Il dubbio di Santarelli
di Mirko Roberti
La storiografia dell'anarchismo - 1
Secondo lo storico comunista si pone addirittura la questione della
legittimità di una storia dell'anarchismo - L'opinione di Cerrito -
Passionale ed illuministica: le due anime dell'anarchismo
nell'interpretazione di Joll - Le contraddizioni di Woodcock.
Numerose e contraddittorie sono le interpretazioni che della teoria e del movimento anarchico sono state date dalle varie correnti della storiografia. Un dato negativo, comunque, sembra accomunarla - salvo qualche singola eccezione: ed è il tentativo di negare all'anarchismo qualsiasi sua dignità ed autonomia rispetto alle altre correnti di pensiero, considerandolo niente più che l'espressione "ideologica" di situazioni arretrate e di menti immature.
Un esame attento e critico delle principali tendenze della storiografia sull'anarchismo viene effettuato dal nostro collaboratore Mirko Roberti nel suo breve saggio, di cui pubblichiamo qui di seguito la prima "puntata"; le due successive appariranno sui prossimi due numeri della rivista. In ogni puntata il saggio affronta la posizione assunta da alcuni storici nei confronti dell'anarchismo: è questa la volta di James Joll, Leo Valiani e George Woodcock.
"Si pone, innanzitutto, la questione della legittimità di una storia dell'anarchismo. È possibile concepire la storia di un'idea e di un movimento che negano in forme utopistiche e la società capitalistica, e, dopo il 1917, anche la nuova società socialista?" (1). Così Enzo Santarelli ha riassunto recentemente la problematica inerente alla storiografia dell'anarchismo, storiografia che generalmente, a parte quella di indirizzo libertario, tende a negare una autonomia storica al movimento anarchico, la cui nascita ed esistenza sono sempre viste concomitanti al sorgere e all'affermarsi di fenomeni che alla lunga lo esautorano.
All'interrogativo di Santarelli ha in un certo senso risposto Gino Cerrito il quale ha scritto che se "consideriamo la storia come una partita sempre aperta, non possiamo respingere pregiudizialmente la 'negazione' anarchica" perché se "il valutare l'anarchismo sulla base della manifestazione immediata e clamorosa del 'partito' semplifica notevolmente il compito dello studioso, (d'altra parte) non rispecchia affatto la caratteristica di universalità tutta particolare della (sua) idea" (2).
La contraddittorietà di questi due giudizi, ispirati ideologicamente da opposte posizioni, conferma la complessità effettiva della storiografia dell'anarchismo (3) che, nel riflettere il ventaglio delle posizioni ideologiche degli studiosi - qui in alcuni casi estremamente "pesanti" - suscita oggi nuovi dubbi all'insieme delle certezze che hanno fino a poco tempo fa presieduto ai vari giudizi globali di esso, definito come movimento conchiuso e circoscrivibile ad una fase storica precisa. Da qui l'urgenza di un riesame di alcune interpretazioni di fondo che hanno impresso indirizzi precisi non solo al modo di intendere lo sviluppo storico del movimento libertario, ma anche, evidentemente, al modo di intendere l'evoluzione del movimento operaio e socialista, di cui l'anarchismo è parte integrante.
Il nostro proposito è quindi quello di fare un primo bilancio di queste posizioni alla luce dei nodi fondamentali della storia del movimento anarchico, tenendo presente che uno studio sull'anarchismo si presenta sempre estremamente complesso e difficile soprattutto per la insufficienza e la inorganicità delle fonti.
Per tutto questo si impone una iniziale disamina critica tendente a fissare le valutazioni generali più importanti che gli studiosi hanno formulato intorno alla realtà storica dell'anarchismo. Pensiamo così di operare un duplice confronto tra il significato ad essa sottinteso e le interpretazioni - a loro volta confrontate - proprie delle analisi in oggetto, cioè un confronto che sia allo stesso tempo storiografico e ideologico. Sebbene esso si delinei come un approccio ad una serie eterogenea di giudizi assunti a criteri assoluti di interpretazione - con la conseguenza di una discontinuità predominante del discorso - cercheremo nondimeno di rapportarci a questi temi centrali che possono avere una capacità comprensiva di sintesi e di unificazione. Per questo la scelta cade qui non su un criterio cronologico delle opere in esame, bensì un criterio relativo alla loro ispirazione interpretativa di fondo.
Un'opera per certi versi riassuntiva di alcune interpretazioni storiche è quella di James Joll (4). La sua impostazione storiografica ruota attorno al presupposto che la storia dell'anarchismo sia percorsa da due fondamentali correnti che costituiscono le due facce di una stessa medaglia. Da una parte la dimensione passionale, rivoluzionaria e mitico-millenaristica, dall'altra quella nazionale, illuminata e utopistico-pacifista (5). La prima tendenza ripete le sue origini dai movimenti ereticali concomitanti al fiorire della Riforma, perché presentano alcune caratteristiche che diverranno poi palesi nel successivo movimento anarchico, e cioè il rifiuto del mondo presente e il disprezzo verso i suoi valori (6); le origini dell'altra tendenza, invece, si rintracciano nell'humus culturale dell'illuminismo nel cui ambito si coltiva il culto della ragione e dei grandi disegni utopistico-riformatori (7).
L'individuazione di questi due "filoni" porta Joll a porre sullo stesso piano la Rivoluzione francese e il successivo "socialismo utopistico", nel senso che essi sono altri elementi fondamentali che concorrono alla formazione dell'anarchismo come dottrina ed azione. Ancora una volta il primo elemento, cioè il mito dell'89 rappresenta l'anima attivistica, rivoluzionaria e catastrofica dell'anarchismo - e a questo proposito egli cita quali precursori Babeuf, Buonarroti, Marat, ecc. - mentre il secondo, vale adire il "socialismo utopistico", con Fourier, Owen e Saint-Simon esprime una anticipazione parziale dello spirito costruttivistico, ragionevole e positivo dell'anarchismo. Si può dire con Joll che "se ciò che spinge alcuni ad abbracciare l'anarchia è un temperamento religioso, eretico, molte delle loro idee derivano, come quasi tutti gli altri sistemi di pensiero politico moderni, dai philosophes del Settecento". Così fra la tensione millenaristica e quella razionale, la fede e la ragione, l'anarchismo prepara le sue successive ineliminabili contraddizioni.
Ora, anche se l'accostamento da lui operato fra alcuni autori sopra accennati è l'anarchismo, al fine di rintracciare la genesi di quest'ultimo, appare molto discutibile (8), ciò nondimeno ci sembra che egli abbia colto un elemento fondamentale della posizione libertaria rispetto al processo storico. Questo atteggiamento sostanzialmente ambivalente, continuamente in bilico fra "estremismo" e "ragionevolezza", spiega la contemporanea presenza, all'interno dell'anarchismo, delle due dimensioni rispettivamente antistoricistiche ed evoluzioniste che si ripresentano quasi ciclicamente nella sua storia. Antistoricistiche nel senso di una rottura totale fra processo storico e volontà rivoluzionaria, tesa a piegare e a indirizzare la storia ai fini di un deliberato e consapevole progetto sociale, evoluzionistiche nel senso che la stessa storia è vista come naturale ed indefinito svolgimento di forme sociali sempre più indirizzate e "deterministicamente" concentriche verso l'anarchia.
Le due "anime" dell'anarchismo si ripresentano dunque per intero in tutto il corso del suo sviluppo. Per esempio la teoria e la prassi proudhoniana le riassume entrambe completamente, e in questa combattuta sintesi Proudhon appare come l'autore anarchico più contraddittorio, mentre Bakunin è collocato nel campo estremistico-rivoluzionario, al contrario di Kropotkin situato invece in quello pacifistico e illuministico. Comunque, per Joll, questi stessi autori non si possono considerare appartenenti per intero all'uno o all'altro aspetto dell'anarchismo. La distinzione va più vista a grandi linee e in prospettiva, perché l'ideologia anarchica è "insieme una credenza religiosa e una dottrina razionale". La divisione fra "santi e ribelli", cioè fra pacifisti teorici e pazzi dinamitardi, si accentua comunque alla fine del secolo scorso e il movimento che maggiormente esprime questa frattura, sia in quel periodo che dopo, è quello spagnolo che riassume "la violenza selvaggia e la nobiltà, la visione apocalittica e la convinzione razionalista degli anarchici".
Alla fine, però, l'interpretazione di Joll più che basarsi su una ricostruzione stessa si basa, a nostro giudizio, su una tipologia sociologica dove la ripetitività di alcuni schemi risulta sempre più sclerotizzata rispetto ad un'effettiva comprensione del mutamento e dello sviluppo dinamico dell'anarchismo. Certo, esso ha dei caratteri "forti" ed "estremi" che tentano lo storico ad una descrizione colorita, però il suo compito sta nell'individuarli senza estrapolarli dal loro contesto particolare. La genericità di alcune interpretazioni come, per esempio, quella relativa a Sorel, risulta evidente qualora si pensi che questi viene accostato ad "un certo tipo di temperamento anarchico" solo per il carattere "estremo" della sua predicazione violenta dello sciopero generale anche se, subito dopo, scrive che forse bisognerebbe ricordarlo più come anticipatore di Mussolini, Hitler, Pétain e Franco).
La tendenza a vedere l'anarchismo solo come espressione estrema della lotta di classe o, comunque, come espressione estrema generica di ogni forma di rivolta individuale collettiva, conduce Joll, come altri storici, a restringere alquanto il campo sociale congeniale per una sua esauriente e completa individuazione. Ne è un esempio il modo in cui egli valuta l'esperienza storica dell'anarcosindacalismo. Anch'esso viene inserito in quello schema sociologico già usato per distinguere, all'interno del movimento anarchico, l'aspetto "mitico" da quello "razionale". In questo caso esso rientra nella prima corrente e pertanto la sua teoria e la sua prassi vengono valutati come elementi "mitici", più che come pratica "normale" della lotta di classe. Il risultato di questa impostazione che presenta necessariamente l'anarchismo come un credo di "tutto o nulla" è constatabile nella sottovalutazione di quei movimenti anarcosindacalisti che non presentano tali caratteristiche. Joll infatti non fa nessun cenno all'Internazionale anarcosindacalista fondata a Berlino nel 1922 o all'USI, proprio perché tali organizzazioni con le loro istanze non rientrano nel suo schema alternativo e forse, nel quadro di una storia prevalentemente di valore, con la loro teoria e la loro pratica non sono "appetibili" dal punto di vista di una descrizione "colorita".
Presentando l'anarchismo come un movimento necessariamente ed esclusivamente "estremistico", capace di esprimersi solo in situazioni storiche estremamente "tese" della lotta sociale, se da una parte ha permesso a Joll di cogliere la dimensione rivoluzionaria del movimento libertario, dall'altra gli ha però precluso la possibilità di cogliere la presenza anarchica all'interno di molteplici esperienze libertarie che "ufficialmente" non si presentano tali. In definitiva il suo giudizio storico rimane sostanzialmente fissato in un'immagine dell'anarchismo comune a buona parte della storiografia contemporanea, l'abbinamento, cioè, tra libertarismo e arretratezza socioeconomica. A conclusione del suo lavoro egli scrive infatti "gli anarchici concordano nel supporre che nella nuova società regneranno una semplicità e una frugalità estreme, e gli uomini saranno ben lieti di disfarsi delle conquiste tecniche dell'era industriale, il loro pensiero sembra spesso poggiare sulla visione romantica e tradizionalista di una perpetua società idealizzata di artigiani e contadini, e sulla condanna irrevocabile dell'organizzazione sociale ed economica contemporanea" (9).
Le due "anime" dell'anarchismo, le ritroviamo, in un certo senso, anche nella concezione di Leo Valiani. Anch'egli individua due grossi "filoni" all'interno dell'anarchismo i cui esponenti del primo sono Godwin e Proudhon, teorici di una "rivoluzione sociale pacifica", mentre il rappresentante massimo della seconda si può vedere in Bakunin, teorizzatore ad oltranza della violenza rivoluzionaria sempre carica tuttavia di "un contenuto etico" (10). La prima si caratterizza come ricostruzione della società a partire dalle condizioni storicamente date; la seconda, invece, come distruzione radicale di tali condizioni.
Valiani però non saluta la storia dell'anarchismo solo con questo schema, né si limita a rintracciare i caratteri "estremi" e "mitici" della sua predicazione e della sua prassi, ma individua e spiega il preciso contesto storico e congeniale alla sua nascita e al suo sviluppo. L'anarchismo nasce verso la fine del Settecento, nell'onda della Rivoluzione francese al cui interno si formano le prime correnti decisamente radicali e libertarie. La sua presenza successiva parte soprattutto nei paesi latini (che hanno subito più di tutti l'influenza di tale rivoluzione), va spiegata partendo dalla constatazione che in tali paesi le forze popolari sono rappresentate da partiti di ispirazione giacobina e democratica. In tale contesto per sottrarre le masse popolari a questa influenza che in ultima analisi è sempre "borghese", occorre portare la lotta sul terreno del rifiuto totale dell'azione politica, unico modo con il quale il movimento nazionalista può trovare una "forma pratica di differenziazione intransigente" (11).
In questo modo Valiani spiega il rifiuto anarchico dell'azione politica, rifiuto che costituisce uno dei suoi caratteri storici e ideologici fondamentali. La genesi dell'anarchismo, legata a questa particolare congiuntura storica, non condiziona la sua successiva estrema coerenza pratica e teorica tesa a perseguire il suo scopo supremo anche se il prezzo pagato è, rispetto per esempio al marxismo, una "minore efficacia d'azione". La tesi della storiografia marxista, che vede nell'anarchismo un movimento piccolo-borghese, è qui rifiutata perché insufficiente a spiegare l'uguale lotta che gli anarchici perseguiranno sia rispetto al potere capitalista, sia rispetto a quello bolscevico, contrastato quest'ultimo da un'autentica "opposizione operaia e contadina".
Se Joll ha individuato nella compresenza dell'aspetto razionale con quello della fede la caratteristica strutturale dell'anarchismo, per cui la sua storia scorre continuamente fra due poli, Woodcock invece lo vede come quel movimento che allo sviluppo storico verso l'accentramento, la pianificazione e l'estensione totalitaria dei poteri, contrappone e lotta per una concezione "naturalistica" della società. Le sue origini scaturiscono dalla dissoluzione della società medievale per poi precisarsi meglio all'interno delle correnti libertarie della Rivoluzione francese (12). L'estrema varietà dei suoi "punti di partenza" condiziona il suo successivo sviluppo sempre caratterizzato da una fluidità teorica e storica permanente nel senso che come dottrina cambia continuamente; come movimento cresce e si disintegra in fluttuazione costante, Questa eterogeneità genetica spiega in parte anche lo spettro delle tendenze anarchiche che vanno dall'individualismo al comunismo.
Esse trovano però alcuni punti in comune i più importanti dei quali sono il "rifiuto di ogni dogma e di ogni teoria rigidamente sistematica" e la "concezione naturalistica della società". Così se si può rilevare in Joll una lettura dell'atteggiamento antistoricistico dell'anarchismo attraverso l'individuazione delle sue componenti mitiche, estremistiche e catastrofiche, in Woodcock, invece, tale lettura si può ritrovare, per un altro verso, nel risalto che egli dà al rifiuto anarchico del progresso tecnico moderno in nome, per l'appunto, di una visione "naturalistica" dell'uomo e della società. L'anarchismo pertanto si precisa come rifiuto globale della società storica e delle sue istituzioni positive.
L'alternativa radicale posta da Woodcock, fra società storica e società naturale, comporta una visione dell'anarchismo come movimento di diseredati, di "elementi respinti al margine della storia del progresso materiale del diciannovesimo secolo". Ecco dunque che anche Woodcock come Joll finisce per accentuare l'aspetto "millenaristico" dell'anarchismo, sottovalutandone la presenza nella lotta sociale delle classi operaie dei paesi industrialmente avanzati.
Le implicazioni strategiche della concezione "naturalistica", infatti, sono date dalla predilezione anarchica verso le masse rurali e in genere per le classi sociali rimaste fuori del mondo industriale. I ceti contadini diventano dunque il referente specifico dell'azione libertaria in virtù anche dell'ispirazione fortemente etica dell'ideologia anarchica, tendente ad affermare la fede "nelle virtù di una vita semplice". A questo proposito per riconfermare la fondamentale dimensione antistorica dell'anarchismo egli afferma, giustamente, che il vero progresso per questo movimento si specifica innanzitutto come "abolizione dell'autorità, dell'ineguaglianza, dello sfruttamento". L'anarchismo quindi si presenta come alternativa radicale al progresso storico segnato dall'involuzione autoritaria, al fine di indirizzarne il suo sviluppo secondo una logica prima di tutto etica e umanitaria. Essa si precisa nella coerenza fra i mezzi usati e i fini perseguiti, nel senso che tale logica non può concepire al lotta parlamentare e legalitaria sfociando nella conquista del potere politico per la costruzione di un nuovo Stato. La concezione naturalistica, però, se da una parte è il fondamento dell'antistoricismo anarchico, nel senso che per l'anarchismo la storia può procedere dall'esercizio della volontà umana spinta dal perenne bisogno di libertà, dall'altra questa stessa concezione può portare, paradossalmente, a conclusioni deterministiche in evidente contraddizione con l'idea fondamentalmente libertaria dell'azione individuale (13).
Come molti storici dell'anarchismo anche Woodcock divide nel suo lavoro la dottrina dalla pratica. Mentre nella prima egli analizza il pensiero di Godwin, Stirner, Proudhon, Bakunin, Kropotkin e Tolstoi considerati evidentemente i massimi teorici, nello svolgimento della seconda egli esamina l'attività concreta così come si è espressa sia a livello internazionale che nei singoli paesi. Il rapporto fra questi due aspetti risulta quindi poco articolato nel senso che più che essere la prassi una conferma della teoria e viceversa, ne risulta quasi un rapporto gerarchico fra vertice e base, fra legislazione e esecuzione. Questa divisione fra pensiero ed azione, al fine forse di rendere più ordinato il lavoro, non contribuisce però a far risaltare proprio uno dei caratteri storici fondamentali dell'anarchismo, cioè l'intreccio indissolubile fra pratica e ideologia.
Il fondamentale carattere internazionalista dell'anarchismo è invece pienamente colto da Woodcock il quale scrive "L'anarchia fu internazionale nella teoria e in larga misura nella pratica, sebbene lo fosse solo sporadicamente sul piano organizzativo". Questa insufficienza rilevata da Woodcock in realtà fa riferimento puù che altro al piano istituzionale, nel senso che la periodizzazione delle iniziative internazionalistiche proposte nel suo libro riguarda i momenti dei congressi e dei collegamenti "ufficiali" e non le vere attività pratiche che purtroppo, a questo proposito, sebbene pressochè continue fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, sono poco documentabili.
Comunque, a parte la valutazione del rapporto fra pratica e teoria, l'interpretazione del pensiero e dell'azione degli autori sopra citati si presenta sostanzialmente equilibrata anche se in alcuni punti discutibile. Godwin e Stirner definiti rispettivamente l'uomo della ragione e l'egoista non inflkuenzarono il movimento anarchico, ewgli scrive giustamente, che in modo superficiale e comunque dopo che esso aveva già una sua caratteristica storica, mentre invece si riconosce nel movimento operaio e libertario non solo francese, la netta inluenza di Proudhon, definito come l'uomo del paradosso. Sebbene ritenuto il vero fondatore del movimento anarchico Bakunin, invece, è sottovalutato da Woodcock come teorico. Presentandolo infatti come eroe romantico divorato soprattutto da una febbre d'azione accesa perennemente da un umpulso distruttivo, Woodcock ci dà un'immagine sbiadita della sua importanza come pensatore (lo stesso discorso, in un certo senso, vale anche per Malatesta considerato da Woodcock - come del resto da quasi tutti gli storici - solo mero propagandista e uomo d'azione). Gli altri due russi, cioè Kropotkin e Tolstoi, sono valutati per la loro effettiva influenza e per l'importanza considerevole dei loro scritti e del loro esempio. A questo proposito si può notare ancora una volta che il ccriterio seguito per inserire il grande romanziere fra la schiera di teorici anarchici conferma quello generale. A suo giudizio, evidentemente, la forte concezione naturalistica della vita, propria di Tolstoi, è predominante ai fini di tale scelta, rispetto al fatto concreto che egli fosse anche un uomo profondamente religioso.
Mirko Roberti
(1 - continua)
(1) E. SANTARELLI, Il socialismo anarchico in Italia, Milano, 1973, p. 20
(2) G. CERRITO, Sull'anarchismo contemporaneo, in E. MALATESTA, Scritti scelti, Roma 1971, pp. 21-22.
(3) Per una generale e ragionata bibliografia dell'anarchismo rimandiamo a G. CERRITO, Il movimento anarchico internazionale nella sua struttura attuale, in AA. VV., Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, Torino, 1971, pp.127-207.
(4) J. JOLL, Gli anarchici, Milano, 1970.
(5) Questa interpretazione, come vedremo più avanti esaminando la storiografia del movimento anarchico spagnolo ricalca la nota tesi di Gerald Brenan sul libertarismo iberico. Cfr. G. BRENAN, Storia della Spagna 1874-1936, Torino, 1970, pp. 128-192.
(6) Questo giudizio è comune a buona parte di quella storiografia che considera l'anarchismo come puro "émentisme". Cfr., per esempio, R. MANEVY-P. DIOLE, Sous le plis du drapeau noir, Paris, 1949, pp. 11-12; J. SERVIER, Anarchismo, utopismo, millenarismo, in AA. VV., Anarchismo vecchio e nuovo, Firenze, 1971, p. 89.
(7) J. JOLL, Gli anarchici..., pp. 27-41.
(8) Basti pensare per esempio alla differenza sostanziale fra il comunismo accentratore di un Babeuf e quello libero di un Kropotkin, o alla concezione meritocratica sansimoniana rispetto all'egualitarismo di Bakunin. Gli stessi teorici anarchici hanno rifiutato questo accostamento. Cfr., fra i tanti. P. KROPOTKIN, La Grande Rivoluzione, Ginevra, 1911 (per quanto riguarda Buonarroti, Babeuf ecc.) e ID, La scienza moderna e l'anarchia, Ginevra, 1913, p. 76 (per quanto riguarda Sant-Simon).
(9) Ibid., p. 360. A fronte di questa tesi vi è la contraria interpretazione del sociologo e urbanista Lewis Mumford che mette in rilievo per esempio la complessa e raffinata concezione Kropotkiniana della tecnologia. Cfr. L. MUMFORD, La città nella storia. Milano, 1964, pp. 639-640. Sulla stessa traccia si pone anche il giudizio di C. DOGLIO, L'equivoco della città giardino, Napoli, 1943, pp. 33-43.
(10) L. VALIANI, La genesi dell'anarchismo, in AA. VV., Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, Torino, 1971, pp. 23 e 26.
(11) L. VALIANI, Considerazioni su anarchismo e marxismo in Italia e in Europa dopo la Conferenza di Rimini, in AA. VV., Anarchismo e socialismo in Italia (1872-1892), Roma, 1973, p. 146.
(12) Woodcock prende qui l'occasione per polemizzare con la storiografia anarchica che tende a vedere le origini dell'anarchismo sin dai tempi antichi. Cfr. G. WOODCOCK, L'anarchia. Storia delle ideee e dei movimenti libertari, Milano, 1966, p. 33.
(13) Ibid., p. 60. Qui Woodcock mette giiustamente in rilievo alcune conseguenze teoriche di questa impostazione anche se invece di imputarle a Goodwin, come egli fa, andrebbero forse imputate soprattutto a Kropotkin.