Da A Rivista Anarchica n. 111 – giugno 1983 (pagg. 15 – 18)

 

Quando la sinistra "incontra" il potere

 

Quando la storia cessa di essere santuario e diventa incubo dei nostri giorni, quando si ripete più volte in tragedia e si mostra incapace di indicare alle generazioni future gli errori da non compiere. Tale è il messaggio di Andrzej Wajda e del suo «Danton» uscito ieri nelle sale cinematografiche di Parigi. E subito è stato un pandemonio nella capitale: la stampa francese è affollata di dibattiti, gli storici si precipitano a mettere i punti sulle i... Così esordisce La Repubblica di qualche tempo fa, in un articolo steso dall'inviato alla «prima» dell'ultima opera del regista polacco.

Pare si sia veramente trattato di un «gran bordello». L'azione demitizzante della Rivoluzione Francese, messa in atto dall'autore de «L'uomo di marmo», ha colpito come un fulmine al ciel sereno tutta la «intellighentzia» transalpina. Quell'evento non deve essere messo in discussione: parte integrante dell'essenza stessa della Francia, è divenuto ormai, malgrado le immagini di sovversione che evoca, un innocuo orpello incorporato fra gli imperituri simboli del «palazzo».

La «sinistra» è chiamata direttamente in causa. La borghesia tradizionale non dimentica il grande tributo di potere che deve a quelle vicende, e neanche il fantasma dello stesso Re Luigi, decollato, potrà d'ora in poi riposare in pace. Persino il Monarca s'era capacitato di non essere, tutto sommato, morto invano, nell'ormai acquisita profonda consapevolezza di essere stato, a suo tempo, sacrificato sugli altari di una nuova, avveniristica e vincente, pratica del dominio. Concezione superiore, tramite la quale il machiavellismo e la «ragion di stato», appunto, hanno finalmente ottenuto la massima esaltazione e la più grassa vittoria, nell'esser riusciti a trasformare un potere assolutistico retrogrado e sulla via del tramonto, in una nuova forma di controllo incontrastabile, resa altrettanto assoluta dalla sua avvenuta trasformazione «democratica», comodo paravento per una necessaria ristrutturazione delle forze economiche finalizzate allo sfruttamento.

Questo, che pare un paradosso, è ampiamente dimostrato dalla «bagarre» parigina e dalle dichiarazioni indignate rese unanimemente dai portavoce della «gauche», del «contro», e della «destra», di fronte a tale dissacratorio «sopruso» culturale.

Gli stessi socialisti, questi furbacchioni che ci hanno ormai abituati ad operazioni eclettiche, anti-comuniste e «super-democraticistiche» (la «svolta» Proudhon insegna) e che hanno, dall'Eliseo, tramite l'apposito ministro, contribuito finanziariamente a detta realizzazione filmica, ad opera conclusa paiono scettici e divisi: forse che fra loro, anche oltralpe, vi sia qualcosa che «scricchiola»?

Quale vantaggio può sortire da un simile atto d'accusa contro il giacobinismo, che pur essendo la matrice originaria del totalitarismo bolscevico, inficia però tutta intera la struttura del marxismo, e soprattutto dà i natali alla prima forma repubblicana della storia recente nella «vecchia» Europa? E non dimentichiamo che Hegel stesso, il padre della moderna concezione statuale, s'inchinò dalla vicina terra dei Teutoni, oltre che all'esplosione di vitalità e d'intelligenza innovativa che trasudava da quel «superbo levar del sole», all'idea stessa dello stato espressione della «volontà generale», che acquistò nella sua visione filosofica la funzione di realizzatore della «volontà universale», cioè di divinità terrena.

E come stupirsi, d'altronde, della simultanea levata di scudi che accomuna «liberali» e destra retriva, socialisti e comunisti? Non fanno forse tutti capo a filosofie politiche profondamente statolatre? Non sono questi i naturali eredi di quella «Union Sacrée» sempre coagulatasi, particolarmente in Francia, in modo istintivo ma conseguente, per far fronte alle aspirazioni libertarie? Eccoli, ancora una volta istituzionalizzati, i discendenti dei macellai del 1870 che, contraddicendo alcuni fra i principi da loro stessi sbandierati, fecero nel momento opportuno fronte comune contro le istanze rivoluzionarie antiautoritarie, usando la forza bruta ed imponendo i loro sistemi avversi all'autogoverno, alle spinte di base, ai «pericoli dell'anarchia». Magari conculcando quegli stessi liberali «puri», quegli stessi democratici «convinti», che avrebbero voluto, nelle loro intenzioni «utopistiche», limitare al massimo i poteri dell'apparato sui cittadini, gli uni, e rendere la società meno etero-diretta, gli altri.

Wajda calca particolarmente la mano sul meccanismo dei processi politici, sul Terrore di Roberspierre che anticipa altri Terrori. Queste sono le sue parole: La Rivoluzione Francese ha inventato tutto, in particolare i processi politici e l'affare Danton nel rappresenta l'archetipo. Il fatto che la Francia abbia inventato la prima rivoluzione non la dispensa dall'obbligo di riflettere sulle sue conseguenze: è assai difficile parlare della storia francese facendo astrazione da quello che è successo più tardi, in altri paesi. Né possiamo ignorare che il modello di Lenin sino al 1918 era Danton. E che dopo il '18 diventa Roberspierre.

Viene così messo a nudo, scrupolosamente, quel «filo rosso» che, nel corso dei decenni, ha inquinato il campo proletario, trasmettendovi le pratiche della sopraffazione e della calunnia, elevate a sistema, contro gli oppositori. Quella linea di condotta che, scaturita da un'idea che equipara ogni forma di dissenso al tradimento, fece dire a Lenin: «La libertà è un concetto borghese», affermazione poi accuratamente smentita dai fatti storici, i quali hanno largamente mostrato la radice popolare di quest'aspirazione, ed invece l'essenza «borghese» di ogni forma recente di totalitarismo. Un modo di «far politica», volto essenzialmente alla conquista del potere, che s'è fatto cultura, prassi, religione, tramite l'egemonia marxista.

Del resto, ai suoi tempi, il «caposcuola» stesso di questa corrente, posto di fronte alla Comune di Parigi, non seppe far altro che lanciare invettive contro i protagonisti di quell'esperienza, «rei» d'aver rigettato il verticismo e di essersi fatti portatori di una diversa concezione, «troppo avveniristica». I comunardi portavano dentro di loro un «mondo nuovo»: quelle stesse esigenze di egualitarismo, democrazia diretta e partecipazione reale, che sarebbero esplose, più tardi, anche nella rivolta di Kronstadt, repressa nel sangue, correndo l'anno 1921, proprio nell'Unione «Sovietica»: esigenze che il «Manifesto del Partito Comunista» non contemplava.

Puntuali, gli epigoni di quel partito, a Parigi, per bocca di Michel Vovelle (il quale è stato, fra l'altro, incaricato dal governo del patrocinio della prossima celebrazione del bicentenario della Rivoluzione, previsto per il 1988/89) hanno chiarito, senza mezzi termini, la loro visione in un articolo pubblicato sul quotidiano comunista l'Humanité. Danton? «Un'emanazione degli ambienti nati dalla Rivoluzione, avidi di goderne e profittarne; un traditore pronto ad allearsi con i controrivoluzionari». Camille Desmoulins? «Un pavido pronto a vendersi».

Eccoli così ricalcare il famoso saggio del 1920 su «Bolscevismo e Giacobinismo», redatto da Mathiez Bruhat, il quale scriveva, durante i processi di Mosca, che Robespierre malauguratamente non ebbe il tempo di andare fino in fondo. Un altro esempio del cretinismo misantropico del PCF: d'altronde un'intera scuola teleologica, egemonizzata dai comunisti, è sotto accusa.

Ma anche quella che è stata chiamata «Nuova Sinistra» ci ha purtroppo abituato a questo genere di considerazioni. Come non farsi venire alla mente, almeno per un attimo, le ingombranti teorie «m-l» ed i relativi prodotti, che per più d'un decennio hanno ammorbato l'aria, nel «movimento», con richiami al baffuto georgiano, con il loro avanguardismo sclerotico, con pratiche discriminatorie? A partire dai «maoisti» vecchia maniera, passando per i dirigenti della «autonomia», fino a giungere alle cosiddette «formazioni combattenti», questi signori, nel reagire alla gretta, violenta ed infame intransigenza delle varie case-madri, rappresentate di paese in paese dai partiti comunisti «ufficiali», ci hanno assediato con una lunga sequela di assurdità di altro genere, oscillanti, di «fase» in «fase», da un velleitarismo opportunista e parlamentare a un avventurismo senza sbocchi, dal «fronte popolare» con le sinistre «tradizionali», al «tanto peggio, tanto meglio» d'infausta memoria, producendo, a loro volta, guasti profondi.

Non ci si può scordare delle azioni deliranti messe in atto senza tenere nel minimo conto i livelli obiettivi di crescita e comprensione delle masse sfruttate, le prevaricazioni operate a più riprese sulla volontà collettiva, la proposizione di strategie calate dall'alto, il militarismo di maniera, la grossolana retorica movimentista mascherante la realtà di occulti gruppi dirigenti «professionali» intenti a manovrare il ribellismo, le spinte di base e le lotte sui «bisogni» per i propri fini ideologici elaborati a «tavolino», ad emettere sentenze «in nome del popolo», oppure a giudicare secondo parametri squisitamente dottrinari la giustezza o meno delle richieste e delle tensioni espresse dai gruppi di fabbrica, di quartiere e da altri settori antagonisti.

Tutte «amenità» nate e vissute sotto il segno del dirigismo, mediato di volta in volta da esagerati discorsi operaisti secondo i dettami di una vetero-operaiolatria anacronistica e dall'arroganza della «autonomia del politico» con il suo congenito disprezzo per l'etica.

Non a caso, in Francia, anche quel che rimane dei neo-comunisti nati nel '68, si trova in grande imbarazzo di fronte all'opera di Wajda, che non si limita a colpire le forme acquisite dal potere nei paesi dell'orbita sovietica, ma che s'incentra sulla critica dell'intero sistema dottrinario a cominciare dalle sue radici.

Dal canto loro, i socialisti, pur sempre latori di un partito «forte» e , quel che più conta, che governa, si trincerano dietro pie illusioni: Il pubblico capirà che sotto accusa è il Terrore di Jaruzelski, non quello di Robespierre – così dice Planchou. Ma non si esimono però dal brontolare quanto sia spaventoso che non si sia accennato al contesto storico del Terrore, alla guerra che minacciava (André Bellon), rispolverando, per l'occasione, il solito giustificazionismo del quale gli stalinisti furono però i maestri.

Del resto, esempio sincero del «pragmatismo» socialista francese, lo si ebbe, tradizionalmente, nell'atteggiamento tenuto dal gabinetto Blum di fronte alla guerra di Spagna del 1936/39, che scelse di non avvantaggiare minimamente le istanze largamente libertarie che s'esprimevano in quella terra.

Ciò è significativo, poiché il massimo scontro fra un proletariato ancora grandemente intriso di concezioni realmente egualitarie anti-statali e la classe egemone, sul piano internazionale, nei quattro lustri che dal 1920 condussero al 1940. Quelli furono anni cruciali, in cui le tendenze antiverticistiche subirono un attacco ad oltranza portato loro simultaneamente dalla «vecchia» borghesia e dai settori ad essa alleati, ad Ovest, e dalla «nuova» borghesia ad Oriente.

I punti di forza di questa offensiva si manifestarono nel nazi-fascismo, in quei paesi dell'Occidente dove più s'era affermata la tradizione libertaria, nei quali l'anarcosindacalismo e forti raggruppamenti consigliaristi, rimasti in piedi nonostante il primo conflitto mondiale, s'erano imposti, dando vita a grandi movimento sociali che avevano realmente fatto vacillare l'ordinamento e le basi stesse del potere. E la cui azione sovvertitrice «minacciava», finalmente, di far trionfare, portandole alle più naturali conseguenze, tutte quelle aspirazioni di profonda emancipazione che avevano cominciato ad esprimersi a livello di massa proprio nella grande Rivoluzione Francese, esaltandone in pieno l'essenza.

Contemporaneamente, la reazione leninista, completata dalla decisiva tirannide di Stalin, operava laddove la rivoluzione proletaria aveva trionfato, svuotando di contenuti quegli organismo d'autogestione operaia e contadina che s'erano venuti a creare, repressi e «normalizzati». D'altronde anche nel resto d'Europa i partiti legati al Comintern svolsero sempre, nei confronti del movimento d'azione diretta, un'opera ostruzionistica, trasformandosi in molte occasioni in fellonia e tradimento.

Gli strascichi della sconfitta subita dal proletariato rivoluzionario in questo lungo periodo di guerra di classe sono noti, ed hanno lasciato segni ovunque anche nel resto del mondo, a cominciare al Sud America, dove più forte era la presenza antiautoritaria, ed ancora gravano sull'umanità il cui sviluppo subì certamente un arresto traumatico.

Ritornando alle diatribe sulla Rivoluzione Francese, abbiamo quindi delineato lo schieramento di coloro che, trovandosi tutti assieme, pur sotto diversi auspici, nel campo del dominio, sono propensi idealmente, per matrice storico-ideologica e collocazione di classe, a schierarsi a favore di quelli che furono, all'epoca, i fautori del rafforzamento del potere centrale, i quali tradirono in primo luogo la volontà di reprimere la democrazia diretta e le istanze che sotto questo segno venivano espresse dai sanculotti, dagli «hebertisti», dagli arrabbiati. Infatti quell'operazione, contrariamente a quanto affermato nelle tesi giustificazioniste, ebbe solo apparentemente il fine di combattere i controrivoluzionari, poiché coincise puntualmente con un alleggerimento della pressione contro costoro, mentre fu foriera di una critica repressiva serrata e virulenta mirante all'eliminazione di quelli che venivano, già all'epoca, indicati come «anarchici». Risulta d'altro canto ormai chiaro, come già venne autorevolmente affermato altrove, che la critica dello stato quale strumento in sé replicatore delle diseguaglianze, si trova già tutta nelle pieghe della Rivoluzione Francese, portata da coloro che, non accontentandosi d'arrestare la trasformazione al momento costituzionale ed alla fine del Re, intuirono il riformarsi d'una minoranza dominante in senso militare, legislativo, burocratico e tecnico. Molte furono le elaborazioni teorico-pratiche vicine ad un anarchismo compiuto sortite in quegli anni di fuoco, ed assai rilevanti, se è vero, ad esempio, che fu Varlet a proferire questa frase: Che mostruosità sociale, che capolavoro di machiavellismo, che è questo governo rivoluzionario! Per ogni essere ragionevole, governo e rivoluzione sono incompatibili, a meno che il popolo non voglia costruire delle basi durature di potere insurrezionale contro sé stesso, la qual cosa è assurda a credersi.

Il quadriennio 1789-1793 segna obiettivamente il concreto avvento del potere borghese, il quale, in seguito, verserà i propri enunciati in vari rivoli dottrinari, che si riveleranno fondamentali nel sorreggere il proprio dispotismo di classe (pur nelle sue varie contraddizioni e stratificazioni) che terrà, da allora in poi, la forza per riprodursi soprattutto dall'abilità con cui riuscirà via via a strumentalizzare e canalizzare le aspirazioni popolari, dando sempre, nei momenti cruciali, con un intuito eccezionale, la scalata ai vertici delle organizzazioni rivoluzionarie e degli organismi espressi dalle lotte egualitarie.

Il marxismo si colloca interamente in questa prospettiva, in quanto, nel concetto di «dittatura», perpetua l'impostazione giacobina indicando come necessaria la creazione di un leader o d'un apparato specifico che la eserciti «da parte delle masse» sulle «masse» stesse.

Ecco dunque apparire l'istituzione-partito, espressione dei professionisti della politica, che «fiancheggiando» il sollevamento popolare, lo disciplini e lo diriga, incanalandolo infine in un nuovo stato post-rivoluzionario, inteso, nella migliore delle ipotesi, quale «male necessario», centralizzazione sorta per «salvare» il cambiamento globale nella sua sostanza. Quindi chiunque, dopo l'esplosione sociale, continuerà a sostenere la necessità del decentramento, dell'autogestione, sarà trattato da controrivoluzionario e mandato al patibolo.

I marxisti, pur riconoscendo che i giacobini furono l'espressione di ideali ed interessi borghesi, non riescono a fare altrimenti che lodarne i metodi; ma questi metodi non possono essere presi a parte dall'idea che li ha partoriti. Al contrario, l'eliminazione di prassi e progetti d'emancipazione provenienti «dal basso», e la conquista del potere da parte di una ristretta élite che pratica il Terrore, riproporrà l'affermazione di una «nuova» classe (non importa se formata da elementi provenienti dalla piccola e media borghesia e da quella che oggi viene chiamata «aristocrazia operaia»), la quale potrà anche fare a meno dell'istituto della proprietà privata, detenendo i mezzi atti a mantenersi nei punti chiave della nuova piramide, grazie alle conoscenze acquisite con lo studio e con la pratica di governo, finalizzate a garantire una sopravvivenza economica a senso unico, a gestire la pianificazione ed il «funzionamento» di una comunità immiserita dal perpetuarsi della discriminazione fra lavoro manuale ed intellettuale, dall'elefantiasi amministrativa, da forme radicate di meritocrazia partitica legittimanti differenze salariali e di trattamento che sottintendono ancora lo sfruttamento.

Inoltre il «padrone mascherato» del capitalismo di stato è il più «al sicuro», e l'immaginario collettivo abituato alla dittatura il meno adatto a concepire forme d'autogoverno. Il capitale stesso, reso impersonale, s'esalta al massimo della sua potenza in un'azione omologatrice sorda ad ogni richiesta sociale o individuale, tanto da apparire all'apice del trionfo, e lo stato-proprietario diventa il più forte fra gli stati, poiché legittimato all'eliminazione d'ogni contraddizione, e non vi fu mai affermazione più tragica ed equivoca di quella propugnante l'autodeperimento di questo organismo per mezzo di esso medesimo. La rottura definitiva con questa forma storica di dominio, produttrice d'alienazione e di miseria, va maturata progressivamente, anche nel periodo pre-insurrezionale, nell'abitudine all'autodecisione ed a forme d'organizzazione orizzontali e federaliste, se si vuole che nella società preconizzata permangano parità, libertà d'espressione e democrazia reale non basata sulla delega di potere.

A coloro i quali, anche se in buona fede, vanno «sbandierando» le varie «anime» del marxismo, identificando in alcune contraddizioni interne a questa ideologia gli spazi necessari per una pratica di libertà, va detto che, prima dei leninisti, anche i giacobini entrarono in crisi al momento dell'esercizio del potere: alcuni sostennero che la rivoluzione era stata innanzitutto un'esigenza sorta dalla base, le cui istanze dovevano venire appoggiate e solo «mediate» dalla «avanguardia», e furono i primi a sperimentare la ghigliottina, mentre i fautori di una rivoluzione dominata da un'élite, gli stessi che ne avevano decretato la morte, li seguirono di lì a poco, massacrati a loro volta dai più reazionari quando questi ultimi furono certi che ormai non gli sarebbero più serviti.

Da ciò si può sicuramente trarre un utile insegnamento. Oltre le buone intenzioni rimane un dato di fatto: un sistema di valori si esplicita, al di là dei fini, già nei mezzi che propone. E nonostante tutte le diatribe «teologiche» resta un elemento fondamentale: le prime vere forme di «revisionismo», in campo socialista, nacquero e si propagarono proprio da quelle idee che, per ingenuità o calcolo, prefigurarono come possibile, nell'immediato o «in prospettiva» (o tutte e due le cose insieme), un «uso rivoluzionario» dello stato ai fini dell'emancipazione umana.

Il «rivoluzionarismo» marxista-leninista esprime, sotto questa luce, un progetto altrettanto «revisionista» che la «socialdemocrazia», la quale trae pure origine da concezioni molto vicine al marxismo stesso, teorizzanti per la lotta politica l'uso degli ingranaggi eletti «rappresentativi» concessi nell'ambito del capitalismo «classico» e la statalizzazione progressiva dell'economia e dei «servizi» tramite «riforme di struttura».

L'ultima «fatica» del regista polacco pone dunque, con prepotenza, il «dito» dentro molte piaghe e, nei problemi che solleva, non riguarda di certo solo i transalpini.

Resta il rammarico che, nel condannare i forzati parallelismi fra «primavera» cecoslovacca e «maggio» francese, fra repressione sovietica e repressione gollista, nel gelare le speranze giacobine, si voglia, come enfaticamente si affretta a scrivere Barbara Spinelli per La Repubblica, mettere «in gioco la rivoluzione tout court, a Parigi come a Mosca, il suo cuore fondamentalmente totalitario», disattendendo così anche quelle che sono le odierne aspirazioni degli stessi lavoratori polacchi, i quali di certo, contrariamente a quanto si possa credere nei conventi, non potranno scrollarsi di dosso l'oppressione soltanto recitando il Vangelo. E le immagini di «quel popolo che non ha scelto i ritmi della rivoluzione, e in una luce livida fa la coda di fronte ai negozi perché a Parigi c'è penuria di pane», se non sostanziate da una critica spinta alle estreme conseguenze, rischiano di suggerire nello spettatore forme di superficiale disgusto suscitato grossolanamente da un'esposizione sommaria dell'idea stessa della rottura rivoluzionaria.

I sommovimenti di Danzica, Stettino, Katowice, Varsavia ecc., le marcate spinte autogestionarie che hanno trovato il modo di esprimersi nonostante gli ancoraggi cattolici, suggeriscono forse a Waida solamente la «politica dei piccoli passi» ed, in prospettiva, quella del parlamentarismo?

Certamente, rispetto all'autocrazia di partito, questa forma può apparire e risultare migliore, quando in essa ancora vive qualche elemento di «diritto». Ma il diritto stesso, proprio perché costretto a coabitare con l'inamovibile autorità costituita, è destinato fatalmente a lasciare il posto alla «ragion di stato» (ragione di conservazione innanzitutto) nella tendenza verso il potere assoluto. Un potere assoluto oggi espresso appunto anche dal moderno feudalesimo pseudo-collettivista dei Paesi dell'Est.

Stefano Fabbri d’Errico