STATO, BUROCRAZIA E PARLAMENTARISMO

di Camillo Berneri.

 

 

Stato e burocrazia.

 

Gli scandali che si sono seguiti negli ambienti ministeriali e militari, i milioni assorbiti vampirescamente dai ladri dalla croce di cavaliere, dalla commedia e dalla greca, gli errori burocratici che hanno mandato alla malora milioni e milioni in affari sbagliati o loschi, in ritardi nelle spedizioni di merci dovuti alla burocrazia mastodontica e pigra, tutto il complesso di ruberie e di errori dovuto al complicato e parassitario meccanismo su cui poggia l'accentramento statale non è un male di un dato regime, ma è il risultato dell'esistenza dello Stato, organismo accentrato che intralcia, comprime, corrompe tutta la vita nazionale. Lo Stato unitario e accentratore, sia esso borghese o bolscevico, è una cappa di piombo che soffoca la vita economica e politica di una nazione. Nella crisi creata dai fenomeni economici concomitanti alla guerra, la macchina statale ha rivelato tutta la sua impotenza. L'uniformità legislativa ed amministrativa è assurda in una nazione come è la nostra, ove esistono così marcate differenze economiche e psicologiche fra il Nord, il Centro, e il Mezzogiorno. Uno Stato socialista che volesse accentrare poteri e funzioni in una burocrazia bolscevicanon farebbe che favorire, come il governo attuale, le funzioni parassitarie a danno di tutte le funzioni produttive. I problemi della vita economica e sociale del popolo italiano hanno una fisionomia propria, diversa da regione a regione, da località a località, e richiedono ciascuno una sua specifica soluzione. Un governo socialista che volesse fare il fac-totum finirebbe nell'accentramento, cioè nella burocrazia più mastodontica e irresponsabile. Da questo punto di vista la critica antistatale anarchica coincide con quella democratico-federalista, differenziandosi però da essa in vari punti, che non è il caso, per ora, di esaminare.

Una delle necessità dei regimi accentrati è la burocrazia, la quale è tanto più parassitaria, oppressiva ed irresponsabile, quanto più il governo tende a concentrare nelle sue mani l'amministrazione dei vari rami della vita economica e giuridica della nazione. I ministeri rappresentano i nodi principali della burocrazia. Ad essi si rivolgono ogni giorno migliaia di persone che hanno provvedimenti da sollecitare, reclami da produrre, interessi da tutelare. Dalle risposte che vengono date dopo mesi e mesi, gli smarrimenti di documenti, per non parlare degli intrighi e delle corruzioni, è tutto un complesso di fatti che fa della burocrazia ministeriale, l'espressione più mostruosa dell'accentramento tecnico, giuridico e amministrativo.

Molti socialisti sono propensi alle autonomie comunali. Questo decentramento è fittizio, se non giunge che a fare dei Comuni dei piccoli ministeri. Vediamo che accadrebbe se, abbattuto il governo centrale, vale a dire il governo ministeriale, il potere amministrativo passasse ai Comuni, rimasti quelli che sono oggi, ma con attribuzioni maggiori.

Il commissario del popolo, preso possesso del Comune, pubblica un manifesto in cui invita i cittadini a rivolgersi a lui per comunicargli i propri reclami, frustati dalle amministrazioni borghesi, e, quando non continui con lui il metodo antico di ottenere intrigando, accadrà che questo commissario resterà affogato dai reclami, dalle domande, dalle petizioni, stordito dalle preghiere e dalle proteste, e non saprà più dove battere la testa. Il Comune socialista vorrà naturalmente occuparsi di tutto: viabilità, illuminazione, istruzione, igiene, ecc. ecc., e il commissario dovrà fare miracoli: avere cent'occhi come Argo, avere il dono dell'ubiquità come S.Antonio, avere cento mani come una statua di divinità indiana. Ammesso che esso, dato che il: Pulsate et aperictur vobis sarà obbligatorio in una amministrazione comunista, possa ascoltare tutti coloro che hanno da ottenere qualche cosa, come potrà sceverare il vero dal falso, il necessario dal superfluo?

Ammesso che invece di un commissario del popolo ci sia un Soviet comunale e che le funzioni siano divise, io dubito che nei grandi Comuni sia possibile sorvegliare la spettacolosa corrente di richieste, consigli, proteste affluente dalla popolazione all'amministrazione. Rimarrà dunque il bisogno, da parte dei depositari del potere centrale, di farsi aiutare da altre persone le quali non presteranno gratuitamente la loro opera: cioè dagli impiegati. Questi impiegati dovranno essere sorvegliati seriamente dai loro superiori perché non stiano in ufficio le loro otto ore regolamentari, fumando, chiacchierando, leggicchiando i giornali. Ci vorranno, quindi, i capi-ufficio. Coloro che avranno bisogno di servirsi dell'amministrazione dovranno, per spronare l'impiegato fannullone, servirsi di un amico dell'impiegato o di un suo superiore. Nei regimi accentrati l'intermediario diventa necessario. Di qui pressioni e favoritismi.

Non parliamo poi delle spese enormi che rappresenterebbe tale burocrazia. I bilanci delle amministrazioni accentrate presentano somme di milioni: come il Municipio di Napoli che, nel 1901, spese 23 milioni. Trattandosi di amministrazioni le spese burocratiche arrivano ai miliardi. Più in alto l'accentramento si fa parassitario e camorristico che in basso: i ministeri sono più parassitari e camorristici delle amminstrazioni provinciali, quelle provinciali più di quelle comunali.

Nessuna amministrazione accentrata può sottrarsi ai difetti che le sono propri, che dipendono dalla sua costituzione. Nell'Italia meridionale la corruzione, determinata dall'accentramento delle amministrazioni, si manifesta con sintomi molto più accentuati che nelle altre parti d'Italia. L'unità amministrativa d'Italia, come ha dimostrato Gaetano Salvemini, è stata pel Mezzogiorno un disastro economico inaudito.

Molti credono che l'accentramento sia un portato inevitabile dello sviluppo urbano e ne deducono che non sia possibile applicare la più decentrata autonomia che ai piccoli paesi. Questa deduzione, che parte da una constatazione di fatto, non è positiva. Il decentramento ha ragione di essere più in una metropoli che in un paese. E la metropoli non impedisce con la grandiosità della sua popolazione e della sua vita lo sviluppo di un'amministrazione federale. Ne è esempio Londra, che benché molto più grande di Napoli, non è colpita dalle malattie burocratico-camorristiche che affliggono la città partenopea, perché amministrata federativamente.

Supponiamo che una grande città sia amministrata federativamente. In questo caso non formerebbe un unico Comune, ma dieci, venti Comuni, a seconda le sue condizioni tipografiche e la configurazione degli interessi locali. In ciascuno di questi Comuni l'amministrazione non s'accentra in un unico consiglio, ma si scinde in parecchi consigli indipendenti, ciascuno dei quali ha una propria amministrazione ed è eletto dagli interessati, questi consigli hanno un dato compito da eseguire: istruzione, illuminazione, viabilità, igiene ecc. Se tutte queste funzioni sono accumulate in un solo consiglio, il cumulo di tanti affari richiederebbe l'opera quotidiana di amministratori che dovrebbero essere retribuiti, cioè di impiegati pagati dalla comunità. Il consiglio unico avendo tante responsabilità finirebbe per non averne nessuna e non potrebbe tener testa al disbrigo dei numerosi e vari affari se non composto di numerosi membri. Invece nel sistema federale ogni consiglio, avendo la parte sua di amministrazione, potrà essere formato di poche persone che, con qualche ora di occupazione al giorno, possono sbrigare le loro faccende; molti mpiegati vengono così ad essere eliminati e molte indennità abolite. Questi amministratori eletti hanno una responsabilità determinata, ben definita, e sono sotto il controllo immediato e continuo degli elettori che essendo interessati al buon funzionamento di quella data amministrazione terranno gli occhi aperti e interverranno per impedire ogni inconveniente.

Per ben amministrare occorre avere una competenza speciale: dall'approvvigionamento dei viveri alla spazzatura delle strade. Ognuno dei consigli particolari avrebbe il suo bilancio speciale. Nelle amministrazioni accentrate, le cifre non si possono controllare e a forza di piccole ruberie il bilancio generale si trova ad avere delle grosse falle per cui va in malora. Non c'è chi perde tempo a studiare il bilancio e chi può controllare se le spese sono tutte regolari. Lo dimostrano le amministrazioni militari  che inviano quintali di carte amministrative agli uffici ministeriali, dove non si scoprono certamente i mancati pagamenti, e le altre marachelle amministrative degli ufficiali e dei furieri. In una piccola amministrazione con un'occhiata ci si rende conto delle entrate e delle uscite e il diritto di controllo dei contribuenti o degli interessati non è ostacolato dai complicati passaggi burocratici.

Il sistema federale ha un valore sociale, educativo oltre che in valore economico.

Tutta questa partecipazione dei cittadini alla vita amministrativa della nazione contribuisce a sviluppare e migliorare le loro capacità civili. «Nel sistema federale - scrive Gaetano Salvemini - il cittadino si educa alla vita pubblica, è lui che amministra se stesso, si avvezza a contare solo sulla propria iniziativa e non su quella di un'autorità lontana; e nello stesso tempo che si sviluppa in lui il sentimento della propria individualità, si avvede che egli non è un atomo avulso da altri atomi e unito con un punto centrale, ma fa parte di un sistema molto più complesso nel quale egli è strettamente solidale col suo vicino, e poi cogli altri meno vicini, e poi cogli altri più lontani: il sentimento dell'autonomia individuale si feconderà quindi in lui col sentimento della solidarietà sociale».

Il concetto di autonomia, mentre prende una sempre maggiore importanza nel campo delle scienze giuridiche, tende a uscire dal campo chiuso del diritto per entrare nel campo più vasto e più fecondo dell'economia politica. Solo su questo campo l'autonomia può trovare il suo fondamento stabile, naturale è divenire una costruzione reale. Molti insigni studiosi e pensatori studiano il movimento corporativo contemporaneo se ne seguono lo sviluppo, nei suoi vari aspetti e nelle sue molteplici forme, e riconoscono che la suprema sovranità dello Stato va declinando, ed alcuni, che considerano la sovranità statale come una gloriosa conquista del costituzionalismo moderno, temono l'autonomia che ricondurrebbe, secondo loro, la società odierna al Medioevo. Questa tendenza della vita politica a ritornare all'autonomia dell'epoca dei Comuni non è un passo indietro bensì uno slancio in avanti; è un salutare ricorso che ha in sé la possibilità di restaurare le ragioni intime, le condizioni reali della sua esistenza.

L'autonomia è il substrato su cui poggerà l'edificio della politica; ne sarà la base naturale e solida. Una ricostruzione realistica della politica basata sul concetto autonomista mentre deve attingere in parecchi riscontri della nostra vita moderna, non deve mancare di trarre materiale dagli esempi del passato, del nostro passato nazionale. Il nostro Medioevo, nel periodo detto: dei Comuni, ci offre un modello di libera costituzione politica, benché non ne conosciamo ancora profondamente la sua intima struttura storica.

Storici e politici hanno svisata la verità storica, con le loro manipolazioni accademiche, sì che ancora oggi, per colpa della storia ad asum delphini il Medioevo è sinonimo di oscurantismo e di barbarie.

La storia moderna ha fatto uscire il Medioevo dall'oscurità e dall'oblìo sì che oggi risplende di nuova e viva luce in faccia alla vita e alla cultura moderna. La scienza storica ci ha dimostrato che l'autonomia fu la nota dominante, il principale elemento costitutivo della vita pubblica dei nostri comuni medioevali, e che essa fu un'idea-forza ed un fatto vissuto che lasciò un'eredità grandiosa nel campo del Diritto, della politica e dell'arte.

L'autonomia fu l'espressione e la condizione sufficiente dell'affermarsi e dello svolgersi della libertà e dell'associazione. Cause esteriori e deficenze congenite compressero, arrestarono, annullarono gli impulsi, gli slanci vitali che avevano resa la vita dei Comuni libera, forte e ricca, ma ciò non toglie che l'epoca dei Comuni rimanga a dimostrare gli influssi benefici dell'autonomia comunale.

L'idea dello Stato è più che mai viva nella mentalità scientifica e politica delle classi dominanti ed è la spina dorsale del comunismo legalitario e accentratore. Vi è però, ed è fortissima, una forza decentratrice, un elemento di autonomia nella natura del popolo italiano e nelle condizioni geografico-economiche della nostra penisola. I teorici dell'autonomia hanno fatto molta accademia ed hanno visto in essa più un concetto giuridico che un concetto politico e sociale, come è invece in realtà e come si mostra a chi lo consideri da un punto di vista più ampio e comprensivo di quello dei giurist, degli economisti e dei politici di gabinetto e da accademia.

Il concetto nostro di autonomia è più ampio e più libertario di quello che hanno coloro pei quali l'autonomia rappresenta la restaurazione dell'indipendenza regionale, ma è certo che l'autonomia amministrativa e legislativa delle singole regioni è atta a favorire quella dei singoli comuni, dei singoli consigli e sindacali, sì che si giunga ad una forma piramidale di Confederazione la cui base poggi sulla volontà associativa e la reciprocanza d'interessi dei cittadini ed il cui vertice sia rappresentata da un organo centrale di consultazione o di esecuzione, ma non di comando vero e proprio. La vera libertà si esplica ed è tutelata solo nell'autonomia, nelle sue varie forme federative. All'individualismo classico, ormai sorpassato dallo spirito societarista del secolo, occorre sostituire l'individualismo, o per meglio dire il liberismo dei gruppi, delle corporazioni, dei consigli, dei Comuni. L'attuazione pratica del concetto di autonomia attende le sue prove ed avrà le sue realizzazioni. Per ora combattiamo lo spirito accentratore del socialismo statale e seguiamo le correnti autonomiste che vanno determinandosi nella vita politica ed economica odierna con attenzione e spirito critico.

Un giurista francese, il Boncourl, afferma che «la società contemporanea è incamminata verso un decentramento completo, un federalismo integrale, corporativo ed amministrativo insieme», ed altri insigni cultori di scienze giuridiche, economiche, politiche, valorizzano il programma decentratore e federalista del comunismo libertario, programma che potrà trovare un innesto fecondo nel pensiero federalista repubblicano del Cattaneo e del Ferrari e potrà trovare elementi di vita nel tesoro di esperienze autonomiste e federaliste che ci offre la storia dei Comuni medioevali.

 

 

Il potere ministeriale e la maggioranza parlamentare.

 

Ettore Janni sta pubblicando nella Lettura certe sue saporose «Memorie di deputato» che sono una vera e propria vivisezione del parlamentarismo. Fra l'altro, dopo una brillante descrizione di un tipo classico di arrivista in fregola di un posticino ministeriale lo Janni ci regala questo squarcio di impressioni parlamentari: «Avrei voluto affrontare l'on. Giolitti e dirgli: - Eccellenza, non importa ch'io dissenta dai vostri ammiratori e dalle parentele dei vostri servitori, che sbuffano acqua di boria a guisa di grossi cetacei. Ditemi soltanto, da uomo a uomo, una cosa: lo sentite lo schifo di questa carne di maggioranza, il fastidio di questa gente che non sa né cercar la sua via né aggrapparsi dietro i carri senza goffaggine e vuole ad ogni costo che voi vi comportiate con essa come se esercitaste la tratta delle bianche? Quando questa gente v'è intorno, mi par di udire non so che ticchettio di ciondoli d'oro falso o fruscio di tuniche brevi (ecco gli afflosciati divani rossi, Eccellenza) e mi par d'aspettare che un commissario di pubblica sicurezza vi si accosti e vi domandi se avete in regola il permesso della questura. Ditemi che il tanfo di questa pescheria canicolare, quando per terra rimangono le interiora dei pesci sotto nugoli di mosche, vi mozza qualche volta il respiro e io mi asterrò dal credere la vostra arte di governo consista nell'estrazione dell'alcool metilico dai rifiuti organici -».

Da questa pittura, presa dal vero, appare evidente che la maggioranza parlamentare non è che un fenomeno di polarizzazione di vanità, di interessi, di rancori.

Il grosso dell'opinione pubblica non si rende conto della vera natura della maggioranza parlamentare, tanto è vero che pensa le crisi ministeriali come opposizioni del parlamento ai ministeri e non, come sono in realtà, affermazioni di nuovi ministeri in gestazione che hanno trovato il gruppo di aderenze necessarie ad un assalto ai banchi del governo. Senza tener conto poi della false crisi: dei casi cioè in cui lo stesso ministero che è al potere trova comodo passare il timone ad un nuovo ministero, destinato a raccogliere i cocci e le spine, e a liberarsene a sua volta, perpetuando la politica dello «scarica barile». In qualsiasi caso la maggioranza parlamentare è il gruppo d'invitati al banchetto di Trimalcione. L'ambiente parlamentare italiano odierno è simile a quello inglese dei tempi di Walpole, quale ce lo fece conoscere Carlo Fox nel 1780: «In tutto il Regno, il Governo non ha un uomo che l'appoggi per convinzione. Quando i membri del Parlamento attraversano la sala per andare ai loro posti, se domandate ad ognuno che pensa delle proposte, dei ministri della loro onoratezza e saggezza, vi risponderà immancabilmente che egli li disprezza ed aborrisce. Ma ciò non impedisce che questo membro appena arrivato al suo stallo non si affretti a votare nel senso del Ministero, su ogni quistione a cui questo mostrerà interessarsi».

Oltre alle adesioni ottenute con gli intrighi del corridoio i ministeri possono far conto sui deputati eletti con l'appoggio ministeriale. Giolitti, ad esempio, specialista nel far le elezioni governative, s'è sempre assicurata la maggioranza parlamentare attraverso le candidature... giolittiane. E bisogna considerare che l'influenza governativa sulle elezioni politiche è enorme.

Moltissimi deputati sono tali esclusivamente per l'appoggio prefettizio. Il governo influenza gli impiegati pubblici, minaccia di scioglimento i consigli comunali, li spaventa con la minaccia di inchieste, intralcia la loro opera amministrativa con una tutela giuridica esercitata in modo ostruzionistico. Specialmente nel Mezzogiorno d'Italia moltissime amministrazioni comunali debbono subire ed aiutare le candidature ministeriali. Non a torto dunque, in Dannou definì i governi parlamentari quelli in cui «i ministeri fanno e disfanno i deputati».

Questa grande influenza dei ministeri sul parlamento è degna di considerazione dato che il potere legislativo è divenuto una prerogativa ministeriale. La funzione legislative dei deputati è oggi, una delle tante menzogne politiche.

Ecco quello che scriveva, a questo proposito, l'Abisso in un suo articolo, nella Rivista Popolare di Napoli, sopra gli «Equivoci del Parlamentarismo»: «Sino a poco tempo fa gli unici disegni di legge d'iniziativa parlamentare che riuscivano ad aver vita, erano quelli relativi a qualche tombola, a qualche pensione ed a simili bazzecole, ma ora anche questa larva legislativa incontra ostacoli non lievi. I disegni di legge importanti vengono, adunque, presentati dal ministero. Però, si apporrebbe male chi ritenesse che autori di questi disegni siano proprio i ministri che li sottoscrivono e che sono emanazione del parlamento. Ciò può anche essere vero, ma non è necessario che lo sia, dal momento che molti progetti non sono che manipolazioni burocratiche, ovvero opera di commissioni di persone competenti appositamente designate. Vero è che questi progetti non diventano leggi se non sono votati dalle due camere e sanzionati dal re, ma è vero pure che sovente il contributo delle camere è formale o si riduce ad una non sempre feconda opera di emandamento. E ciò, a prescindere dai casi, purtroppo frequenti, in cui certi progetti di legge di grandissimo rilievo sono approvati senza alcuna modificazione, in seguito a discussioni affrettate ed a votazioni imposte dal governo alle fedeli e servili maggioranze».

Secondo lo Statuto, il potere legislativo s'impernierebbe nel parlamento, ad al potere esecutivo (ministeriale) spetterebbe l'emanazione dei regolamenti necessari all'applicazione delle leggi. Inceve il Ministero invade continuamente il campo dell'attività legislativa parlamentare, col regime dei decreti di legge. Si creano allora giurisdizioni eccezionali, che costituiscono un regime autocratico svestente di ogni tutela le libertà statuarie più elementari.

Questa preponderanza del potere ministeriale sulla vita parlamentare implicherebbe una superiore competenza da parte dei ministri rispetto ai parlamentari. Invece il criterio direttivo, se pure, si può chiamare così, nella formazione dei ministeri è prettamente politico, vale a dire risponde alla necessità di accontentare un certo numero di parlamentari, fra i più fedeli ed utili reggi-scala e di compensare la collaborazione, o placare l'opposizione, di qualche partito. Quali siano i risultati di questo tipo di formazione dei Ministeri ce lo dice l'Abisso, nell'articolo sopra citato: «Non v'è dubbio che uomini i quali sono a lungo vissuti nell'atmosfera parlamentare possano, essendo preposti a dicasteri strettamente politici, come gl'interni e gli esteri, far prevalere le proprie idee e lasciare una impronta della propria personalità.

Non accade, però, sempre lo stesso pei Ministeri di carattere tecnico, i quali esigono che il Ministro, che deve dirigerli abbia una preventiva preparazione, se non voglia contentarsi della modesta gloria di apparire come una specie di tappezzeria amministrativa. Non a sproposito adunque l'on. Nitti mi diceva che egli non consentirebbe mai di accettare la direzione di un dicastero, del quale non avesse una completa conoscenza, ripugnandogli di fare la figura di quei Ministri, che si limitano a prendere poche idee in subaffitto da qualche funzionario, che a sua volta le prende in affitto da altri. Pure questo doveroso sentimento di responsabilità è tutt'altro che frequente, poiché molti uomini politici amano il potere per il potere, come gli scrittori del rinascimento coltivavano l'arte per l'arte. Succede, quindi, che nelle composizioni dei Ministeri si tiene conto non della capacità maggiore o minore dei singoli ministri, ma delle loro aderenze parlamentari. E quando un deputato, che forse è un buon avvocato o un ottimo professore, va a capo di una Amministrazione che non conosce, prova una forma di stordimento, una specie di mal di mare, che gli fa perdere la visione netta delle cose e lo induce a mettersi sotto la tutela di qualche funzionario di fiducia. Tutto ciò non impedisce che i giornali annunzino frequentemente che il Ministro a ha dato una tale disposizione, che il Ministro b ha preparato un determinato progetto di legge, anche quando a e b non sappiano proprio nulla delle azioni buone o cattive, che vengono loro attribuite. Non sarà, dunque, esagerato l'osservare che quella teoria di diritto costituzionale, per me errata, secondo la quale il Re sarebbe una finzione, possa estendersi a parecchi suoi segretari di Stato, collocati nell'eminente posizione di finzione amministrativa. In quei Ministri, invero, che passano come ombre per pochi mesi o qualche anno attraverso un ramo di amministrazione e che nei rapporti della burocrazia, pratica dell'intricato meccanismo amministrativo, di cui è l'autrice, si trovano in condizione di una mosca avvolta nella ragnatela, altro non si riesce a ravvisare che una menzogna convenzionale della vita pubblica e, però, un indice sicuro di decadenza, sia pure transitoria, del parlamentarismo».

La necessità di avere con sé la maggioranza che hanno i ministeri, è l'elemento informatore della loro politica e il principale fattore della loro particolare costituzione.

Questo rapporto di subordinazione fra la Camera e il Ministero rappresenta il più grande equivoco del Parlamentarismo.

Cade completamente, per chi esamini le cose attraverso le definizioni ma nella loro realtà la distinzione formalistica tra sistema costituzionale e sistema parlamentare.

Secondo la distinzione convenzionale nel sistema costituzionale il Ministero è un'emanazione del capo dello Stato e può reggersi anche non secondato dalla maggioranza della Camera, mentre nel sistema parlamentare il Ministero si basa sul consenso della maggioranza parlamentare. Il dott. Alessandro D'Emilia, in un suo interessante studio sui rapporti del regime parlamentare e gli alti corpi dello Stato, scriveva a questo proposito: «La volontà della metà più uno dei legislatori o dei costituenti è infatti così assoluta ed illimitata come nel passato fu quella del re: la volontà della maggioranza è legge e nessuna garanzia ha ottenuto la minoranza per la tutela dei suoi diritti. L'illusione della libertà poteva giustificarsi se il diritto delle minoranze avesse ottenuto una qualche tutela, ma dacché questa è fatalmente mancata, non è lecito illudersi su questo punto. Il solo mutamento che si è avuto nel nuovo regime è quello relativo all'arte di conquistare la volontà che ha forza di legge per tutti: nelle monarchie assolute fioriva l'arte di conquistare il sovrano, nelle democrazie parlamentari fiorisce l'arte di conquistare le plebi votanti dalle quali deve uscire la maggioranza. Qualunque gruppo di persone può giungere a dominare quella maggioranza di voti che occorre perché la loro volontà diventi legge, può impunemente affondare le mani nella borsa altrui, purché sappia farlo con tatto tale da non suscitare timori nei membri della stessa maggioranza. Altrimenti il gioco fallisce per imprudenza del giocoliere. L'arte di comporre le maggioranze a qualunque costo e con qualunque mezzo è quindi l'arte naturale di governo nei regimi parlamentari maggioritari, e non è strano perciò che ad essa si siano limitate le abilità politiche preponderanti in questi regimi: in Francia quest'arte ha preso forma di corruzione morale con lo sfruttamento di speciali interessi di classe o di territori, in Italia ha preso forma di corruzione più personale e più materiale fino a quella della conquista, a qualunque costo, delle urne elettorali: ma in ambo i casi all'arte vera di governo del paese si è sostituita l'arte falsa di governo di alcuni interessi, ovvero, peggio ancora, di alcune persone soltanto, di quelle appunto che, in virtù dell'inesauribile dabbennagine umana, sanno conquistare il diritto di votare in Parlamento».

Il sistema parlamentare funziona esclusivamente a favore della classe politica dominante, che domina la vita giuridica ed amministrativa della nazione attraverso il principale organo di potere: il Ministero.

I nomi dei ministri, dal 1848 al 1860, sono significativi. Per anni ed anni il potere ministeriale è stato sempre nelle mani di esponenti degli interessi e delle ideologie delle classi ricche e dei partiti più conservatori, esponenti che appartennero sempre alle classi privilegiate, specialmente dal lato finanziario. Vi sono state delle eccezioni, casi di uomini che salirono al potere dopo aver conosciuto il carcere, come Nicotera, la miseria e le persecuzioni, come Crispi. Ma queste eccezioni non vengono per nulla ad infirmare le nostre affermazioni. A ragione A. Ghisleri, in un suo articolo, in «Critica politica», diceva: «Gli uomini arrivati dalle umili categorie del popolo alle sfere governative, non vi giunsero che dopo aver dato le più sicure garanzie d'una metamorfosi, per cui la "classe politica" dominante potesse pronunciare, come nella commedia di Molière, il "dignus est intrare". In apparenza, e per darla a bere al popolo, si celebrerà la competenza, e le benemerenze patriottiche, o la influenza parlamentare del nuovo Ministro, in realtà la classe dominante lo accoglie nel suo seno, in quanto s'è persuasa che, se anche le sia stato oppositore, non ne turberà il dominio, ma le gioverà anzi a consolidarlo».

Gli uomini che sono giunti al potere ministeriale in settanta e più anni della vita parlamentare italiana vengono a confermare questa verità, che Lord Chatam diceva ai tempi di Giorgio III d'Inghilterra: «Il Governo appartiene agli uomini più pieghevoli, non agli uomini più capaci!».

Il potere ministeriale è, dunque, il vero governatore dell'Italia, e il parlamento non è che il suo campo di dominio e la sua maschera statuaria.

 

 

Il sistema parlamentare e la sovranità popolare

 

E' un diffuso pregiudizio politico l'opinione che il sistema parlamentare, a base di suffragio universale, costituisca un regime democratico tale che la volontà della maggioranza della nazione possa liberamente ed interamente affermarsi agendo sugli ordinamenti politici e determinando le direttive del governo. L'importanza del sistema parlamentare è così esagerata che questo sistema è preso come criterio di distinzione fra la monarchia assoluta e quella costituzionale. E' questa una delle tante eredità dell'ideologia democratica della prima metà del secolo XIX. E' noto infatti che uno dei canoni politici della rivoluzione francese fu che la sovranità popolare potesse tradursi in pratica mediante il sistema parlamentare.

Questa fallace credenza arrestò e deviò molti movimenti popolari contro i governi assoluti. La costituzione di un governo parlamentare fu il piatto di lenticchie di molte rivoluzioni.

Malgrado tutte le delusioni che ha generato il sistema parlamentare, il mito del parlamento interprete ed organo esecutivo della volontà popolare, ha così profonde e salde radici che solo qualche movimento d'avanguardia è riuscito a liberarsene completamente. Attualmente non vi siamo che noi ed i repubblicani antiparlamentaristi a non prender parte, né come eleggibili né come elettori, alla vita parlamentare. Come mai il parlamentarismo occupa ancora così buona parte centrale della vita pubblica? Risponde il Ghisleri in un suo interessante articolo sulla questione, pubblicato dalla «Critica Politica».

«Le delusioni o le contraddizioni, che l'esperienza non mancò di far seguire a quella generale illusione, non rettificarono tale convinzione, divenuta un dogma o un presupposto assiomatico che non valeva la pena di discutere. Perché le delusioni furono attribuite a colpa o a deficienza degli uomini, non del sistema; e la passione dei vari partiti di opposizione, concentrata dell'interesse di accreditare questa opinione nel popolo, per colpire gli avversari e sostituirli al potere, coltivò sistematicamente nell'opinione pubblica l'eterna illusione, che i mali derivassero dagli uomini di governo, non già dal meccanismo governatico in se stesso. E siccome le istituzioni parlamentari permettevano la vicenda dei ministeri alimentando l'alterna fortuna e le ambizioni rivali dei capi partito tutte le opposizioni si mostrarono ugualmente devote di un sistema, che poteva portarle al potere. Non è da stupire, che alla medesima illusione abbia soggiaciuto il partito socialista quando dalla prima fase anarcoide della sua preparazione evangelica deliberò di passare a contarsi e a combattere sul terreno elettorale. Come succede agli ultimi venuti, l'ingenuità e la pervicacia o infatuazione dell'illusione doveva anzi durare più a lungo fra i socialisti e dura tuttora, mentre fra i partiti storici più anziani i difetti congeniti del sistema erano già stati acutamente, da autorevoli uomini politici e da stuidiosi, scoperti, denunciati e comprovati».

Tra gli autorevoli politici e studiosi che criticaro il sistema parlamentare è da annoverarsi il Mosca; professore di diritto costituzionale nella Università di Torino e senatore, noto come uno dei più valorosi teorici dell'assolutismo politico. Egli sostiene e dimostra con eccezionale competenza, che, il regime rappresentativo delle monarchie costituzionali, è ben lontano dall'essere l'espressione della volontà popolare. «In tutte le Società, - egli scrive - a cominciare da quelle più mediocramente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più numerose e più colte, esistono due classi di persone, quella dei governanti e l'altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi, che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno in modo arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla vitalità dell'organismo politico sono necessari».     

Il Mosca dimostra ampiamente che tale distinzione è applicabile anche negli Stati rappresentativi, nei due trattati: Sulla teoria dei Governi e sul Governo parlamentare ed Elementi di scienza politica. Le osservazioni del Mosca venivano riprese poi da Giuseppe Rensi nel suo libro: Gli «anciens régimes» e la democrazia diretta. Rimando il lettore a queste opere, per non cadere in una esposizione dottrinaria, che sarebbe inopportuna.

Per rendersi conto del fatto che la classe dominante può, attraverso gli ingranaggi del meccanismo costituzionale dello Stato, monopolizzare le funzioni governative, e conservare l'effettivo dominio sulla vita pubblica, è utile soffermarsi ad esaminare una istituzione che rientra nel sistema parlamentare: il Senato. Scrive, a questo proposito, il Ghisleri, nell'articolo sopra citato: «La classe politica era facile a discernere nei regimi assoluti, quando era composta essenzialmente dei nobili e del clero. Nei regimi puramente parlamentari è costituita in modo alquanto dissimile, secondo i paesi; e le sue distinzioni dal popolo appaiono meno marcate; però sempre concorrono a formarla la nascita e la ricchezza. Lo Statuto di Carlo Alberto sotto questo riguardo, è rimasto dei più vicini al precedente regime assoluto: vedansi le categorie fissate per la nomina regia del Senato! Inoltre le tradizioni di privilegio della nascita e della ricchezza prevalfono tuttora, dopo settanta anni, nella consuetudine delle nomine alla carriera diplomatica e consolare e nelle promozioni ai più alti gradi dell'esercito. Carriere le quali formano ancora oggi, se non due caste chiuse, però due sfere distinte dall'alta direzione dello Stato, aulidamente sottratte al controllo e alle ingerenze del Parlamento».

Anche il Parlamento è, in parte costituito di rappresentanti delle classi privileggiate sia dal punto di vista economico che dal punto di vista sociale. Anche il Parlamento costituisce l'espressione delle classi politiche dominanti. Pochi deputati vengono dal popolo; la maggioranza proviene dalle classi così dette dirigenti. E nascista, nota il Mosca: «Vuol dire ricchezza, vuol dire relazioni, vuol dire tono e abitudine al comando e ad occupare una posizione importante». Molti infatti sono i deputati di origine plutocratica, che hanno vinto le battaglie elettorali col mercimonio di voti, con la propaganda su larga scala, ecc. Specie nel Meridionale i deputati ricchi sono dei Don Rodrigo che fanno del loro collegio un feudo dominato da una larga rete di interessi e, quando vi sia della resistenza, dei randelli e dei mazzieri. Questi deputati per censo vanno al Parlamento per meglio tutelare i propri interessi, per avere un nuovo campo di affari o perché trovano nella vita politica uno sfogo alla loro vanità. Per molti onorevoli snobs il parlamento poi è un campo sportivo, una casa da gioco, o da thè. Vi sono anche i deputati di origine parlamentare che riescono, pur essendo riusciti in minoranza, ad ottenere la proclamazione con qualche artificio, e che poi vengono convalidati per compiacenza ministeriale.

A questi casi parlamentari si riferiva Toni Arcoleo quando disse che nelle elezioni il corpo elettorale opina, la Giunta delle elezioni designa, la Camera elegge. Rare sono quelle elezioni che sono dovute esclusivamente al prestigio personale del candidato: e questi pochi casi si riscontrano, pur con delle eccezioni, nella vita elettorale dei partiti di sinistra.

Che il Parlamento sia un campo di speculazione affaristico politiche lo dimostra il fatto che una gran parte di deputati viene dall'avvocatura. A questo proposito credo interessante far conoscere l'opinione di... un avvocato: Piero Calamandrei. Il suo libro Troppi avvocati (Ed. La Voce) contiene un interessante capitolo sugli avvocati in Parlamento, in cui è illustrata la ripercussione sulla vita politica dell'ecceso numerico degli avvocati. Ecco alcune cifre significative relative agli avvocati deputati attraverso alcune legislature nella XX erano 220, nella XXI erano 239, nella XXII 246, nella XXIII 255, nella XIV 250, nella XXV 201. Il Calamandrei commentando queste cifre scrive: «Di fronte a queste cifre così eloquenti, Candido direbbe che se la funzione del Parlamento è quella di legiferare, giusto è che vi siano largamente rappresentati i giuristi, che hanno specifica competenza tecnica per far le leggi nel miglior modo possibile; ma in realtà tutti sanno che le leggi, nella loro formulazione tecnica sono ormai, meno opera del Parlamento che della burocrazia; e del resto se si deve giudicare dalla tecnica legislativa, dovremmo direi che è inutile mandare in Parlamento tanti avvocati quando le leggi vengono fuori così tecnicamente imperfette, farraginose, imprecise, frammentarie».

Non a torto, dunque, l'opinione pubblica trova negli avvocati il simbolo e l'eponente dell'odierna degenerazione dell'istituto parlamentare.

Da quanto abbiamo detto fino a questo punto risulta chiaramente che le origini del Parlamento sono le classi ricche e le classi medie, e che, di conseguenza, l'istituto parlamentare è un organismo di classe.

Ma il Parlamento è ben lontano dall'essere l'espressione della volontà popolare, oltre che per la sua stessa costituzione, anche per il suo funzionamento.

I deputati non sono dei delegati del collegio. Il collegio serve per la conquista del seggio parlamentare, ma, ottenutolo, gli elettori non hanno più alcun diritto a fare del loro eletto un portavoce della loro volontà, e tanto meno un esecutore. Il deputato può votare delle leggi che sono contrarie agli interessi dei suoi elettori e può perfino votare per la guerra, vale a dire pesare sulla bilancia di una decisione che riguarda niente di meno che la vita di coloro da cui ha ottenuto il voto. Così in un paese a maggioranza neutralista, come era il nostro, abbiamo avuto una maggioranza parlamentare guerrafondaia.

Il concetto di onestà contrattuale tra il deputato e gli elettori manca completamente in Italia e costituisce anzi una delle più spiccate caratteristiche della vita pubblica italiana. A ragione Giovanni Zibordi, in un suo articolo nella Critica-Sociale scriveva: «La inferiorità della nostra vita politica sta invece in questo ed è rivelata da questo: che si può salire in rinomanza ed entrare alla Camera attraverso un partito e mediante un patto con gli elettori, e si può rimanervi e parlare e votare, quando si è abbandonato quel partito e si è rotto il patto con quegli elettori».

L'argomento meriterebbe una trattazione ben più ampia della presente, ma credo sufficienti questi cenni a dimostrare tutta la menzogna del parlamentarismo come forma di interpretazione ed esecuzione della volontà delle maggioranze. Più si esamina il Parlamentarismo nei suoi caratteri costitutivi e nelle sue principali manifestazioni e più appare colossale la mistificazione parlamentare, che faceva scrivere allo Spencer: «La grande superstizione della politica odierna è il diritto divino del parlamento. L'olio d'unzione sembra sia scivolato da una sola testa su quella di un gran numero, consacrando loro ed i loro decreti».

 

1920-21.