Tratto da: Umanità Nova n. 23 22 giugno 1980 pagg. 4-6
Sartre: potere e libertà
Sartre è stato un acceso critico (nell'ultima parte della sua vita in modo più marcato) delle forme di potere assunte dal capitalismo (inteso in senso classico), e quindi di quell'autoritarismo «del padrone» contro cui si levano da sempre le voci indignate del comunisti di ogni tendenza
Anche quel fenomeno «degenerativo», come molti sostengono (ma da noi comunisti libertari considerato naturale prosieguo di tutta l'impalcatura della dittatura bolscevica), conosciuto sotto il nome di stalinismo, lo ha avuto «fiero» antagonista. Egli si attirò per le sue critiche, ed a più riprese, le ire funeste dei burattini del Partito Comunista Francese, tanto che, ricordando il periodo dei massimi contrasti avuti con costoro, ha sostenuto: «In caso di invasione sovietica della Francia non mi sarei potuto aspettare, nel caso migliore, altro che una deportazione; in quell'epoca venivo definito come un essere spregevole dai giornali legati alI'URSS».
Durante il maggio francese (nel '68) le polemiche col PCF si rinfocolarono. Sopratutto quando Sartre si schierò apertamente contro l'azione delle centrali sindacali riformiste che seguivano le scelte dei dirigenti di quel partito (oltre che di quello socialista).
Egli identificò il ruolo di mediazione fra i lavoratori ed il potere svolto dal PCF; ed in contraddizione con lo stesso che definiva «fascisti» gli studenti (ed anche gli operai che solidarizzavano con loro o che promuovevano scioperi autonomi), sostenne che il fascismo invece è proprio ciò che storicamente si è fatto garante di questa mediazione.
Soventi, in tutta la sua azione a carattere sociale, sono stati i richiami alla necessità di tener conto della morale, intesa come veicolo di elevazione umana contro la grettezza della cecità totalitaria, anche contro i pericoli di un «socialismo» massificante.
Ma è proprio qui che il filo della coerenza sartriana alla causa della libertà a mostrare la corda. Come non vedere delle ombre nel pensiero di quest'uomo quando sostiene, come è accaduto nel corso dell'ultima intervista («Sartre racconta sé stesso», realizzata tre anni or sono e mandata in onda dalla RAI poche settimane fa), che «fu Mao ad estrinsecare la morale del marxismo», e che «i maoisti e quelli a cui fanno riferimento, cioè i cinesi, hanno messo in pratica la morale, inserendola nella politica»? «Questa era sempre stata la mia idea», ha aggiunto.
La «sua idea» della rivoluzione socialista diventa esplicita anche quando, parlando dl Cuba, si trova a sostenere che «all'inizio bisogna dare fiducia alla rivoluzione; dopo, se ci si trova di fronte ad una burocrazia, bisogna contrapporvicisi». Ma di quale tipo di sovvertimento si tratta, e quale deve essere il ruolo dell'intellettuale al suo interno?
Egli afferma: «La disciplina e la critica devono contraddistinguere l'intellettuale: lui è lì per indicare i principi della rivoluzione» «Se sei in un partito, devi rimanerci fino a che puoi farlo».
Come dire che, riaffermata per l'ennesima volta la necessità di una qualche sorta di ruolo dirigente, ascrivibile ad una precisa casta (quella intellettuale appunto), e considerata la presa del potere come momento necessario, il ruolo del «portatore di cultura», del «conoscitore fino» è, e deve rimanere, necessariamente all'interno di tale procedura, accettandone i rischi così come le «regole del gioco» che la caratterizzano.
E questo processo implica comunque l'accettazione acritica (o quasi) di un ben preciso modo di far politica, che, certamente, libertario non è, e che diventa supina, allorquando, quasi per un gioco «di discarico», tendente a liberarsi da indotti (?) sentimenti di colpa, ci si sente in dovere di aggiungere: «io sono sempre stato fedele alla rivoluzione».
Da tutto ciò traspare una concezione integralista (di tipo «Cuba sì yankee no», e nulla più) che non può risultare altro che opposta alla critica dell'alienazione, della quale Sartre si è spesso fatto portatore.
Quando, durante e dopo il '68, Sartre venne contestato, le accuse a lui rivolte non andarono quasi mai, purtroppo, oltre il tentativo di «bollare» la sua figura col titolo di «borghese», in senso lato: perché si esprimeva m termini «elitari», perché era legato a concezioni «moralistiche», ecc. Solo di rado si entrò nel merito del suo essere «moralista» e rivoluzionario In effetti Sartre fu un uomo «in crisi». Però non è nel campo della generica «critica al suo essere borghese» che lo sì può capire, quanto piuttosto nel suo contraddittorio «liberalismo». È qui che si possono rintracciare i suoi slanci più autentici: il rifiuto, ad esempio, di piegarsi a concezioni quali quella del primato della politica sulla letteratura.
Egli riconosceva invece alla letteratura in se, ed anche, e forse soprattutto, a quella non necessariamente «impegnata», una valenza politica. Sosteneva, giustamente peraltro, che un fatto letterario, quale che sia, non potrà mai prescindere dalla «messa in discussione di tutta la realtà, e quindi anche di quella sociale». Poneva così l'accento su di una sorta di «letteratura globale», non «assolutamente politica», o, più propriamente «ideologica», convinto forse implicitamente dell'importanza delle «chiave di lettura», usata per ogni opera. Qual è infatti, in ultima analisi, il criterio odi giudizio usato dei «politici» in campo letterario, se non quello che privilegia soprattutto il «metro» ideologico? E quante «distrazioni» ed «errori» sono a ciò imputabili?
È questo il Sartre «più autonomo», quello che rifiuterà il legame con il PCF ed il suo integralismo (seppur continuando purtroppo a vagare nell'orbita d'attrazione marxista, vittima, e portatore egli stesso dell'idea mistificante dalla «rivoluzione culturale» cinese, propagandata e recepita a torto come avvenimento genuino e veramente liberatorio), e quello che almeno in primo luogo (ma forse proprio perché ha vissuto veramente solo in Francia e non in Cina), non accetterà mai di rinnegare tutto o parte di ciò che ha scritto. Egli ha detto di aver sempre aderito alla massima cartesiana «io penso, dunque sono», e che questo non gli sarebbe stato possibile ribadirlo, se avesse aderito nel dopoguerra al PCF.
Tuttavia però le sue critiche sono rimaste sterili (cioè prive di vera forza dirompente verso la «forma potere»), perché inficiate soprattutto di una conoscenza solo «relativa» di molto di ciò che è esistito al di la «dei grossi fatti di costume, politici, organizzativi»; mosse da una condizione che gli ha impedito forse di scrollarsi di dosso i paraocchi di quella che può essere definita «la conoscenza imposta» della «società» dominata, ed il relativo conformismo, anche «culturale», che ne pervade tutti i settori. Nel tempo egli subisce prima, e sostiene poi, la propaganda e l'egemonia di stampo marxista soprattutto nel campo della cultura, diventando di fatto lui stesso un prodotto «di riflesso» di quel paradigma dispregiativo coniato dal marx-leninismo per definire l'intellettuale «non allineato» come «piccolo borghese». Rimane così vincolato, pur esprimendo concezioni «rivoluzionarie», alla paura di criticare «troppo» la forma-base del «partito guida».
In quanto responsabile di un potere (quello culturale) acquisito naturalmente a spese dagli sfruttati, (cosa che gli viene di sovente rinfacciata nel corso della vita e con abilità, nell'ambita della chiesa marxista, che fa anche della propria presunta scientificità una preziosa arma di ricatto morale), è portato ad identificare nel partito il proletariato, ed è proprio il partito che, fattosi garante della sua «purezza» di fronte «agli operai», e venutosi a trovare in posizione di privilegio nei suoi confronti, ne determina e condiziona ogni «direzione politica», sempre pronto a correggere poi qualunque eventuale deviazione «non ortodossa», nell'ambito di una collaudata prassi tendente soprattutto a farsi riconoscere come arbitro supremo, o perlomeno come parte sempre in causa, alla quale sia doveroso dare delle spiegazioni.
Ed avendo acquisito la «nozione» dall'essere «in linea», ma essenzialmente un concetto distorto sul significato della «scelta di campo» rivoluzionaria, si fissa, internamente al suo pensiero, il bisogno indotto della riproduzione di schemi manichei e della loro ricerca ed accettazione, parallelamente alla fede nell'autorità (potere) e nell'autoritarismo come necessario (sic!) veicolo di liberazione. Ecco perché nel momento in cui un partito sarà morto nella sua coscienza, egli se ne cercherà un altro.
Passato dalla condizione dl «uomo di lettere» non militante politico, sotto il peso della battaglia condotta contro di lui dai «filosofi», «poeti», «scrittori» di partito, che cercano di denigrarlo per quella sua certa «indipendenza critica» a loro fastidiosa, Sartre decide finalmente dl calarsi a pie' pari nella lotta «politica», ma proprio per via del fardello raccolto precedentemente nell'essere «sì e no impegnato», «contro ma non troppo» (infatti fino a quando non aderirà all'organizzazione maoista, il suo sarà un continuo «allacciarsi-distaccarsi» dai suoi «compagni di strada», in una sequela di colpi poi smussati, di attacchi così come di «comprensione» verso il partito) si sentirà in obbligo di rimanere in «posizione d'apertura», e a ben vedere anzi d'adesione, verso la forma piramidale-verticistica, condannando tutte le sue aspirazioni demitizzatrici rivolte in precedenza contro «gli dei in cielo così come in terra» ad un ruolo secondario. Come ci si può spiegare infatti il passaggio dalla condanna di Stalin all'adesione ad una frangia che invece ne conserva un buon ricordo e che nelle manifestazione ne porta addirittura a spasso le effigi?
Nonostante tutto ciò egli comunque non si vorrà mai «liberare» da quella «colpevole» (per gli operaiolatri) visione «delle masse» (cosa che forse può però consentirci di ricollocarlo, per un momento, nella sua primigenesi intellettuale «piccolo borghese», per riusare un cifrario non nostro) che lo caratterizza, della quale pare trasparire uno spirito negativo, di sfiducia in esse; cosa che, anche posto possa avere delle «giustificazioni», sfocia purtroppo in seguito, e come abbiamo visto, nell'adesione ad una idea-movimento «d'avanguardia», tipica dell'Intellettuale con la I maiuscola, anche se poi egli critica «i borghesi che vogliono instaurare forme di dittatura».
Tutto questo è indubbiamente contraddittorio, e vi si ravvisano i sintomi di una certa povertà interpretativa nel campo politico: cosa, se non quel colpevole conformismo politico-culturale al quale si accennava prima, può portarne la responsabilità? Responsabilità anche di aver condannato completamente l'esistenzialismo (quasi un suo prodotto) ad una spese di normalizzazione bolscevica. Ad un intervistatore che osservava come mai, gli esistenzialisti, invece che (figuriamoci)) ai trotskisti, si siano avvicinati di più ai maoisti, Sartre rispose acriticamente: «ecco, questo dimostra il perché della mia propensione per questi ultimi». E accennando al suo «recente» impegno militante fra i filo-cinesi, ebbe a dire: «ora sono arrivato a collocare la morale all'interno dell'azione politica delle masse». Una morale che una volta accettata, come abbiamo avuto modo di verificare storicamente, condanna i suoi neofiti, chiusi in una sorta di immobilismo esistenziale, a pendere dalle labbra del «grande leader» di turno, in adorazione dei sacri crismi, e che porta necessariamente con sé l'universo del peccato e della schiavitù.
Ma vediamo di approfondire ulteriormente il discorso sartriano sugli intellettuali. «Vi è un tipo classico d'intellettuale (quello che tutti abbiamo conosciuto, quelli che ci hanno plasmato) che fa parte dei lavoratori specialisti del sapere... coloro che organizzano dei settori d'intervento a partire dal sapere scientifico. Oggettivamente questi si trova su un piano di servizio, per esempio nei confronti del PCF, così come uno scienziato che progetta le armi serve gli USA: egli lo fa per gli Stati Uniti, ma adopera un sapere universale». «L'intellettuale classico si trova di fronte ad una contraddizione: egli ha una coscienza infelice, scopre verità sempre più universali (egli crede), ed arriva quindi a denunciare la politica del borghesi. Ma lo fa essenzialmente firmando petizioni, e messa a posto la coscienza, e visto che non può dirsi contento della propria situazione, si soddisfa della sua propria infelicità». «Dopo il '68, il «Movimento» ha contestato il «sapere è potere» dei professori, denunciando il sapere di casta e tendendo a far si che si diffondesse... Ma era una denuncia contro l'intellettuale classico. Ciò non andava bene a costoro, che invece godono della loro posizione, perché avrebbero dovuto denunciare sé stessi, e rifiutando il proprio ruolo particolare, mettersi dalla parte delle masse». «In una società socialista non esistono intellettuali... È possibile che un intellettuale serva le masse; vada in una città e abbandoni i suoi studi per diventare operaio fra gli operai. I comunisti (PCF) non hanno mai accettato di calare gli intellettuali fra le masse. Gli intellettuali invece devono capire quali sono i desideri e le contraddizioni delle masse e servirla».
Ed è così che, proseguendo la linea interpretativa di poco innanzi, ritroviamo quel Sartre che non si rende conto pianamente che, anche all'interno di qual famoso «movimento del '68» che tanto lo ha (e ci ha) colpito, erano presenti delle forme riproponenti una divisione meritocratico-gerarchica che, seppur funzionali all'abbattimento di un certo potere, di una certa borghesia, potevano e volevano sfociare peli acquisizione, fatta propria, di una «condizione differente» valida soprattutto per sé medesime; e che, perciò, non prova neanche, nelle sue analisi, a stigmatizzare l'aleatorietà di certi slogan, tanto semplicistici quanto inconsistenti, non comprendendo la simile valenza dl termini fra vecchia e «nuova» sinistra marxista.
II suo discorso rimane in realtà finalizzato a «servire» il marxismo, tramite la costruzione (sulla linea del Mao-pensiero) di salti demagogici, per mezzo dei quali, parlando di umili intellettuali contenti che vivono ad umanizzare quella che resta di fatto una gerarchia operante per la massificazione e per la propria dirigenza, e si possa riuscire a fare concepire ed accettare «alle masse» appunto, l'assurda idea «utopica» che contempla la possibilità dell'esistenza di «uno stato senza alienazione».
È uno dei tentativi, che si susseguono a ripetizione ormai, di far rinverdire l'albero rinsecchito del leninismo: di fronte alla inequivocabilità di un fallimento ormai manifesto si buttano sull'altro piatto della bilancia delle belle parole, più o meno condite per gli allocchi, parole che sappiano far dimenticare la carenza assoluta di ogni seppur minimo tentativo di parte marxista di rivedere criticamente e rianalizzare seriamente il proprio tessuto fondamentale alla ricerca di qualche correttivo radicale che possa essere in grado, al di là della demagogia di fondo che la anima, di rendere questa teoria autoritaria agibile alla funzione politica che dice di voler assolvere per la causa della libertà.
Le velleità di Sartre quindi sono state, come quelle di tanti altri, rivolte contro il «revisionismo» per accettare però la forma del centralismo e quella della politica autoritaria, contro l'intellettuale classico ed a favore di un intellettuale che vada fra le masse... ma cha resti un dirigente, essere a sé che necessita però di una specie di tirocinio per diventare più «democratica», e infine, come si intitola la sua ultima opera, per l'impossibile equazione «potere e libertà». Tutte «verità» massimaliste, carenti di correttivi e di un'impalcatura possibile per una libertà plausibile.
Stefano Fabbri d'Errico