Spesse, molto spesse
Il ricordo è
al contempo nitido e confuso, come capita con gli
avvenimenti molto in là nel tempo e nella memoria.
A cavallo tra la fine del ’71 e l’inizio del ’72 mi
capita di partecipare ad una riunione dei Gruppi
Anarchici Toscani, nella storica sede di via San
Martino, a Pisa. Ci vado in auto da Carrara, con Aurora
– la quale, proprio durante la riunione, non si sente
bene per un acuto dolore ad un orecchio. Un compagno che
già avevamo visto in altre occasioni, riccioluto, si
offre di accompagnarci all’ospedale Santa Chiara: è un
affiliato all’AVIS (l’associazione dei donatori di
sangue), ci precisa, e là conosce molte persone. Ci
aiuterà a trovare qualcuno che, anche se è domenica
mattina, dia un’occhiata attenta all’orecchio di Aurora.
Franco sale in auto con noi, si siede dietro, ma subito
prende la mano di Aurora – che sta soffrendo. Cerca così
di confortarla, la sua stretta di mano è forte. Mi
colpiscono le lenti dei suoi occhiali: spesse, molto
spesse. Si capisce al volo che Franco, senza occhiali,
ci deve vedere poco, proprio poco. Poi entriamo
all’Ospedale e capiamo subito che Franco è di casa,
benvoluto e salutato da tante persone.
E qui sfuma il ricordo…
Trent’anni dopo ci ritroviamo a ricordare quel ragazzo
dalla mano calda e dalle lenti spesse. Un compagno tra i
tanti che abbiamo avuto modo di conoscere.
Eppure la sorte tragica toccata a quel giovane
anarchico, di cui non conoscevamo l’infanzia trascorsa
in brefotrofio, ha fatto sì che una persona semplice,
senza alcuna particolare storia alle spalle, sia
diventata dopo una delle figure-simbolo della carogneria
del potere.
Non fu ucciso in piazza, negli scontri seguiti alla
contestazione del comizio del missino Niccolai. Fu
selvaggiamente bastonato dalla polizia, lui che non
poteva difendersi perché – senza occhiali – quasi niente
poteva più vedere. Fu arrestato, gettato in cella e
lasciato morire senza praticamente ricevere quell’assistenza
cui aveva diritto e che l’avrebbe salvato. E, come in
altri casi analoghi, il suo prolungato assassinio
sarebbe rimasto avvolto nel nulla se i suoi compagni non
si fossero subito mossi, se tante e tante persone oneste
non si fossero subito battute contro chi voleva tutto
nascondere, se ad un certo punto il giornalista Corrado
Stajano non avesse dato alle stampe quel libro Il
sovversivo che ci ha restituito a tutto tondo la sua
vita e poi la sua morte, se…
Questo dossier è curato dalla Biblioteca e dal Circolo
culturale che, a lui intestati, operano a Pisa.
Comprende una biografia di Franco, un’intervista a
Corrado Stajano, un pezzo su come Franco è stato
ricordato in questi anni (lo sapevate che a Torino c’è
stata una scuola a lui intestata?), una breve storia
degli anarchici a Pisa dalla metà degli anni ’60 ai
primi anni ’70, una scheda sulla Strage di Stato (che
tanto appassionò anche Franco) ed infine alcuni stralci
da Il sovversivo, che ora è stato ristampato dalle
edizioni BFS. Com’è giusto, d’altronde: il libro su
Serantini (e sugli anarchici pisani) alla fine torna –
grazie all’amico Stajano – agli anarchici pisani della
Biblioteca Franco Serantini.
Paolo Finzi
Dal brefotrofio al carcere
a cura della BFS
La vita di Franco da Cagliari 1951 a
Pisa 1972.
Franco
Serantini (il suo nome di battesimo era Francesco) nasce
il 16 luglio 1951 a Cagliari. Abbandonato al brefotrofio
vi rimane fino all’età di due anni quando viene adottato
da una coppia senza figli. Dopo la morte della madre
adottiva viene affidato ai “nonni materni”, con i quali
vive, a Campobello di Licata in Sicilia, fino al
compimento del nono anno di età, poi viene nuovamente
trasferito in un istituto di assistenza a Cagliari. Nel
1968 viene trasferito dall’istituto di Cagliari in
quello per l’osservazione dei minori di Firenze e da qui
– pur senza la minima ragione di ordine penale –
destinato al riformatorio di Pisa “Pietro Thouar” in
regime di semilibertà (deve mangiare e dormire in
istituto). A Pisa, dopo aver conseguito la licenza media
alla scuola statale Fibonacci, frequenta la scuola di
contabilità aziendale.
Pinelli e Valpreda
Le conoscenze che acquisisce ed i nuovi rapporti che
allaccia lo portano a guardare il mondo con occhi
diversi e ad avvicinarsi all’ambiente politico della
sinistra: frequenta le sedi delle Federazioni giovanili
comunista e socialista, passa da Lotta Continua per
approdare, tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971, al
gruppo anarchico “Giuseppe Pinelli” che ha la sede
presso la Federazione Anarchica Pisana (aderente ai
G.I.A.) in via S. Martino al numero civico 48. Insieme a
tanti altri compagni si impegna in tutte le iniziative
sociali di quegli anni, come l’esperienza del “Mercato
rosso” nel quartiere popolare del CEP, in molte azioni
antifasciste, nella campagna di controinformazione sulla
strage di Piazza Fontana e l’assassinio di Giuseppe
Pinelli. Partecipa con passione all’acceso dibattito che
la candidatura di protesta alle elezioni politiche di
Pietro Valpreda ha innescato nel movimento anarchico.
Pestato a sangue
Il 5 maggio 1972 prende parte, come altri compagni
anarchici, al presidio antifascista indetto da Lotta
Continua a Pisa contro il comizio dell’onorevole
Giuseppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Il
presidio viene duramente attaccato dalla polizia;
durante una delle innumerevoli cariche Franco viene
circondato da un gruppo di celerini del Secondo e del
Terzo plotone della Terza compagnia del I Raggruppamento
celere di Roma, sul lungarno Gambacorti, e pestato a
sangue. Successivamente viene trasferito prima in una
caserma di polizia e poi al carcere Don Bosco, dove, il
giorno dopo, viene sottoposto ad un interrogatorio,
durante il quale manifesta uno stato di malessere
generale che il Giudice, le guardie carcerarie ed il
medico non giudicano “serio”. Dopo quasi due giorni di
agonia, Serantini viene trovato in coma nella sua cella,
trasportato al pronto soccorso del carcere muore alle
9,45 del 7 maggio.
L’autopsia
Il pomeriggio dello stesso giorno le autorità del
carcere cercano di ottenere tempestivamente dal Comune
l’autorizzazione al trasporto e al seppellimento del
cadavere. L’ufficio del Comune si rifiuta di concedere
il benestare alla tumulazione, mentre la notizia della
morte di Serantini rimbalza in tutta la città. Luciano
Della Mea, antifascista e militante storico della
sinistra pisana, decide insieme all’avvocato Massei di
costituirsi parte civile. Il giorno dopo ha luogo
l’autopsia. L’avvocato Giovanni Sorbi, che aveva voluto
assistervi, così ricorderà la triste circostanza: “È
stato un trauma assistere all’autopsia, veder sezionare
quel ragazzo che conoscevo. Un corpo massacrato, al
torace, alle spalle, al capo, alle braccia. Tutto
imbevuto di sangue. Non c’era neppure una piccola
superficie intoccata. Ho passato una lunga notte di
incubi”. I funerali di Serantini si tengono il 9 maggio
1972 e vedono una grande partecipazione popolare.
Piazza Serantini
Al cimitero, Cafiero Ciuti, un anziano militante
anarchico antifascista della prima ora, pronuncia
l’ultimo discorso di commiato. In quei giorni, con il
diffondersi della notizia, in molte città d’Italia si
tengono manifestazioni. Il 13 maggio a Pisa Lotta
Continua ne indice una che vede una grande
partecipazione di folla; al termine del corteo, in
piazza S. Silvestro, dopo un comizio di Gianni Landi per
gli anarchici e di Adriano Sofri per Lotta Continua,
viene apposta all’ingresso del palazzo Tohuar una lapide
in ricordo. Le manifestazioni e le iniziative per
ricordare Serantini travalicano i confini regionali: nel
1979 a Torino gli viene dedicata una scuola media; nel
1979 a Pisa nasce la biblioteca omonima e nel 1982 in
piazza S. Silvestro, ribattezzata nel frattempo dalla
gente “piazza Serantini”, viene inaugurato un monumento
donato dai cavatori di Carrara.
“Non ricordo”
Le indagini per scoprire i “responsabili” della morte
di Serantini affogano nella burocrazia giudiziaria
italiana e nei “non ricordo” degli ufficiali di PS
presenti al fatto. I sessanta uomini del Secondo e del
Terzo plotone della Terza compagnia del I Raggruppamento
celere di Roma che sono i protagonisti della vicenda
scompaiono nelle nebbie delle stanze della magistratura.
Ma la vicenda di Serantini rimane all’attenzione
dell’opinione pubblica grazie alla campagna stampa dei
giornali anarchici (A rivista anarchica,
L’Internazionale e Umanità Nova), di Lotta
Continua, di quelli democratici e di movimento, e
all’attività dei comitati “Giustizia per Franco
Serantini”. Alla fine di marzo del 1977 il dottor
Mammoli, il medico del carcere che aveva visitato
Serantini, viene ferito alle gambe da mani ignote. Un
volantino a nome di Azione Rivoluzionaria rivendicherà
l’attentato.
BFS
Della storia, delle viscere, della
vita collettiva
intervista di Franco
Bertolucci a Corrado Stajano
“Di questo fa parte la vicenda di
Franco”. Trent’anni dopo la morte di Serantini,
ventisette anni dopo l’uscita de “Il sovversivo”, a
colloquio con l’uomo che più di ogni altro ha fatto sì
che Franco non morisse del tutto.
Cosa ti rimane oggi a distanza di trent’anni dalla
vicenda Serantini, dell’esperienza del libro?
È stato un momento di passione, quando seppi della
morte di Franco Serantini provai una profonda angoscia.
Decisi che ne avrei scritto. Non lo feci subito perché
detesto i libri che vengono pubblicati a ridosso degli
avvenimenti. È necessario analizzare i fatti, studiare i
documenti, vedere i luoghi, pensarci su. Serantini è
morto nel maggio del ‘72 e io ne ho scritto due anni
dopo, al termine di una indagine che ho fatto in
Sardegna, in Sicilia, nei posti dove Franco era vissuto
da bambino, e poi a Pisa dove ho cercato di parlare con
tutti quelli che l’avevano conosciuto, da Luciano Della
Mea, ai vecchi anarchici della Federazione, a Valeria,
la giovane figlia di Luciano, ai professori, agli
studenti, alle giovani coppie della società borghese
pisana che l’avevano aiutato a crescere culturalmente. E
anche umanamente. I Podio Guidugli, i Prampolini, i
Caleca.
Ero andato al San Silvestro a parlare con il direttore
della Casa di rieducazione che ospitava Serantini, avevo
parlato con alcuni magistrati e, più tardi, a Roma con
il commissario che dopo l’assassinio aveva avuto una
crisi di coscienza e si era dimesso dalla polizia. Il
mio modo di scrivere sta tra la narrazione, la
testimonianza, l’inchiesta. Ho raccolto tutto quanto era
possibile, i documenti giudiziari, quelli politici. Il
sovversivo uscì nel ’75, ebbe numerose edizioni, fu
molto letto dai giovani delle passate generazioni, quasi
duecentomila copie. Ebbe anche un’edizione per le scuole
medie.
La storia di Serantini è stata in parte
interpretata come quella di un ragazzo sventurato,
povero, figlio di nessuno, e questa è la lettura che è
passata soprattutto a livello giornalistico, tuttavia
oggi, a trent’anni di distanza, intervistando alcuni
suoi amici, gente che andava a scuola con lui, alcuni
suoi insegnanti, viene fuori come Serantini non fosse
del tutto sprovveduto. Era un ragazzo come molti altri
che aveva una gran voglia di vivere, un grande
entusiasmo e una propria concezione libertaria della
vita e della società. In alcune cose era molto deciso,
per esempio, Soriano Ceccanti, ci ha descritto un
Serantini che a volte assumeva le caratteristiche del
“leader” nel gruppo degli amici più intimi, era
trainante, era determinato.
Sì, questo risulta in parte anche dal libro.
Serantini era rimasto colpito da quanto era accaduto in
Italia in quegli anni, dalle agitazioni operaie e
studentesche del ’69 alla strage di piazza Fontana.
Voleva sempre parlare di Valpreda, di Pinelli, veniva
anche rimproverato dagli anarchici più anziani di voler
fare un’azione di tipo movimentista uscendo dalla
tradizione classica dell’anarchismo. Serantini stava
costruendo la sua cultura politica.
Dalle interviste che stiamo facendo ai militanti
dell’epoca viene fuori una lettura della realtà pisana
condivisa, e cioè quella di una piccola città di
provincia che a un certo punto entra sul palcoscenico
nazionale proprio grazie al movimento studentesco, al
contempo però pare che nei gruppi dirigenti della città
ci sia una chiusura netta nei confronti delle richieste
e dei bisogni di rinnovamento da parte degli studenti.
In questa città così piccola, in alcuni momenti, la
violenza della repressione diventa enorme, qui basta
ricordare il caso di Soriano Ceccanti, ferito per
l’ultimo dell’anno del 1968, o quello di Cesare Pardini,
che viene ucciso su quello stesso lungarno dove viene
picchiato Serantini. Tre fatti clamorosi cui vanno
sommati le centinaia di arresti e denuncie. Come si può
interpretare questa realtà anche rispetto al resto del
contesto italiano?
È vero quel che tu dici. Pisa, in quegli anni, è
importante rispetto al panorama nazionale. Nasce in
quella città Potere Operaio, il movimento studentesco ha
un grande sviluppo, la presenza di una delle università
di maggior prestigio è rilevante. L’attenzione della
polizia a Pisa fu costante e anche la presenza dei
servizi segreti. Ed era seguita dalle autorità politiche
e dell’ordine pubblico con estrema attenzione. Le
infiltrazioni nei movimenti furono costanti con
l’intento di dividere, controllare e reprimere. La
classe dirigente politica locale fu incapace di
interpretare quel che stava accadendo, di capire che
cosa rappresentavano i gruppi della sinistra
extraparlamentare. Capirlo, tra l’altro, avrebbe evitato
tante tragedie che sono accadute dopo, avrebbe evitato
forse le violenze del terrorismo che hanno riportato la
società italiana indietro di dieci, quindici anni.
L’insufficienza dei gruppi dirigenti era ben visibile.
Non ti sembra che a trent’anni di distanza dal
Sessantotto, dalla Strage di Stato, e da casi come
questo di Franco, sia giunto il momento di aprire gli
archivi dello Stato?
In Italia sono accaduti almeno tre fatti
politico-criminali sui quali non sapremo mai, forse, la
piena verità: Portella della Ginestra (1947) e Piazza
Fontana (1969): nonostante il nuovo processo finito da
non molto non sappiamo nulla sui veri e propri mandanti.
Il terzo fatto è il sequestro Moro (1978). Sono i tre
fatti nodali intorno ai quali si muove la storia
italiana dalla fine della Seconda Guerra mondiale ad
oggi. Essenziali perché conservano ancora oggi le
tossine di possibili ricatti. Sono poche le persone che
sanno. Non è certamente negli archivi che troveremo i
documenti di quanto è avvenuto. Forse potremo trovare
ancora qualcosa di marginale capace di aiutare le
persone di buona volontà nella ricerca di qualche pezzo
di verità. Ma gli scheletri non sono rimasti negli
armadi.
I procuratori generali, come Calamari nel caso di
Serantini, avevano un grande potere e promossero grandi
inchieste e azioni repressive contro i movimenti di
contestazione. Quale ruolo ebbero questi magistrati?
Allora furono i procuratori generali a far da argine
contro i movimenti di contestazione. Si commette però,
sempre, l’errore di valutare le istituzioni come un
tutto omogeneo. Non lo furono allora come non lo sono
adesso. Nel caso Serantini, abbiamo a Pisa l’esempio di
magistrati che si comportarono esemplarmente, come Paolo
Funaioli, il giudice istruttore, e Salvatore Senese,
allora pretore di Pisa. Non ci furono insomma soltanto i
procuratori generali con la loro cultura medioevale, ci
furono anche all’interno delle istituzioni uomini che si
comportarono secondo verità e giustizia, con un modo
diverso di intendere la vita e la società.
Al momento della Strage di Stato vi fu un gruppo
di giornalisti coraggiosi che non si accontentò di
riportare supinamente le veline della questura e si
contrappose ai tentativi da parte delle autorità di dare
una “verità accomodante”. Ecco, di quell’esperienza, di
quel gruppo che cosa è rimasto?
Ci fu la grande esperienza dei giornalisti non
“estremisti”, borghesi, piuttosto, che diedero, anche
per questo, molti pensieri agli uomini della polizia i
quali non capivano quel che stava accadendo ed erano
molto preoccupati perché questi giornalisti denunciavano
con coraggio le responsabilità della polizia e dei
servizi segreti nella repressione nei confronti dei
movimenti politici. Volevano fare il loro mestiere,
conoscere la verità dei fatti. Molti di loro sono stati
fedeli per tutta la vita a questo stile di lavoro come
Camilla Cederna, come Marco Nozza, come Giorgio Bocca.
Che ancora oggi continua a scrivere coraggiosamente su
quel che accade nel nostro paese dopo che la destra è
andata al potere: contro la continua violazione della
legalità, il mancato rispetto delle regole, il conflitto
d’interessi che avvilisce tutti, l’offesa delle
minoranze. È vero che le generazioni di giornalisti
venute dopo non hanno fatto quel che fece quel gruppo di
giornalisti democratici, al quale appartenevo anch’io.
Si è perso il gusto della ricerca e della verità, la
spoliticizzazione seguita al terrorismo ha reso arido il
panorama del giornalismo. Non c’è più un’inchiesta, o
quasi, un po’ perché i giornali non le vogliono,
preferiscono spettacolarizzare la vita, un po’ perché i
giornalisti non le sanno fare, un po’ perché manca la
sincera passione di quel tempo. Non si può non pensare
che anche il giornalismo non sia stato toccato, come le
altre forme di espressione, da una sorta di
impoverimento, di degenerazione, di passività; anche se
mi sembra che ora si avverta qualche segno di risveglio.
Forse le persone si stanno accorgendo che occorre
vigilanza nei confronti di quanto stiamo vivendo. Non
vogliamo infatti vivere un altro fascismo. I fascismi
non appaiono nella storia sempre con le stesse modalità,
ma possono comparire sotto altre forme. Sotto
l’influenza mediatica. Ho l’impressione che ci sia ora
qualche moto dell’anima e qualche presa di coscienza
collettiva. La protesta e il rifiuto vanno dagli operai
delle fabbriche ai professori, agli avvocati, ai
giuristi, agli studenti. Perché vengono violati i
diritti di chi lavora, perché la scuola pubblica è
diventata nemica, perché si cerca di soffocare la
giustizia. Insomma, la gente ricomincia a scendere in
piazza e questo non è soltanto un fatto fisico, è una
scelta di persone che in piazza non ci sono mai andate.
E questo è molto importante, il “grido di Nanni
Moretti”, è soltanto un segno. Chissà quante grida sono
nascoste.
L’incontro con gli anarchici a Pisa come è stato?
Ti ricordi qualcuno in particolare che ti ha colpito?
Me li ricordo come delle figure affettive, erano
anziani [i Ciuti, Cazzuola, Capocchi ecc., n.d.c.] che
trovavo nella sede anarchica. Non mi ricordo là dentro
di giovani anarchici. Erano pochi, allora. Mi ricordo di
Renzo Vanni, che mi aveva dato il suo libro [La
Resistenza dalla Maremma alle Apuane], un libro che
aveva indignato Serantini. Aveva fatto delle fotocopie
del bando firmato da Almirante – la condanna a morte dei
renitenti della Repubblica Sociale – ed era corso a
distribuirle in tutti i quartieri della città. Vedi come
si manifesta la grande passione politica. In poco tempo
Serantini diventa cosciente. Che cosa era rimasto del
ragazzo dell’orfanotrofio di Cagliari?
Per uno che arriva a Pisa e cerca di conoscere la
sua storia colpisce come la memoria di Serantini sia
ancora viva, nel senso che lo conoscono più o meno
tutti, più o meno sanno della sua vicenda umana e
politica, come te lo spieghi?
Perché fa parte della storia, delle viscere, della
vita collettiva. Quella tragedia si è trasmessa dai
padri ai figli. Quel lungarno Gambacorti è diventato un
simbolo. La memoria è essenziale nella storia di una
comunità. E forse oggi i giovani ricominciano a voler
conoscere le storie di chi è venuto prima: la storia di
Franco Serantini è la storia di un loro coetaneo,
sfortunato, vittima dell’ingiustizia. La storia di una
doppia morte. Quella di un ragazzo di vent’anni ucciso
in modo selvaggio dalla polizia e quella scritta dalle
istituzioni dello Stato che non fa giustizia perché non
vuole processare se stesso.
Franco Bertolucci
Il ricordo
a cura del Circolo F.
Serantini
Lapidi, libri, una scuola con il suo
nome. Così è stato ricordato Franco.
A distanza di
soli sei giorni dal funerale di Franco, che aveva visto
in corteo migliaia di persone, il 13 maggio del 1972,
durante una manifestazione organizzata da Lotta Continua
con la partecipazione degli anarchici, sul palazzo
Touhar – sede dell’Istituto che aveva ospitato Franco –
venne posta, senza alcuna autorizzazione, la lapide
sulla quale ancora oggi si possono leggere queste
parole: Un compagno di 20 anni / morto tra le mani /
della giustizia borghese / visse in questa / che ora i
proletari chiamano / piazza / Franco Serantini. In
quel torno di tempo gruppi e circoli intitolati a Franco
sorsero un po’ in tutta Italia. A Pisa per molti anni il
7 di maggio si sono ripetute imponenti manifestazioni,
tra queste quella del 1977 (oltre diecimila persone) e
del 1978 sono senz’altro le più importanti per
partecipazione e intensità. Molte personalità dello
spettacolo, della cultura e della politica, come Franco
Fortini, Dario Fo, Umberto Terracini, Bianca Guidetti
Serra, ecc., hanno concorso in vario modo alla
diffusione della conoscenza della vicenda Serantini.
Nel 1974, su iniziativa degli avvocati Arnaldo Massei e
Giovanni Sorbi si costituì a Pisa il “Comitato giustizia
per Franco Serantini” che svolse una cospicua attività
di controinformazione. Tra le prime proposte del
comitato, cui avevano aderito oltre agli amici e ai
compagni di Franco anche molti cittadini, prese forma
quella di innalzare un “cippo marmoreo” in ricordo del
giovane militante. Il Comitato, inoltre, promosse la
pubblicazione di due opuscoli, il primo dal titolo
Franco Serantini ‘un assassinio firmato’, scritto da
Luciano Della Mea, l’altro dal titolo Giustizia per
Franco Serantini curato dall’Amministrazione
Provinciale di Pisa. Nel 1975 uscì il libro di Stajano,
Il sovversivo, che ebbe una buona risonanza in
tutto il paese. Alle presentazioni del libro, a Milano
come a Pisa, le sale erano stracolme di gente. Del testo
venne anche edita una versione per le scuole medie e
alcuni registi cinematografici proposero di portare sul
grande schermo la storia di Serantini. Si aprì un
dibattito e un confronto soprattutto tra Comencini e
Stajano ma la proposta di una storia “strappa lacrime”
tipo quella di Cuore non convinse Stajano che
lasciò morire l’iniziativa.
Nel 1977 un gruppo di insegnanti della scuola media di
Borgo San Paolo a Torino guidato dal professore Ignazio
Froghere propose di intitolare l’istituto a Serantini,
la proposta venne accolta due anni dopo.
In ricordo di Franco, nel 1979 i compagni anarchici di
Pisa decisero di costituire una biblioteca che fosse un
centro di conservazione e di divulgazione della memoria
ma anche di promozione di studio sulla storia
dell’anarchismo e dei movimenti antiautoritari. Da
allora la biblioteca “F. Serantini” è cresciuta grazie
al concorso di tanti amici e compagni che hanno donato
libri, giornali e riviste (a tutt’oggi sono oltre
sedicimila i volumi posseduti, 3600 i periodici,
migliaia i documenti), diventando una struttura
conosciuta a livello internazionale e frequentata da
moltissime persone oltre che dagli studiosi. Nel 1982
sempre a Pisa si costituì il Circolo Culturale Franco
Serantini e in quel torno di tempo un regista
televisivo, William Azzella, iniziò le riprese di un
documentario sulla vita del compagno assassinato. Il
progetto non fu portato a termine per le pressioni che
il regista ricevette dalle “alte sfere” dello Stato che
ritenevano “non opportuno”, dato il momento politico che
il paese stava attraversando, rinvangare una storia in
cui la polizia e le autorità potevano “essere presentate
in una cattiva luce”. Nel maggio del 1982, alcune
centinaia di persone parteciparono alla inaugurazione,
in piazza San Silvestro, del monumento che riporta la
seguente scritta: Franco Serantini / 1951-72 /
Anarchico ventenne / colpito a morte / dalla polizia /
mentre si opponeva / ad un comizio fascista. Le
autorità cercarono fino all’ultimo momento di convincere
i compagni affinché desistessero dall’iniziativa o che
almeno modificassero la scritta togliendo “ucciso dalla
polizia”. Ugo Mazzucchelli che faceva parte del
“Comitato giustizia per Franco Serantini”, promotore
dell’iniziativa insieme agli anarchici di Pisa e di
tutta la Toscana, si oppose decisamente alle insistenze
del Prefetto e delle altre autorità. Umberto Marzocchi e
l’avvocato Giovanni Sorbi tennero i discorsi
commemorativi.
Nel 1992 si svolse a Pisa una manifestazione anarchica
nazionale cui parteciparono oltre un migliaio di
compagni, per l’occasione uscì il volume curato dal
Circolo Culturale, Vent’anni 7 maggio 1972-1992.
Nello stesso anno nacquero le edizioni BFS (Biblioteca
Franco Serantini) gestite dall’omonima cooperativa. Nel
1995 un gruppo di cittadini decise di costituire
l’Associazione degli amici della Biblioteca Franco
Serantini, allo scopo di sostenere l’attività della
biblioteca e favorire la crescita del patrimonio
incentivando le donazioni.
Ma è stato soprattutto l’affetto espresso da tante
persone, lavoratori, studenti e casalinghe della Pisa
proletaria, a tenere viva negli anni la memoria del
“figlio di nessuno” dimostrando il legame indissolubile
del suo ricordo con la storia della città.
E così di tanto in tanto piccole testimonianze, scritte
sui muri, manifesti, iniziative musicali vengono
dedicate a Franco e sulla sua tomba mani anonime
depongono sempre dei fiori.
Circolo F. Serantini
Per contatti:
Biblioteca
Franco Serantini
Largo Concetto Marchesi 56124 Pisa.
Per corrispondenze:
C.P. 247 - 56100 Pisa
Tel. 050 570995
Fax 050 3137201
e-mail:
biblioteca@ bfs.it
sito biblioteca:
www.bfs.it
sito casa editrice:
www.bfspisa.com |
Gli anarchici a Pisa
di Franco Bertolucci
Negli anni precedenti il Sessantotto,
Pisa è un laboratorio di idee e fermenti politici e
sociali.
Il movimento
anarchico pisano nella metà degli anni Sessanta ha la
sua sede storica in via S. Martino al n. 48 (la sede
della Federazione Anarchica Pisana, inaugurata nel 1945
subito dopo la fine della seconda guerra mondiale). Il
nucleo principale di militanti è composto da compagni
della vecchia guardia eredi della vivace e robusta
comunità libertaria che tra la Prima Internazionale e il
Biennio Rosso è stata protagonista della storia sociale
e politica della città e della provincia. Basti pensare
che a Pisa tra il 1910 e il 1922 viene pubblicato un
settimanale, L’Avvenire anarchico che in più di
un’occasione supera le cinquemila copie di tiratura
mentre nel Casellario Politico Centrale dell’Archivio di
Stato di Roma sono più di 1500 gli anarchici schedati
nella sola provincia della città della torre.
Il nucleo di compagni sopravvissuti al fascismo e
temprati da diversi decenni di intensa attività ha
mantenuto, seppur in misura ridotta, la presenza
libertaria nella città. Tra i diversi nomi che fanno
riferimento alla FAP ricordiamo Otello Bellini, Spartaco
Benedetti, Nilo Capocchi, Nilo Cazzuola, Cafiero e
Foresto Ciuti, Unico Pieroni e altri, cui si affiancano
diverse decine di compagni sparsi sul territorio
provinciale come a Cascina (Giovanni Turini, Sergio
Iacoponi, Ludovico Cajoli, ecc.), Pontedera (Mario
Orsini) e Volterra (Piero Bulleri, Gino Fantozzi, Luigi
Fanucci, Ettore Rosi). Accanto a questi ci sono anche
diversi individualisti come il pisano ed ex ferroviere
Armando Ghelardoni.
Laboratorio di idee
Dopo il congresso della FAI del novembre 1965 la
Federazione Pisana è una delle principali animatrici
dell’opposizione ad una “strutturazione”
dell’organizzazione nazionale e promuove insieme ad
altri numerosi gruppi la costituzione dei GIA (Gruppi di
Iniziativa Anarchica) che avviene a Pisa nel convegno
del 19 dicembre 1965. In quel torno di tempo, al gruppo
storico si è unito un altro “vecchio” pisano Italo
Garinei, emigrato a Torino prima della Grande guerra. Si
devono a lui la pubblicazione di alcuni numeri unici di
polemica politica dal titolo Iniziativa anarchica
e, nella primavera del 1966, la ripresa delle
pubblicazioni del Seme anarchico, precedentemente
stampato nella città della Mole, dal febbraio 1951 al
luglio-agosto 1965. L’arrivo di Garinei insieme a quello
di un nuovo compagno, Renzo Vanni, insegnante e storico
che giovanissimo aveva partecipato alla Resistenza, dà
nuovo impulso alle attività della federazione.
Negli anni precedenti il Sessantotto, Pisa è un
laboratorio di idee e fermenti politici e sociali che
nascono soprattutto al di fuori del PCI e si coagulano
intorno al movimento degli studenti e al giornale Il
Potere operaio, portavoce di quella che, più che
un’organizzazione intesa nel classico senso
marxista-leninista, è un’esperienza diretta di lavoro
politico mirante soprattutto all’esaltazione della
radicalità delle lotte operaie, in quel periodo
particolarmente vivaci, e delle forme di “democrazia
diretta” degli organismi di massa spontanei, che in
diverse zone del Paese stavano nascendo come espressione
della nuova “autonomia di classe”.
Anche per gli anarchici si apre un periodo di intensa
attività politica, soprattutto nel campo della
controinformazione antifascista. D’altronde c’è da
ricordare che all’epoca tra i temi che accendono gli
animi, provocano discussioni e manifestazioni, suscitano
una delle principali battaglie che animano le
discussioni e le manifestazioni, oltre alla solidarietà
ai popoli in lotta del terzo mondo per la propria
indipendenza, alla lotta contro la guerra in Vietnam, al
conflitto arabo-israeliano, c’è quella della lotta al
fascismo. In Italia è attivo un partito, il Movimento
Sociale Italiano, dichiaratamente erede del fascismo
storico, soprattutto di quello nato con la Repubblica
Sociale Italiana, che ha solidi collegamenti
internazionali con gruppi e organizzazioni di vari
paesi. In Europa ben due Paesi sono sotto il giogo di
regimi fascisti (Spagna e Portogallo) e nel 1967 anche
in Grecia la democrazia lascia il passo al regime dei
Colonnelli. In Italia nel 1964 si è rischiato il colpo
di stato con un “complotto” ordito dal generale De
Lorenzo.
Con posizioni critiche
Il clima dunque è incandescente e a Pisa, dove
risiede una folta comunità di studenti greci, l’eco
degli avvenimenti che si succedono nella madre patria ha
un effetto dirompente negli equilibri politici
dell’Università. Fin dal 1967, un nucleo di studenti
fascisti greci appoggiati dal MSI e da altre
organizzazioni neofasciste ha promosso iniziative di
propaganda che sono apparse come vere e proprie
provocazioni e che hanno causato duri scontri
all’interno del movimento studentesco, il quale, da
parte sua, sta crescendo, radicandosi e assumendo un
ruolo sempre più importante soprattutto nelle lotte
contro le “baronie universitarie” attraverso nuove
pratiche di lotta e di elaborazione teorica.
Gli anarchici sono presenti, seppur a volte con
posizioni critiche, in queste lotte, tant’è che già
durante il 1967 molti studenti incominciano a
frequentare la sede di via S. Martino che, peraltro,
rappresenta l’unico spazio disponibile in città e spesso
lì si riuniscono i militanti di Potere Operaio e i
diversi organismi del movimento degli studenti. Il 2
marzo 1969 si tiene a Pisa un convegno nazionale
anarchico il cui odg prevede una discussione sui
rapporti tra movimento anarchico e movimento
studentesco, l’intervento nel mondo del lavoro e
l’analisi della situazione spagnola. Nella riunione, in
cui emergono diverse interpretazioni della protesta
studentesca, il gruppo pisano porta avanti la tesi che
“pur con i suoi limiti inevitabili derivati talora da
una confusione d’idee, il movimento studentesco ha
rappresentato e continua a rappresentare una forza”
antidogmatica e antitradizionalista. Nel movimento
studentesco si individua un’area libertaria che si
contrappone a quella di orientamento “comunista”.
Il capodanno 1969 è la prima data tragica della storia
del movimento di opposizione pisano. In quella occasione
un gruppo di studenti, lavoratori, aderenti al movimento
studentesco, al Potere Operaio pisano e ai gruppi
anarchici contesta a Focette di Marina di Pietrasanta la
festa dei “ricchi borghesi”che come ogni anno si
ritrovano nel noto locale della Bussola. I carabinieri
reagiscono con brutalità reprimendo la contestazione con
cariche ed arresti. Un ragazzo giovanissimo cade a terra
raggiunto alla schiena da uno dei diversi colpi di
pistola che vengono sparati ad altezza d’uomo. Soriano
Ceccanti, quando viene gravemente ferito (rimarrà
paralizzato alle gambe per tutta la vita) ha 16 anni è
studente e frequenta spesso la sede della Federazione
Anarchica. Il suo caso ha una vasta eco sulla stampa
nazionale, si tratta di uno dei primi fatti di sangue
accaduti durante una manifestazione di contestazione dei
giovani.
Centinaia anzi migliaia
A Pisa il clima si surriscalda immediatamente, poche
settimane dopo un giovane compagno anarchico, Michele
Olivari, viene ferito al braccio durante uno scontro tra
studenti ed alcuni esponenti della destra che hanno
occupato la facoltà di Lingue. Il confronto tra
militanti di opposte fazioni si fa sempre più serrato.
Nell’ottobre del 1969 il gruppo anarchico ha intrapreso
una campagna di solidarietà nei confronti dei compagni
arrestati con la falsa accusa di essere gli esecutori
degli attentati alla Fiera Campionaria di Milano. Il
gruppo pisano ne conosce bene alcuni che frequentano
l’Università, come Faccioli, detenuto nel carcere Don
Bosco di Pisa, e il 22 ottobre organizza una riuscita
manifestazione cittadina con l’adesione di alcune
centinaia di studenti. Nel frattempo i fascisti, il
giorno 20 ottobre, si erano rifatti vivi alla facoltà di
Lingue causando un nuovo scontro e ferendo tre studenti
tra cui ancora il compagno Michele Olivari. Pochi giorni
dopo, il 25 ottobre, alcuni studenti vengono nuovamente
aggrediti dai fascisti che si rifugiano nella propria
sede all’inizio di via S. Martino. Centinaia di persone
accorrono nel centro della città e mettono sotto assedio
i fascisti. In poche ore le persone diventano migliaia e
la Polizia perde il controllo della situazione
intervenendo con cariche indiscriminate che vanno a
colpire manifestanti e cittadini inermi. La popolazione
è esasperata e risponde a questa ennesima prova di
violenza gratuita, ne nasce uno scontro che si protrae
per ben due ore nel centro storico della città.
Il 27 ottobre uno sciopero generale blocca tutte le
attività e dopo la manifestazione ed il comizio in
piazza Martiri della Libertà organizzati dai sindacati e
dai partiti della sinistra istituzionale, un corteo
spontaneo di alcune migliaia di persone si dirige verso
la sede del MSI. La polizia reagisce duramente con nuove
violente cariche, durante uno dei numerosi scontri, sul
lungarno Gambacorti, lo stesso dove verrà picchiato e
arrestato Franco Serantini nel 1972, un lacrimogeno
sparato ad altezza d’uomo colpisce mortalmente uno
studente estraneo alla manifestazione, Cesare Pardini,
la cui tragica morte ha un forte impatto sulla città. Ma
la polizia e le autorità locali non mostrano cedimenti
nella loro volontà di sottomettere, ad ogni costo, i
movimenti di piazza. In poche altre città in Italia si
raggiungerà un tale livello di repressione.
A Pisa, non a caso
Pisa sembra, dunque, far parte di una precisa
strategia d’azione tesa a sperimentare il contenimento
delle “avanguardie della contestazione” ma anche
l’efficacia dei sistemi repressivi e della provocazione
politica (uso dei fascisti come strumento di
provocazione degli scontri, ecc.). Sono centinaia gli
studenti che vengono picchiati, arrestati e denunciati
negli anni 1968-1972; per i fatti dell’autunno del 1969
gli antifascisti denunciati vengono condannati ad oltre
16 anni complessivi di prigione. Il gruppo anarchico
pisano è particolarmente attivo nel contrapporsi a
questa azione repressiva, quasi tutti i volantini di
questo periodo sono dedicati alla lotta contro la
repressione e i fascisti. Renzo Vanni, collaboratore
assiduo de L’Internazionale è tra i principali
promotori di questa campagna. Sempre presente in ogni
manifestazione tenta, anche tramite la ricerca storica,
di ricollegare le esperienze passate, la memoria del
primo antifascismo e della Resistenza, alle nuove lotte.
A Pisa all’inizio degli anni Settanta dopo lo
scioglimento del gruppo del Potere Operaio si sono
costituite diverse organizzazioni di estrema sinistra:
Lotta Continua, il Centro Karl Marx, la Lega dei
comunisti, Avanguardia Operaia, il gruppo del Manifesto
ecc. Anche fra gli anarchici nasce un nuovo gruppo, il
Pinelli che si caratterizza da subito per il suo
attivismo. Tra tutti questi gruppi quello che emerge per
consistenza e diffusione è sicuramente Lotta Continua
che, proprio qui, ha allevato anche i suoi principali
leader nazionali come Adriano Sofri, e che mantiene in
questo periodo una connotazione di movimento più che di
partito. Cavalli di battaglia di LC sono la campagna
contro il commissario Calabresi, uno dei responsabili
della morte di Pinelli, e l’antifascismo militante.
Nel gruppo Pinelli, composto da giovani compagni come
Massimo, Enrico, Paola, Rita, Paolo e “il Vanni”,
Serantini riporta la propria breve esperienza politica;
durante tutto il 1971 è tra i partecipanti del “Mercato
rosso” nel quartiere popolare del CEP. Serantini, prima
di aderire al gruppo G. Pinelli – nato sul finire del
1970 autonomo dalla FAP –, aveva frequentato LC
impegnandosi soprattutto nelle iniziative sociali. Ma il
fatto più noto che coinvolge il gruppo, e lo stesso
Serantini, è il ritrovamento del famoso bando di
Almirante, rintracciato da Renzo Vanni presso l’archivio
storico del comune di Massa Marittima in provincia di
Grosseto. Il documento che testimonia la partecipazione
attiva di Almirante alla repressione contro i partigiani
e la continuità storica tra il MSI ed il fascismo ha
l’effetto di una bomba e catapulta i pisani al centro
della campagna nazionale contro il Movimento Sociale e
il suo segretario. È in questo clima che i compagni di
Pisa partecipano a tutte le manifestazioni antifasciste
della primavera del 1972, coscienti anche dei rischi e
dei pericoli derivanti dalla scelta delle Autorità di
affrontare la piazza con un dispiegamento di forze
impressionante.
Le cronache dei giornali di quei giorni riportano
notizie di scontri in tutte le principali città della
Toscana, fino a quel fatidico 5 maggio.
Franco Bertolucci
Strage di Stato e strategia della
tensione
a cura della BFS
L’impegno politico del giovane Franco
Serantini (e di milioni di giovani di quella
generazione) è segnato da una data: 12 dicembre 1969.
A Milano e a Roma
venerdì 12 dicembre 1969 tra le ore 16,37 e le 17,24
esplodono alcune bombe. La bomba di Milano alla Banca
Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, affollata
come tutti i venerdì, giorno di mercato, provoca una
strage. I morti sono sedici, molti dei novanta feriti
hanno gli arti amputati dalle schegge. In un primo
momento molti pensano che sia stata un’esplosione
derivata da qualche fuga di gas o da qualche caldaia.
L’esplosione ferma gli orologi di piazza Fontana sulle
16,37: poco dopo in un’altra banca distante poche
centinaia di metri, in piazza della Scala, un impiegato
trova una borsa nera e la consegna alla direzione. È la
seconda bomba milanese, quella della Banca Commerciale
Italiana. Non è esplosa, forse perché il timer del
congegno d’innesco non ha funzionato. Ma viene fatta
esplodere in tutta fretta alle 21,30 di quella stessa
sera dagli artificieri della polizia che l’hanno prima
sotterrata nel cortile interno della banca.
È una decisione inspiegabile: distruggendo questa bomba
così precipitosamente si sono distrutti preziosissimi
indizi, forse addirittura la firma degli attentatori. In
mano alla polizia rimangono solo la borsa di similpelle
nera uguale a quella di piazza Fontana, il timer di
fabbricazione tedesca Diehl Junghans, e la certezza che
la cassetta metallica contenente l’esplosivo è anch’essa
simile a quella usata per la prima bomba. Le bombe di
Roma sono tre. La prima esplode alle ore 16,45 in un
corridoio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro,
tra via Veneto e via San Basilio. Tredici feriti tra gli
impiegati, uno gravemente. Ma anche questa poteva essere
una strage. Alle 17,16 scoppia un ordigno sulla seconda
terrazza dell’Altare della Patria, dalla parte di via
dei Fori Imperiali. Otto minuti dopo la terza
esplosione, ancora sulla seconda terrazza ma dalla parte
della scalinata dell’Ara Coeli. Frammenti di cornicione,
cadendo, feriscono due passanti. Ma questi ultimi due
ordigni sono molto più rudimentali e meno potenti degli
altri.
Il volo di Pinelli
La reazione del Paese è di sdegno per gli attentati,
di dolore per le vittime. Ma non si assiste a nessun
fenomeno di isteria collettiva, la strage non ha sbocco
politico immediato a livello di massa, e soprattutto non
contro la sinistra, anche se immediatamente dopo la
bomba di piazza Fontana le indagini e le relative
dichiarazioni ufficiali puntano solo in questa direzione
nella ricerca dei colpevoli (un discorso a parte
meriterebbe il ruolo giocato in questa fase dalla stampa
“indipendente”. Basterà sottolineare che, oltre
ovviamente a Il Secolo d’Italia, si sono distinti
nell’incitare alla caccia all’“estremista di sinistra”,
La Stampa di Torino e i quotidiani della catena
editoriale del Cav. Attilio Monti. Il Tempo di
Roma, il 13 dicembre è arrivato al punto di pubblicare
con ampio risalto che “La notizia degli attentati è
stata data nel corso di un’assemblea alla Città
Universitaria da un oratore di Potere Operaio il quale
ha rivendicato al suo gruppo la paternità della strage
riscuotendo l’applauso degli studenti presenti…”).
Gli organi di polizia, soprattutto la direzione della
questura di Milano allora diretta da Marcello Guida,
indirizzano da subito le indagini in gran parte
nell’area della sinistra extraparlmentare e anarchica.
Centinaia sono le perquisizioni e i fermi, numerosi
compagni sono portati in questura per interrogatori
svolti spesso fuori da ogni rispetto della “legalità”,
tra questi Pino Pinelli che la sera del 15 dicembre
“cade” dal quarto piano degli uffici della Questura e
muore. Pinelli era stato “invitato” negli uffici della
questura dall’ispettore Luigi Calabresi, noto per le sue
“attenzioni” nei confronti degli anarchici. Pinelli è la
diciassettesima vittima della “strategia del terrore”
promossa da quegli “oscuri apparati” politici e dei
servizi segreti che hanno l’intenzione di bloccare
quella ondata di proteste e i movimenti che sono stati i
protagonisti delle lotte sociali nel biennio 1968-69.
Le bombe del 12 dicembre sconvolgono e sorprendono
soprattutto per la loro ferocia, ma sarebbe inesatto
dire che giungono inattese. Rappresentano il momento
culminante di una escalation di fatti noti e ignoti che
avvengono durante l’intero 1969 e che fanno parte di un
preciso disegno politico. Alcuni di essi riconsiderati
oggi nella loro sinistra successione acquistano un
significato molto chiaro.
Le bombe del 12 dicembre scoppiano in un paese dove, a
partire dal 3 gennaio 1969, ci sono stati 145 attentati:
dodici al mese, uno ogni tre giorni, e la stima forse è
per difetto.
Novantasei di questi attentati sono di riconosciuta
marca fascista o per il loro obiettivo (sezioni del PCI
o del PSIUP, monumenti partigiani, gruppi
extraparlamentari di sinistra, movimento studentesco,
sinagoghe ecc.) o perché gli autori sono stati
identificati. Gli altri sono di origine ufficialmente
incerta spesso addebitati a gruppi della sinistra
estrema e agli anarchici, come le bombe del 25 aprile
alla Fiera campionaria e alla stazione centrale di
Milano. In realtà ci vuole poco a scoprire che la lunga
mano che li promuove è sempre la stessa, e cioè una mano
che pone diligentemente in atto i presupposti necessari
alla “strategia della tensione” che sta maturando a più
alto livello politico e che è stata riportata alla luce
non solo dalle controinchieste del movimento di quegli
anni ma anche dai numerosi processi che si sono svolti
fino all’ultimo di pochi mesi orsono che ha visto
imputati diversi fascisti.
Una lunga catena di attentati
Ma il 1969 è anche ricordato per l’ondata repressiva
che colpisce non solo gli anarchici e i gruppi
dell’estrema sinistra ma anche migliaia di lavoratori in
tutta Italia. L’anno precedente, il 1968, si era già
chiuso con l’eccidio di Avola in provincia di Siracusa
dove erano stati uccisi due braccianti; il 1969 era
iniziato con il ferimento dello studente Soriano
Ceccanti (rimarrà paralizzato per tutta la vita) durante
la contestazione del capodanno dei “ricchi” al locale
della Bussola di Focette in provincia di Lucca; a fine
febbraio Domenico Congedo studente universitario muore a
Roma durante gli incidenti causati dall’intervento della
polizia e dei fascisti contro le occupazioni delle
facoltà portate avanti dagli studenti; all’inizio di
aprile a Battipaglia durante uno sciopero la polizia
attacca i manifestanti uccidendo due persone e
arrestando 119 uomini e donne; in ottobre a Pisa,
durante una manifestazione antifascista, la polizia
carica duramente i manifestanti con lancio di bombe
lacrimogene che provocano la morte dello studente
universitario Cesare Pardini. Per le manifestazioni e
gli avvenimenti durante tutto l’“autunno caldo” del
1969, i sindacati registrarono ben 13.903 denuncie a
carico di lavoratori così suddivise: 3.922 lavoratori
agricoli (quasi tutti al Sud); 2.158 metalmeccanici;
1.966 ospedalieri; 1.103 vigili urbani; 652 chimici; 610
edili; 473 alimentaristi; 543 tessili; 346 minatori; 321
trasportatori; 250 statali e parastatali.
Le bombe del 1969 sono solo l’inizio di una lunga catena
di attentati, in gran parte rimaste impuniti, che hanno
insanguinato il nostro paese per più di un decennio e
che hanno visto coinvolti a diversi gradi di
responsabilità fascisti e apparati dello Stato. Già fin
dalle prime settimane dopo l’attentato di Milano la
gente, i lavoratori e gli studenti avevano intuito il
ruolo delle istituzioni, tanto è vero che la strage di
piazza Fontana venne presto ribattezzata la “Strage di
Stato”.
BFS
Bibliografia minima
La strage di Stato. Controinchiesta,
Roma, La nuova sinistra, Samonà e Savelli,
1970
Crocenera anarchica, Le bombe dei
padroni. Processo popolare allo stato
italiano nelle persone degli inquirenti per
la strage di Milano, Ragusa, La
Fiaccola, 1989 (19701).
Le bombe di Milano. Testimonianze,
Parma, Guanda, 1970.
Vincenzo Nardella, Noi accusiamo! Contro
la requisitoria per la strage di stato,
Milano, Jaca Book, 1971.
Marco Sassano, La politica della strage,
Padova, Marsilio, 1972.
Roberto Pesenti, Marco Sassano (a cura di),
Fiasconaro e Alessandrini accusano. La
requisitoria su la strage di piazza Fontana
e le bombe del ’69, Venezia-Padova,
Marsilio, 1974.
Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12
dicembre 1969: il giorno dell’innocenza
perduta, Milano, Feltrinelli, 1993.
Adriano Sofri (a cura di), Il malore
attivo dell’anarchico Pinelli. La sentenza
del 1975 che chiuse l’istruttoria sulla
morte del ferroviere Pino Pinelli, che entrò
innocente in un ufficio al quarto piano
della Questura di Milano, e ne uscì dalla
finestra, il 15 dicembre 1969, Palermo,
Sellerio, 1996.
Luciano Lanza, Bombe e segreti. Piazza
Fontana 1969, Milano, Elèuthera, 1997. |
Il sovversivo
di Corrado Stajano
Brani tratti dal libro di Stajano,
fresco di ristampa presso le edizioni BFS.
Le stimmate della Santa
Il posto dove fu colpito a morte è sul lungarno
Gambacorti di Pisa, tra la via Toselli e la via Mazzini.
Si lascia sulla sinistra, venendo dal pont di Mezzo, il
palazzo del Comune e si cammina lungo una ininterrotta
serie di piccole botteghe che forse esistono da secoli e
hanno mutato soltanto il genere dei loro minuti
commerci. Una mescita di vino al numero 10, all’angolo
di via delle Belle donne; un tappezziere al numero 13;
un aggiustatore di macchine fotografiche al 14; la
calzoleria “La rapida” al 16; l’agenzia Sbrana,
compravendita e affitti, al 18; il circolo Enal al 19.
Alle spalle dell’isolato, via della Nunziatina,
nell’intricato quartiere del sottoproletariato rosso. Di
là dall’Arno, sotto i palazzi aristocratici e
inaccessibili, lo scalo del carbone con la lapide che
ricorda l’approdo della barca di Garibaldi ferito
sull’Aspromonte.
Non lontano dal lungarno Gambacorti, tante volte citato
nei rapporti dei commissari di pubblica sicurezza, nei
verbali dei sostituti procuratori della Repubblica,
nelle sentenze dei giudici istruttori, nelle cronache
dei giornali e nelle relazioni dei periti medico-legali,
splendono i gioielli dell’arte e della religione, Santa
Maria della Spina, San Paolo a Ripa d’Arno e, a pochi
passi, la chiesa di Santa Cristina dove, il 1° aprile
1375, santa Caterina da Siena ricevette le Sacre
Stimmate, “cinque lucidissimi raggi sanguigni, usciti
dal Santissimo crocifisso sull’altare e andati a ferire
le mani di Caterina, i piedi, il suo castissimo e
virgineo petto”.
Ma la sera del 5 maggio 1972, né la patrona d’Italia, né
la presenza antica di bellezza e di arte, né i segni
della storia e della cultura servirono a salvare dalla
furia della polizia, tra la bottega del vinaio e quella
del tappezziere, un giovane non alto, ricciuto, gli
occhiali da miope, il viso serio e sofferto, vestito con
una giacca marrone, un paio di pantaloni di lana nera,
una camicia con le maniche lunghe dai disegni fantasia
color giallo arancione. Franco Serantini, di vent’anni,
sardo, anarchico, figlio di nessuno nella vita come
nella morte.
(p. 7)
Tessera AVIS 146
Non sono in molti a poter dire di conoscerlo bene,
anche adesso che ha ancora pochi mesi da vivere. È
cambiato, indossa un montgomery nero, porta un paio di
stivaletti, fuma la pipa, infila e toglie di continuo
gli occhiali dal naso, forse per un tic, ha i capelli
sempre più ricciuti, sempre più arruffati. Parla una
lingua anonima, non ha nulla che serva a distinguerlo o
a farlo ricordare: la sua è solo una delle migliaia di
facce giovani che s’intravedono in quegli anni nelle
marce studentesche, in una gran nuvola che corre.
Serantini passa le ore libere nelle aule della Sapienza,
in mezzo agli universitari o in piazza Garibaldi accanto
al monumento mascherato di tatze-bao o davanti al bar lì
vicino, in crocchio con i ragazzi di Lotta Continua e
con gli altri extraparlamentari di sinistra.
[…]
Ha fatto esperienze nuove: donatore di sangue all’Avis,
tessera numero 146, in estate è andato a lavorare a
Viareggio, cameriere al ristorante Zi’ Rosa, l’anno
prima si è occupato come stagionale in una fabbrica di
piastrelle. Ha conosciuto Renzo Vanni, ha conosciuto
Luciano Della Mea e la domenica, qualche volta, quando
non sta con Sauro, Alfredo, Ettore, Enrico, i suoi
coetanei, va con i Della Mea a Marina di Pisa, a
Tirrenia, in pineta.
A scuola se la cava. È stato promosso, frequenta il
corso di contabilità d’azienda, terza B: Bartoli,
Bianchi, Biso, Borrello, Ceccanti, Chiellini, Coli,
Davini, De Luca, Ferri, Giovacchini, Massei, Mauriziani,
Quadrilli, Rossi, Saviozzi, Serantini. È fiero,
caparbio, individualista, con il senso della giustizia,
capace di portare avanti a ogni costo le sue idee. Una
volta che gli studenti fanno uno sciopero che lui
considera corporativo e non condivide, si fa fare
lezione da solo. Lo interessa la storia, il fascismo, la
Resistenza, è rimasto molto colpito dalla morte di
Pinelli, ne parla con la professoressa di italiano, Anna
Maria Montella. In un tema scrive della Sardegna, si
vanta di esser capace di fare il formaggio e la ricotta
per aver vissuto, chissà quando, con dei pastori.
Non è settario, gli piace discutere con tutti, con il
cappellano del riformatorio, con l’insegnante di
religione. Ricorda il preside, Fulgido Lucani: “Mi
parlava di sé, di come avrebbe voluto la società, libera
e giusta, col tacito accordo che nessuno di noi due
doveva far opera di persuasione nei confronti
dell’altro. Conosceva bene la mia posizione religiosa,
di cattolico e ideologica, sono iscritto alla Democrazia
Cristiana. Durante il periodo pasquale, quando venne il
sacerdote per la benedizione delle aule, mi chiese di
non assistere alla cerimonia, titubante. Gli dissi che
era nel suo diritto. Le sue parole furono amare: ‘La
famiglia, la religione, la società costituita sono miti
che finora mi hanno fatto del male’. Non gli risposi”.
(pp.43-44)
“Varie cariche e successivo rastrellamento”
Rapporto del commissario capo della questura di Pisa
al signor procuratore della repubblica:
“Verso le ore 18,30 di ieri, poco dopo l’inizio in largo
Ciro Menotti del comizio dell’on. Giuseppe Niccolai del
msi, numerosi estremisti appartenenti a gruppi della
sinistra extraparlamentare, appositamente convenuti in
questo capoluogo a seguito di una vasta mobilitazione
promossa principalmente dal gruppo politico Lotta
Continua di Pisa che da vari giorni aveva, come noto,
manifestato con intensa attività propagandistica, il
proposito di ostacolare a qualsiasi costo lo svolgimento
del comizio stesso nel quadro di un preciso disegno
rivolto a impedire ogni propaganda elettorale del msi,
non potendo giungere sul luogo della riunione elettorale
per il massiccio servizio d’ordine predisposto per
l’occasione, si attestavano in folti gruppi sui Lungarni
Mediceo e Pacinotti e Ponte di Mezzo, improvvisando
prima una manifestazione sediziosa all’indirizzo della
Forza pubblica che si trovava a presidiare la piazza
Garibaldi alle dipendenze del sottoscritto Funzionario,
inveendo con slogan vilipendiosi come: ‘Polizia
fascista’ - ‘ps-ss’ - ‘Fascisti carogne tornate nelle
fogne’ - ‘Poliziotti culaioli’ - ‘Buffoni’ e simili. I
dimostranti che andavano sempre più riunendosi in blocco
compatto, ad un certo momento hanno scagliato contro le
Forze di Polizia pietre e altri corpi contundenti come
palline di vetro, piombini con chiodi, servendosi di
apposite fionde per cui lo scrivente si vedeva costretto
a respingere la violenza dei dimostranti i quali si
dividevano su tre fronti rispettivamente Logge dei
banchi, lungarno Pacinotti all’altezza dell’hotel
Nettuno e lungarno Mediceo all’altezza di piazza
Cairoli. Da queste posizioni e da altre sul lungarno
Gambacorti, corso Italia, Ponte della Fortezza, ecc.
hanno sviluppato per alcune ore molteplici azioni di
guerriglia urbana, anche mediante lancio di numerose
bottiglie ‘molotov’, che sono state ovunque stroncate
dal deciso intervento delle Forze dell’Ordine che hanno
contemporaneamente assicurato il regolare svolgimento
dei successivi comizi.
Nel corso delle varie cariche e del successivo
rastrellamento compiuto al termine degli interventi,
sono state fermate n. 27 persone di cui 9 tratte in
arresto per manifestazione sediziosa, violenza e
resistenza a P. U., danneggiamento aggravato.
Per quanto riguarda gli arrestati si trasmette l’elenco
ed i relativi singoli verbali redatti dagli agenti
operanti, significando che tra di essi i nominati
Kapoolos Alessandro, cittadino greco, Tsolinas Evangelo,
cittadino greco, Megalofon Ottone, cittadino greco, sono
stati prima accompagnati al Pronto soccorso del locale
ospedale perché presentavano lesioni varie, come da
referti trasmessi a codesta Procura dal Posto fisso
dell’Ospedale civile Santa Chiara con rapporto n. 868 in
data di ieri, cui sono allegati anche i referti relativi
a lesioni riportate da altre tre persone che
presumibilmente hanno partecipato alla manifestazione
sediziosa e nei cui confronti sono in corso
accertamenti.
Si fa presente altresì che all’arrestato Rondinelli
Giovanni sono state riscontrate dal dott. Giuseppe
Ferrari, medico del Corpo delle guardie di ps da cui è
stato fatto visitare, nella caserma ‘Mameli’ delle
guardie di PS: ‘Contusione escoriata allo zigomo ds’,
giudicata guaribile in gg. 5 s. c. come da allegato
referto.
[…]
Fra le Forze dell’Ordine si lamentano 20 contusi leggeri
nei reparti della ps e n. 2 nei reparti dei Carabinieri.
Sono state rastrellate numerose bottiglie ‘molotov’,
ceste e sacchetti contenenti sassi che erano state
predisposte dai dimostranti per impiegarle contro le
Forze dell’Ordine; detto materiale con separato reperto
sarà depositato presso codesta Cancelleria penale.
Si allegano n. 9 verbali di arresto, significando che
l’arrestata Morelli Morena è stata tradotta al carcere
di Lucca in quanto il locale carcere ha dichiarato di
non poterla ricevete per indisponibilità attuale del
reparto femminile”.
(pp. 60-62)
“Io resto, non mi beccano”
L’ultima persona che vede Franco Serantini prima che
la polizia lo colpisca è Valeria. Lo incontra sul Ponte
di Mezzo, appena lasciato il bar Crott. Sulla città
incombe come una cappa di tragedia, la ragazza ha paura,
corre inquieta verso una casa di amici che abitano poco
lontano. È una bella ragazza alta, dalla faccia limpida,
sovrasta Franco di mezza testa: “Tu vieni via”, gli dice
un po’ imperiosa, un po’ trepida. “Io resto, non mi
beccano”, risponde lui che s’incammina da solo verso la
sua morte, di là dal ponte, poi sulla destra, in
lungarno Gambacorti.
Gruppi di giovani hanno costruito una barricata,
intralciano il traffico, lanciano pietre e bottiglie
molotov. Poi la polizia attacca, gli agenti sembrano
frenetici automi, sparano centinaia di candelotti in
ogni direzione. Il sindaco Lazzari si affaccia a una
finestra del palazzo Gambacorti e grida ai poliziotti di
smetterla di prender di mira il Comune:
“Dissi che ero il sindaco, dissi che era in corso una
riunione di giunta, la responsabilità di ciò che si
stava facendo nel palazzo era mia, che tutto era calmo,
nessuno dall’alto minacciava la polizia. Puntavano le
armi in su, sparavano un candelotto dopo l’altro, davano
l’impressione di essere drogati.
Non è che dessero ascolto alle mie parole, seguitavano a
lanciare candelotti contro le bifore “.
Testimonianza di Italo Fantoni, piazza delle
Vettovaglie: “Ero in lungarno Gambacorti, tra la chiesa
e il comune. Davanti a me c’era un reparto della celere
che stava sparando una gran quantità di bombe
lacrimogene. Ad un certo momento, uno dei celerini che
sembrava un graduato, ha estratto la pistola dal fodero
e ha sparato con il braccio teso verso di noi. Io mi
sono buttato in mezzo a due macchine. I colpi che ho
sentito mi sembrano essere stati quattro”.
Testimonianza di Paola Sgrilli, di Pistoia: “Da un
appartamento di via Toselli ho potuto assistere a questo
episodio. Durante i primissimi momenti succeduti alla
carica sul lungarno Gambacorti, un folto gruppo di
appartenenti alle forze di ps si dirigeva in via
Toselli. Mentre i dimostranti si disperdevano nei vicoli
circostanti, un agente puntava la pistola e sparava
alcuni colpi ad altezza d’uomo. Dopo pochi minuti un
secondo agente sparava a sua volta tre o quattro colpi,
sempre con l’arma puntata ad altezza d’uomo.
Immediatamente dopo ho udito distintamente un graduato
invitare un altro agente a non sprecare le munizioni”.
Una gran nuvola di fumo, di fuoco, di gas lacrimogeni
gonfia il lungarno, dalla fermata dell’Atum verso la
chiesa di Santa Cristina, verso via Toselli, la
piazzetta della Banca Toscana, via Mazzini. Poi, dal
Ponte di Mezzo, poco prima delle otto di sera, avanza
una colonna formata da una quindicina di jeep e di
gipponi, una sessantina di uomini del secondo e terzo
plotone della terza compagnia del i Raggruppamento
celere di Roma.
Che cosa accade a Serantini? Sarebbe bastata una fuga di
pochi passi, mentre la prima jeep abbatte la barricata
costruita con macchine bruciate e tabelloni
pubblicitari. Girato l’angolo di via Mazzini si sarebbe
trovato nella casbah della Nunziatina dove la polizia si
avventura difficilmente e dove si sarebbe salvato,
insieme con i compagni nascosti dietro gli usci, nelle
case, nelle botteghe, con l’aiuto delle donne e degli
uomini del quartiere che hanno fama quarantottesca. Una
volta respinsero la polizia con l’olio bollente fatto
colare dalle finestre. Serantini lo sa, ma immobile e
disarmato, aspetta invece che i poliziotti gli saltino
addosso e lo feriscano a morte.
Testimonianza di Moreno Papini, lungarno Gambacorti 12:
“Erano circa le 20. Io mi trovavo alla finestra di un
appartamento proprio sotto il mio, in lungarno
Gambacorti. Sotto di me c’erano alcune persone. Ho
sentito le sirene delle camionette venire dalla parte
del Comune, mentre la gente scappava verso via Mazzini.
Le camionette sono arrivate e si sono fermate sotto la
casa mia dalla parte delle spallette dell’Arno. Nello
stesso momento stavano arrivando alcuni celerini a
piedi. Allora mi sono sporto dal davanzale della
finestra e ho visto che stavano agguantando uno. Proprio
vicino al marciapiede, esattamente sotto la mia
finestra, una quindicina di celerini gli sono saltati
addosso e hanno cominciato a picchiarlo con una furia
incredibile. Avevano fatto cerchio sopra di lui tanto
che non si vedeva più, ma dai gesti dei celerini si
capiva che dovevano colpirlo sia con le mani che con i
piedi, sia con i calci dei fucili. Ad un tratto alcuni
celerini sono scesi dalle camionette lì davanti, e sono
intervenuti sul gruppo di quelli che picchiavano,
dicendo frasi di questo tipo: “Basta, lo ammazzate!” È
successo un po’ di tafferuglio fra i due gruppi di ps.
Poi uno che sembrava un graduato è entrato nel mezzo e
con un altro celerino lo hanno tirato su. Solo in quel
momento l’ho potuto vedere in faccia, perché teneva la
testa ciondoloni sulla schiena. Aveva i capelli neri,
gonfi e ricciuti e aveva la carnagione scura. Lo hanno
poi trascinato verso le camionette mentre il graduato
gli dava ancora qualche schiaffetto per rianimarlo”.
Verbale di arresto di Serantini Franco firmato dal
commissario di ps Giuseppe Pironomonte: “L’anno
millenovecentosettantadue, addì 5 del mese di Maggio,
alle ore 20,10 in Pisa, lungarno Gambacorti, angolo via
Mazzini. Noi sottoscritti Dr. Pironomonte Giuseppe,
Commissario di P.S. appartenenti alla Questura di Pisa,
diamo atto a chi spetta che nelle suddette circostanze
di tempo e di luogo, durante il servizio di ordine
pubblico, in occasione del comizio tenuto dall’on.
Giuseppe Niccolai del msi, abbiamo proceduto all’arresto
di: Serantini Franco, nato a Cagliari il 16.7.1951, ivi
residente, in atto ricoverato nella casa di rieducazione
di Pisa, perché resosi responsabile di: manifestazione
sediziosa, vilipendio alle forze di polizia e altro. Il
Serantini, infatti, durante la manifestazione, in
occasione di una carica effettuata al fine di respingere
una violenza che i dimostranti effettuavano con lancio
di pietre, bottiglie incendiarie ed altro materiale,
lanciava insulti ai tutori dell’ordine. Di quanto
precede e perché consti, abbiamo redatto il presente
verbale che previa lettura e conferma, sottoscriviamo e
rimettiamo, in uno all’arrestato, ai nostri Superiori
per il di più a praticarsi”.
(pp. 67-70)
Verbale d’interrogatorio dell’imputato Serantini Franco.
A domanda risponde: “Dicono che io abbia lanciato contro
la polizia pietre ed altro materiale incendiario, ma per
la verità non riesco a ricordare”.
Chiesto all’imputato per quale ragione si era recato
ieri sera nel luogo della città dove si verificarono i
tumulti, risponde: “Ci andai perché ci si crede”.
a.d.r. Chiesto all’imputato in che cosa crede, risponde:
“Sono anarchico”.
a.d.r. “Fui arrestato nel corso di una carica, mentre
scappavo. Mi giunsero addosso una decina di poliziotti e
mi colpirono alla testa. Accuso infatti forti dolori al
capo ancora attualmente”.
a.d.r. “Non credo di avere insultato la polizia. Uno dei
poliziotti che mi fermò sostiene che io l’abbia chiamato
‘porco’, ma non credo di averlo fatto, perché non è la
mia frase abituale”,
a.d.r. “Non credo di avere avuto tra le mani ieri sera
pietre o bottiglie incendiarie; anche perché persi gli
occhiali e non sarei stato in grado di lanciarle”.
a.d.r. “Quando mi recai alla manifestazione ieri sera
non ero d’accordo con nessuno; ci andai come ‘cane
sciolto’”.
(p. 73)
La città presente e dolente
Sulla bara è stesa la bandiera anarchica, rossa e
nera. I compagni la portano sulle spalle, sembra che
l’accarezzino con la guancia. Le migliaia di bandiere
del corteo, rosse, rosse e nere, nere con la “A” rossa,
formano come una gigantesca rastrelliera di lance, le
facce sono minacciose, il dolore si mescola alla rabbia.
Il funerale di Franco Serantini, martedi 9 maggio 1972:
un misto di sfacelo e di orgoglio, di tensione e di
consapevolezza che ancora una volta è finita, per uno,
forse per tutti. Ci sono i ragazzi delle manifestazioni,
delle marce, dei sit-in, della protesta, coi giubbotti,
i maglioni, i blue-jeans, le barbe, i berretti cinesi,
ci sono gli anarchici di tutta la Toscana, alcuni, i più
anziani, con i cravattoni neri, ci sono il sindaco, i
deputati della sinistra, i sindacalisti, i comunisti, i
socialisti, i giovani repubblicani.
Una ragazza assorta, che cammina proprio davanti alla
bara, tiene con le due mani un mazzo di gladioli rossi.
I netturbini reggono la loro corona, un’altra corona la
portano i ragazzi del riformatorio. La corona della
giunta comunale è di calle bianche, tenuta alta dai
vigili urbani. I detenuti del Don Bosco hanno inviato
delle margherite, dalla massa di teste spuntano cuscini
di viole, di rose, di garofani.
[…]
Quelli di Lotta Continua sono venuti da piazza San
Silvestro marciando in migliaia attraverso mezza città,
con bandiere tutte uguali, dall’asta di legno chiaro, in
corteo dietro un enorme striscione rosso, teso a pochi
centimetri da terra: Franco rivoluzionario anarchico aSSaSSinato
dalla “giustizia” borghese.
Il funerale si muove dall’obitorio davanti all’Orto
botanico in via Roma. Serantini è rimasto per molte ore
nudo, il suo vestito era stato sequestrato per la
perizia e lui non ne possedeva un altro. Poi è arrivato
un compagno con una giacca, un paio di pantaloni e una
rosa rossa da mettergli sul petto.
La città è partecipe, dolente, il popolo porta fiori, le
donne sostituiscono la madre ignota e piangono il figlio
di nessuno. Il corteo, che svolta nel Campo dei Miracoli
è di una cupa suggestione. Il rosso e il nero delle
bandiere e le migliaia di pugni levati verso il sole
pomeridiano fanno sembrare ancora più candido e immoto
il marmo della cattedrale, della torre, del battistero e
più morbido il verde del prato. C’è un’atmosfera di
attesa solenne, c’è un gran silenzio, rotto dal rullare
dei passi.
“No, non erano funerali regali, erano funerali popolari.
Nulla in essi era ordinato, tutto avveniva
spontaneamente, in modo improvvisato. Erano funerali
anarchici, ecco la loro maestà. Talvolta bizzarri, essi
restano pur sempre grandiosi, di una grandiosità strana
e lugubre” (Barcellona, novembre 1936, i funerali di
Buenaventura Durruti).
[…]
Marciano nel corteo migliaia e migliaia di persone. Tra
loro anche quelli che Franco salutava ogni giorno, su e
giù per il corso Italia e il Borgo Stretto e che ora si
sono ricordati di quel ragazzo col motorino blu.
Pianto da un’intera città come un eroe caduto, il
funerale è l’unico dono che abbia avuto dagli uomini:
quella di Serantini è anche la storia di un giovane che
solo nella disperata morte realizza la sua personalità.
Il corteo imbocca la via Pietrasantina che conduce
diritto al cimitero suburbano. Una strada che Franco
conosceva bene, il bar Vezio, la lavanderia, la
trattoria Buzzino, il passaggio a livello, il cimitero
di macchine, il cimitero vero.
Davanti al camposanto, un vecchio anarchico, Cafiero
Ciuti, dice poche parole commosse. È un ferroviere in
pensione, Ardito del popolo nel ’21, licenziato dai
fascisti nel ’24. Si rivolge a Serantini con semplicità,
come se ci fosse: “Franco, siamo qui. Ti siamo sempre
stati vicini, la tua lotta è stata la nostra lotta”. Poi
intona l’Internazionale e tutti levano il pugno.
Vicino alla fossa parlano un militante di Lotta Continua
e un anarchico del Gruppo Durruti di Firenze. La folla,
poi, se ne va per i viali. Gli anarchici cantano piano
una loro canzone: “Figli dell’officina o figli della
terra già l’ora s’avvicina della più giusta guerra.”
(pp. 85-87)
Corrado Stajano
Ballata per Franco Serantini
Era il sette di maggio, giorno dell'elezioni
e i primi risultati giungon dalle prigioni
C'era un compagno crepato là,
eran vent'anni la sua età ... (2 volte)
Solo due giorni prima parlava Niccolai,
Franco era coi compagni decisi più che mai:
"Cascasse il mondo sulla città,
Quell'assassino non parlerà!" ... (2 volte)
L'avevano arrestato lung'Arno Gambacorti,
Gli sbirri dello Stato lo ammazzano di colpi,
"Rossa marmaglia devi capir,
se scendi in piazza si può morir" ... (2 volte)
E dopo nelle mani di Zanca e di Mallardo,
Continuano quei cani continuano a pestarlo:
"Te le ho promesse sei mesi fa"
Gli dice Zanca senza pietà ... (2 volte)
Rinchiuso come un cane, Franco sta male e muore
Ma arriva alla prigione solo un procuratore:
Domanda a Franco: "Perché eri là?"
"Per un'idea di libertà" ... (2 volte)
Poi tutto a un tratto han fretta, da morto fai
paura
scatta l'operazione, rapida sepoltura:
"È solo un orfano, fallo sparir
nessuno a chiederlo potrà venir" ... (2 volte)
Ma invece è andata male, porci vi siete illusi,
perché al suo funerale tremila pugni chiusi
Eran l'impegno, la volontà
che questa lotta continuerà ... (2 volte)
Era il sette di maggio, giorno dell'elezioni
e i primi risultati giungon dalle prigioni
C'era un compagno crepato là,
eran vent'anni la sua età ... (2 volte)
Le parole di questa canzone sono di Piero
Nissim; è suonata sulle note sella famosa
canzone "Le ultime ore e la decapitazione di
Sante Caserio". Incisa per la prima volta in un
45 giri di Lotta continua a cura del Canzoniere
del Proletariato, diviene ben presto una delle
canzoni più note dedicate a Serantini. Poco
tempo dopo Ivan della Mea incide un'altra
"Ballata per Franco Serantini", seguita nel 1976
da "Il nostro maggio" del Collettivo del
Contropotere nel disco "L'estate dei poveri,
dalla realtà di classe al progetto libertario". |
|