, in
pratica, chi si discosti da questi come un "deviante innaturale" giungendo
così a visualizzare una società "finale", "trasparente"; una società
considerata non più modificabile tanto nei meccanismi principali quanto nei
principi ispiratori. Il mondo ideato da molti utopisti è infatti un mondo in
cui l'individuo e la società formano un'unica entità, granitica ed
inscindibile, all'interno della quale l'individuo non si riconosce per le
sue caratteristiche individuali (uniche ed irripetibili) ma per quel tanto
che "gli altri" sono da lui rispecchiati. Ma questo è anche il sogno di ogni
pianificatore, di chiunque desideri dominare totalmente la società: avere
tanti individui uguali fra di loro, perciò prevedibili, perciò facilmente
irreggimentabili. Uno degli esempi a mio giudizio più illuminanti di quanto
sopra detto è offerto dalla Russia. All'indomani della rivoluzione molti
bolscevichi credettero fosse giunto il momento di costruire (non mettendone
in discussione i valori basilari e le implicazioni pratiche) l'utopia che
veniva loro indicata dal marxismo e dal comitato centrale, per i quali
occorreva arrivare all'uomo "nuovo", "socializzato". Un uomo che si
caratterizzava non per le sue particolarità, i suoi desideri, le sue idee ma
per quel tanto che egli rispecchiava del "socialismo". La storia ci mostra
più chiaramente come l'applicazione ferrea di queste direttive abbia fatto
sì che la società russa venisse per molto tempo identificata come la
migliore possibile, e la sola realmente socialista, con la conseguenza che
chi muoveva delle critiche o delle obiezioni veniva considerato o un
"capitalista" o, peggio ancora, un folle. Ed è quanto ancora succede nei
confronti dei dissidenti che vengono, spesso fra la quasi generale
indifferenza, internati nei manicomi. Unico posto questo in cui può stare
chi dubita della bontà del novello paradiso terrestre. Ma anche tentativi di
realizzare un'utopia libertaria, quale quello della "Colonia Cecilia", non
ebbero esiti molto incoraggianti. Convinti in partenza che gli uomini
fossero per natura "comunisti" i pionieri della Cecilia si scontrarono ben
presto con le difficoltà, i dissidi, le differenze individuali che sono
parte integrante di qualsiasi vita collettiva. Incapaci di capire come solo
dall'accettazione e dall'esaltazione di queste fosse possibile costruire una
comunità il più possibile libera gli abitatori della "Cecilia" si
incaponirono nel voler realizzare la loro idea iniziale di comunismo ed in
mancanza di un potere che li obbligasse a farlo finirono, fra odi ed
incomprensioni, per distruggere la comunità stessa.
Se quello di prefigurare una società pianificata e "trasparente" è uno dei
più grossi pericoli dell'utopia non è tuttavia l'unico. Un altro pericolo
insito nella visione utopica è quello della traduzione in pratica di quel
"salto delle mediazioni" che, come si è visto, è indispensabile affinché
possa delinearsi la "città futura". Ed è questo anche il passaggio che più
profondamente ha lasciato il segno nei movimenti rivoluzionari contribuendo
notevolmente a creare quel mito dell'insurrezione che ancor oggi viene
riproposto da più parti, tanto da rivoluzionari di matrice libertaria quanto
da alcuni marxisti (nonostante il loro autodefinirsi, fin da Marx,
antiutopisti per eccellenza). Questi rivoluzionari hanno dato
un'interpretazione nichilistica (ed in fondo anche religiosa, millenaristica)
del rifiuto della mediazione; rifiuto necessario all'utopia ma anche
caratteristica primaria ed indispensabile di ogni movimento realmente
rivoluzionario. L'insurrezione come viene proposta da molti rivoluzionario
odierni si caratterizza (oltreché per una visione dell'aspetto militare
riconducibile ad una non troppo chiara "lotta di popolo armata") soprattutto
per il valore dato all'insurrezione stessa; vista e voluta più che
altro come momento di totale dissoluzione dell'esistente. Una dissoluzione
che porterebbe necessariamente con sé, come accennavo precedentemente, non
solo le vecchie strutture sociali ma soprattutto i vecchi modi di vita e di
"essere" degli individui. Riguardo a questa concezione insurrezionalista,
mutuata come si è visto da una certa interpretazione della utopia, alcune
considerazioni non guastano. Tralasciando la pur importante "questione
militare", i pericoli della mitizzazione dell'insurrezione derivano, a mio
giudizio, tanto dalla sua irrinunciabilità quanto dal valore catartico ad
essa attribuito quanto dalla assoluta imprevedibilità con cui essa viene
spessissimo presentata: identificandola come un momento che, pur se
postulato e propagandato nell'azione quotidiana, si caratterizza per essere
un'"esplosione" improvvisa della società.
Da tutto questo dipendono alcune conseguenze a mio parere negative. La prima
di queste è l'eccessiva, e spesso artificiosa, semplificazione delle
stratificazioni sociali e dei mutamenti che avvengono tanto nei meccanismi
del potere quanto fra gli oppressi. Ed è così che ancor oggi (e nonostante
le molte delusioni) molti compagni mitizzano una parte degli oppressi (a
seconda dei casi: il proletariato, le donne, i giovani emarginati, i
carcerati ecc.), vedendoli come naturali gestanti del "comunismo". Gestanti
che naturalmente e necessariamente romperanno con l'attuale assetto sociale
e con quanto di negativo vi è nel loro "essere" solo che ad essi si mostri
la strada del mutamento. Una strada, l'insurrezione, obbligata, che va
aperta e seguita ad ogni costo, non curandosi spesso di prepararla oltreché
nelle cose soprattutto nelle coscienze, ed anche se la gran parte della
popolazione non si interessa ad essa. Da qui alla creazione (ed all'autoesaltazione)
di elitari gruppi che fanno della lotta armata il loro scopo principale il
passo è breve; gruppi la cui giustificazione non viene da una situazione
propizia al mutamento ma dal pretendersi unici profeti di una verità
immanente. Le conseguenze pratiche di una tale visione credo siano ben
visibili a chiunque sia dotato di raziocinio ed una lampante dimostrazione
è, fra le altre, la pratica odierna di gruppi armati (quali le BR) che
agiscono unicamente perseguendo il loro utopico "stato proletario",
nonostante la quasi totalità dei proletari non solo non si interessi alla
loro lotta ma, anzi, vi sia decisamente contraria. (Un'avversione, comunque,
pilotata ad arte da "mass-media", "sinistra storica" e sindacati).
Oltre alla pratica che ne consegue anche il valore di improvvisa e totale
rottura con ogni aspetto del presente attribuito all'insurrezione (vista
come unica via per rifiutare la mediazione col presente in vista della
costruzione dell'utopia) è a mio parere irrealistico e pericoloso.
Irrealistico perché in nessuna situazione, in nessun momento storico, una
rivoluzione è avvenuta improvvisamente. A ben guardare le rivolte e le
insurrezioni, oltreché essere favorite dalle condizioni sociali, sono sempre
state preparate da un'azione capillare ed incessante volta principalmente
alla crescita delle coscienze e non tanto dalla "propaganda col fatto"
attuata da un'élite militarista e fuori dal mondo. Un'azione di crescita che
si è espressa in mille modi (in qualche caso ed in situazioni molto
particolari non escludendo neanche l'atto eclatante di un individuo o di un
piccolo gruppo) finalizzata non tanto al momento insurrezionale in sé ma a
far maturare la volontà di un mutamento, nella speranza e nel tentativo di
sperimentare un mondo in cui non avesse più posto la dominazione. In questo
senso anche le passate insurrezioni non sono state tanto rotture
nichilistiche col mondo e soprattutto coi modi di vivere e di essere fino ad
allora imperanti, quanto momenti attraverso cui si è espressa la progressiva
presa di coscienza e la volontà di mutamento di individui che, essendosi
posti "contro la storia" (cioè contro il processo di sviluppo
dell'oppressione e della dominazione, fino ad ora fattori vincenti dei
mutamenti storici), hanno cercato di distruggere le strutture sociali che
impedivano loro di cercare e sperimentare modi diversi di vivere. A mio modo
di vedere quindi concepire il mutamento come rottura assoluta di ogni
precedente modo di vivere permette poi di attuare, in nome di una già
totalmente delineata utopia e dell'avvento dell'"uomo nuovo" ogni
nefandezza, mentre concepire e preparare la rivoluzione come un processo che
nasce, cresce e si realizza fin da ora permette di agire concretamente
contro la storia e la quotidianità dell'oppressione con gli individui di
ogni giorno, senza attendere alcun "momento magico" ma preparando
costantemente un mondo diverso. Un mondo che non fuoriesce già ben delineato
da un "buco nero" della storia o/e della natura umana ma le cui
caratteristiche si delineano con il procedere della sperimentazione
quotidiana.
Giunti a questo punto verrebbe da chiedersi se, in effetti, il desiderio di
prefigurare un mondo utopico non sia che la culla per nuovi totalitarismi e
se quanto dipende dall'"immaginario utopico" altro non sia che un'assurda ed
irrealizzabile speranza di redenzione, religiosa e misticheggiante. Ebbene,
io non credo sia così. Si diceva all'inizio come la speranza di un'utopia
sia per molti il necessario sale della vita e come questa speranza poggi
sulla volontà di un radicale mutamento. Una tensione al mutamento ed un
"sogno" che continuano a manifestarsi in tutti coloro (non molti purtroppo)
che non si sentono di accettare tranquillamente la progressiva e totale
irregimentazione nelle spire del potere e che dimostrano come non tutte le
speranze siano perdute. Se è così, diventa necessaria anche l'individuazione
di quali siano i binari su cui far andare un'utopia libertaria. Se è vero
che, interpretando la tensione e la visione utopica in modo schematico e
restrittivo, si giunge ai negativi risultati prima accennati è altrettanto
vero che, situandole nella viva e mutevole realtà sociale ed in un'ottica
laica ed antidogmatica, esse costituiscono il necessario humus per una
prospettiva ed una pratica libertarie. L'utopia è quindi necessaria. Le
passate esperienze ci mostrano che le sole condizioni sociali, anche le più
misere, possono favorire la nascita di movimenti sociali, possono dar vita a
rivolte e moti di piazza, ma se i movimenti sociali non giungono a
tratteggiare, a far proprio, un progetto verso cui indirizzare la loro
volontà di lotta sono quasi sempre destinati o a durare lo spazio di un
mattino (basti pensare al Movimento del '77) oppure a cadere nella politica
del giorno per giorno, nella teorizzazione delle riforme istituzionali e dei
"piccoli passi", nel tradeunionismo; mentre quando la rivolta immediata
contro una società oppressiva si salda col "sogno utopico" riprende
realmente il cammino sulla strada della liberazione umana.
Una liberazione che, in una visione libertaria dell'utopia, non può porsi
certo come una meta già delineata ferreamente, "finale", come un "al di là".
Una liberazione da intendersi invece come continuo processo, continua
costruzione/sperimentazione di un mondo libero, contro la storia e la
quotidianità della dominazione. Un'utopia quindi che comincia a nascere e a
realizzarsi allorquando si rifiuta decisamente ogni mediazione con qualsiasi
forma di potere (negazione assoluta di ogni utopia) tenendo
contemporaneamente presenti però i limiti oggettivi e soggettivi che la
realtà ci pone. Limiti che certamente dobbiamo tendere a superare ma non per
questo sottovalutabili. Dobbiamo essere coscienti che la libertà, base del
pensiero e del progetto anarchico, non ha a mio modo di vedere alcuna "base
naturale" che la renda necessaria ed ineluttabile. La libertà è un valore
cui può far riferimento quella che è, io credo, la molla principale
dell'agire umano: il desiderio egoistico di autorealizzazione. Gli esseri
umani non sono come le formiche (geneticamente predeterminate ad essere
parte di un'unità-base, il formicaio, senza la quale i singoli individui non
avrebbero vita) ma individui pensanti che, pur potendo avere vita autonoma,
trovano nella società e nella cultura (che solo dalla vita sociale può
nascere) il necessario completamento della loro umanità; un completamento
che non nasce meccanicamente ma che deve essere costantemente ricercato e
ridefinito. Dalla ricerca di una soluzione (compiutamente introvabile) a
questa non coincidenza fra individuo e società è nato il potere ma è nato
anche, contemporaneamente, il desiderio di libertà e di rivolta, a
sottolineare costantemente la ricerca di una socialità diversa da quella
imposta dal potere instauratosi.
In quest'ottica la nostra utopia (basata come si è detto sul metodo/fine
della libertà) non potrà che essere aperta e continuamente rivista
alla luce dell'esperienza. Un'utopia quindi che dovrà continuamente tendere
non tanto a prefigurare in ogni suo aspetto il nuovo mondo quanto a
delineare nuove, libertarie e possibili soluzioni per i problemi sociali e
per le esigenze individuali; senza però nulla demandare, illudendosi, ad un
eventuale dopo la rivoluzione tutto rose e fiori. Senza nulla demandarvi,
soprattutto perché, come già ho detto, non potrà esservi un "dopo" la
rivoluzione. Per chi rifiuta il mondo attuale e ricerca, attraverso la
libertà, una diversa maniera di vivere la rivoluzione potrà avere fasi "di
punta" e fasi "di stanca" ma sicuramente non potrà/dovrà mai avere fine.