Risorse,
profitti, sviluppo Il mondo
come risorsa
Il modello economico corrente
è teso all’incremento della quantità delle merci e per
suo mezzo all’aumento dei profitti. L’incremento della
quantità delle merci è raggiunto attraverso l’aumento
dei consumi e l’ampliamento geografico della
distribuzione delle merci. Per permettere l’aumento dei
consumi si inventano prodotti non necessari, si inducono
bisogni, si soddisfano desideri indotti. Per permettere
l’ampliamento del bacino di utilizzatori si occupano,
attraverso il controllo culturale, politico e spesso
militare, interi territori in cui si introducono merci
che impegnano parte della disponibilità economica delle
popolazioni interessate anche nei casi in cui essa sia
molto ridotta.
Il mezzo principale dell’espansione è comunque quello di
creare merci ed il modello interpreta l’intero pianeta e
la popolazione che in esso risiede come la principale
potenzialità di trarre profitti.
Gli oggetti, le persone, i fenomeni sono visti
esclusivamente dall’ottica merceologica; perdono senso i
valori ambientali, sociali, antropologici, culturali ed
assumono valore esclusivamente nella capacità di
produrre profitti.
Così il valore di un albero non è quello di fare ombra,
di trattenere le acque, di produrre ossigeno, di
mantenere il ricordo di persone e fatti, di essere punto
di riferimento del territorio, di costituire segno
caratterizzante di una comunità, di rappresentare il
senso e la modalità di relazione tra comunità e ambiente
ma è solo, ed esclusivamente, connesso alla sua capacità
di produrre profitti e quindi di essere merce.
Con questa premessa tutto il pianeta diviene una
risorsa.
La trasformazione della risorsa
Il concetto di risorsa, nel modello economico
corrente, esprime la potenzialità degli oggetti di
divenire merce e dunque di produrre profitto, ma per
fare questo essi debbono essere trasformati.
Una sorgente, ad esempio, ha potenzialità di risorsa non
in quanto è utilizzata autonomamente dalla società
locale, ma in quanto garantisce profitti in una
utilizzazione più estesa e mediata dalla produzione,
distribuzione, commercializzazione.
Nella quasi totalità dei casi l’individuazione della
risorsa è connessa ad una trasformazione delle modalità
di utilizzazione o dello spazio fisico ad essa connesso.
L’oggetto sorgente, la presenza delle acque sul
territorio, la capacità di mantenere sistemi naturali e
paesaggistici non hanno alcun valore e non è data la
possibilità di essere alla sorgente se non quella di
essere risorsa e quindi captata attraverso un acquedotto
per servire popolazioni distanti, imbottigliata per
essere venduta, utilizzata dall’agricoltura.
In un ottica di ricerca di massima utilizzazione di
tutti gli oggetti in forma di merci nel modello
economico vigente si trasforma tutto. Tutto può divenire
oggetto di interesse, su tutto e con tutto si può fare
profitto.
Anche nel caso che si volesse conservare la sorgente, il
criterio sarebbe quello di vincolarla: diverrebbe area
protetta e quindi di fatto se ne cambierebbe la
percezione: diviene luogo di fruizione dell’ambiente
naturale, luogo su cui fondare un’economia, seppure
“sostenibile”, utilizzando come risorsa la sua esclusiva
presenza e la sua non trasformazione fisica.
Il modello, e quindi le società che lo praticano, è
strutturato per trasformare le risorse: è per questa
ragione che è difficile attuare la conservazione della
natura e delle popolazioni; la conservazione non produce
se non marginali profitti in quanto rallenta, da’
inevitabilmente spazio a sistemi produttivi locali e
leggeri, è dunque esattamente il contrario dei sistemi
di guadagno in uso.
I materiali, le risorse, sono così importanti
all’interno dell’economia vigente che non sono
contabilizzati all’interno dei bilanci dei paesi.
La quantificazione economica della
risorsa
Gran parte dei prelievi avviene senza un reale
pagamento da parte dei concessionari, che sfruttano le
risorse nella loro totalità (solitamente beni comuni)
per ottenere benefici individuali.
Ma non solo non viene considerata questa rapina ai danni
della comunità dell’intero pianeta ma non sono
considerati i danni che il prelievo comporta.
Così, all’interno di questo modello, la conservazione
della foresta pluviale potrebbe essere facilitata se di
essa potessero valutarsi in termini economici i benefici
connessi alla sua esistenza mentre diviene assai
difficile attuare una conservazione in ragione di
motivazioni specificamente antropologiche, di autonomia
delle popolazioni, ambientali, di diversità biologica
che nulla hanno a che vedere con la mercificazione
imperante.
Studi economici innovativi tentano di connettere al
bilancio degli stati, ed in generale all’economia, la
valutazione degli effetti che le attività hanno sui
sistemi naturali. Dando valore economico alle risorse ed
al loro consumo si ritiene di poterne ridurre lo
sfruttamento mitigando all’interno del medesimo modello
di mercato il peso ambientale ad esso connesso.
Sebbene di grande interesse in quanto inserisce una
criticità all’interno del modello, criticità di cui si
vedono fattivamente le possibili risultanti anche senza
destrutturare il modello stesso, proprio questa
condizione limita la capacità dell’azione di ricerca e
proposizione.
Questa tendenza innovativa, che ha un interesse proprio
nella sua impostazione critica, involontariamente
rafforza il modello praticato evidenziando le sue
capacità ad assorbire variabili, quali quelle non
economiche, estranee alla propria disciplina. Di fatto
si sostiene che il soddisfacimento delle regole di
questa economia sia l’unico mezzo per realizzare scenari
sociali ed ambientali.
Questa economia, piuttosto che essere settore e
strumento, piega e governa la società alle sue regole
ossia la usa come oggetto per garantire i massimi
profitti.
L’impronta ecologica
Per
comprendere quanto la ricerca di merci e
l’aumento dei consumi abbia disequilibrato le
condizioni del pianeta, sono stati elaborati
diversi modelli atti alla valutazione.
Tra questi quello che ha una maggiore capacità
sintetica e di comunicazione è la definizione
dell’impronta ecologica.
Attraverso di esso si definiscono le superfici
necessarie per produrre le merci consumate e
quelle necessarie per recuperare gli inquinanti
emessi. In tale maniera si può confrontare la
quantità di superfici disponibile per ogni paese
o per ogni individuo di un determinato paese e
quella utilizzata. Dall’applicazione
dell’impronta si evidenzia che lo spazio
ecologico disponibile pro capite è di circa 1,7
ettari mentre l’impronta è del 30% superiore
(Chambers N., Simmons C., Wackernagel M.,
2002),. I cittadini degli Stati Uniti hanno
un’impronta pro capite di 6,2 ettari e i
cittadini dell’India una impronta di 0,4 ettari
pro-capite (Wackernagel M., Rees W.E., 2000).
In una ulteriore elaborazione definita in
termini di unità di superficie pro capite si
mostra che considerando la popolazione a 5,8 mld
di individui il deficit ecologico è pari a 0,67
unità di superficie pro capite ovvero che i
consumi complessivi e l’alterazione delle
risorse è del circa 30% in più di quanto
disponibile (Stati Uniti +118%, Paesi OCSE
+111%, Paesi non OCSE –0,01%) (WWF
Internazionale, 2000).
Al di là della enorme differenziazione tra paesi
ricchi e paesi poveri è evidente che si stanno
consumando più risorse di quelle disponibili.
Ovvero si stanno consumando risorse non
rinnovabili, risorse quindi che facevano parte
di un patrimonio ecologico del pianeta e che una
volta consumate non possono ricrearsi, ovvero si
stanno consumando risorse rinnovabili con tempi
lunghissimi (tipico il caso delle foreste) e la
mancanza delle quali comunque porta ad un
peggioramento delle condizioni dell’ambiente
planetario e della salute della popolazione,
ovvero si stanno emettendo sostanze inquinanti
che non sono riassorbite all’interno dei cicli
naturali e che permangono nell’atmosfera, nelle
acque, nei suoli provocando danni alla salute
degli uomini e degli ecosistemi.
Su questo tema:
Chambers N., Simmons C., Wackernagel M. (2002),
Manuale delle impronte ecologiche,
Edizioni Ambiente, Milano
Wackernagel M., Rees W.E. (2000), L’impronta
ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo
sulla terra, Edizioni Ambiente, Milano
WWF Internazionale (2001), Rapporto Living
Planet 2000, Dossier in Attenzione n.
21, maggio
Bilanzone G., Pietrobelli M. (1999),
Un’applicazione sperimentale dell’impronta
ecologica, Attenzione n. 13
Bologna G., Paolella A. (1999), L’impronta
ecologica. Uno strumento di verifica dei
percorsi verso la sostenibilità, Dossier
Attenzione n. 14 |
La crescita e lo sviluppo
Tutto il modello è basato sulla continua crescita.
Quando le Borse internazionali non riescono a crescere
si parla di rischio di recessione, e quando uno stato ha
un PIL non in progressione positiva si parla di crisi
economica.
Queste crescite non sono immateriali. Nonostante molte
operazioni finanziarie non comportino più una effettiva
trasformazione delle risorse, alla base del PIL e degli
scambi del mercato vi sono le risorse e la loro
trasformazione.
La materia ha un’importanza fondamentale nella vita
economica. Il prodotto mondiale lordo è di circa 20.000
miliardi di dollari, ad ogni milione di euro di prodotto
corrisponde la movimentazione di circa 1.500 tonnellate
di materia, escluse aria ed acqua.
La crescita del benessere è, in questo modello, connessa
direttamente alla crescita della quantità delle merci e
dei servizi acquisiti e acquisibili. L’impronta
ecologica della popolazione mondiale dal 1961 al 1996 è
aumentata del 50% (alla media di 1,5% annuo).
Il modello praticato mostra tutti i limiti nella
meccanicità della connessione tra consumo e benessere,
nella incapacità di produrre benessere diffuso, non solo
nei paesi poveri ma anche nei ricchi, nella
insostenibilità degli effetti ambientali prodotti.
Ma è stato capace di promuoversi in maniera molto
efficiente. Oggi la valutazione di un paese sviluppato è
direttamente connessa alla quantità di consumi e di
merci relativa a quel paese, e la penetrazione del
rapporto diretto tra merci e benessere è così capillare
che il positivo giudizio rispetto a questa artefatta
connessione è esteso ad ampi settori della popolazione.
Il modello fondato sulle merci, sui consumi e sulla
crescita ha un’assoluta inefficacia rispetto al fine che
ne motiverebbe l’esistenza (il benessere degli uomini)
ma possiede una assoluta efficacia nella capacità di
autosostenersi e autogarantirsi.
Il raggiungimento del benessere è rimandato al futuro, e
il mezzo per questo raggiungimento è lo sviluppo.
Lo sviluppo è collegato alla crescita degli indicatori
economici e quindi all’aumento delle merci e dei
consumi. Tutto questo meccanismo, evidente finalizzato
esclusivamente alla creazione dei profitti, diviene
obiettivo sociale e culturale di intere collettività. In
questa maniera si conferisce all’accumulo di ricchezze,
strumento per acquisire le merci e il benessere ed esito
della vendita delle merci, una centralità così
disequilibrata da annullare qualsiasi altra variabile e
qualsiasi altra ipotesi tendente al miglioramento della
qualità della vita.
I limiti della crescita
Nel 1972 fu pubblicato in italiano il libro di
Meadows D.H., Meadows D.L., Randers J., Behrens
III W.W., I limiti dello sviluppo,
Mondadori Editore, Milano. Lo studio valutava la
disponibilità delle risorse in relazione alla
crescita della popolazione e dei consumi e
tracciava uno scenario futuro caratterizzato
dalla modificazione coatta del modello in
ragione della mancanza di risorse.
Quel futuro ipotizzato nel ’72 è il nostro
presente. Quanto previsto non si è realizzato
nelle forme ipotizzate; il petrolio non è finito
né la produzione è calata, anzi. E come per il
petrolio molte sono le risorse il cui uso ha
subito una continua crescita nonostante siano
tutti consapevoli dei limiti di disponibilità
della stessa.
Gli stessi autori (senza Behrens III) nel 1992
hanno elaborato un altro studio in cui, partendo
dall’affinamento di un modello, definiscono
scenari differenti e individuano le carenze
della precedente ricerca. In questo sono
inserite diverse precisazioni utili a
comprendere come e perché le risorse non si
siano già esaurite. Questi sono i principali
fattori:
la quantificazione delle risorse utilizzabili
varia (scoperta di nuovi giacimenti);
i sistemi di prelievo si ottimizzano (maggiore
produttività);
le tecniche di utilizzazione migliorano (minori
consumi di risorse a parità di prodotti);
alcuni prodotti danno origine a materie seconde
(ad esempio dalla depurazione si genera
compost);
alcune merci possono essere riciclate (carta,
alluminio, vetro, etc);
è aumentata una attenzione verso la produzione
energetica da fonti rinnovabili (eolica,
idroelettrica, biomasse, etc).
Sulla considerazione della possibilità di
ottimizzare l’uso delle risorse, e quindi di
garantire livelli di utilizzazione non solo
uguali a quelli attuali ma anche incrementati,
si è mossa la Commissione delle Comunità Europee
attraverso il libro bianco di J.Delors
Crescita competitività occupazione. In
questo documento si sono posti i fondamenti per
la politica occupazionale e ambientale europea
di tutti gli anni novanta. In esso risultava
evidente l’interesse verso il miglioramento
dell’efficienza tecnologica come mezzo atto a
permettere la massima utilizzazione delle
risorse e quindi come unico mezzo atto a fare
aumentare i consumi e quindi la produzione.
Sulla stessa linea di ottimizzazione del sistema
produttivo come principale strumento per ridurre
l’impatto ambientale ed aumentare l’efficienza
della produzione si è mossa la ricerca del
Wuppertal Institut pubblicato con il titolo
Fattore 4 all’interno del quale risulta
evidente come sia possibile una riduzione dei
consumi di materiali e di energia a parità di
unità di merce.
Il problema dei limiti delle risorse è un
problema qualitativo e quantitativo. L’uso
sconsiderato di materiali ha già oggi peggiorato
le condizioni del pianeta, peggiorando
direttamente le condizioni di vita della
popolazione e, nonostante le risorse non si
siano esaurite, ha prelevato una quantità di
materiale non più riformabile o riformabile solo
in tempi lunghissimi che era patrimonio comune e
componeva il benessere delle persone.
Il problema non è dunque la fine delle risorse
che diviene limite della crescita, ma la fine
della crescita, perché il consumo delle risorse
ha già peggiorato le condizioni del pianeta.
L’uso delle tecnologie è condizione necessaria
ma non è sufficiente. Obiettivo è l’uso delle
tecnologie appropriate socialmente ed
ambientalmente e finalizzate alla riduzione dei
consumi.
Su questo tema:
Meadows D.H., Meadows D.L., Randers J., Behrens
III W.W. (1972), I limiti dello sviluppo,
Mondadori Editore, Milano
Meadows D.H., Meadows D.L., Randers J. (1993),
Oltre i limiti dello sviluppo, Il
Saggiatore, Milano
Commissione delle Comunità Europee (1994),
Crescita, Competitività, Occupazione (Il Libro
bianco di Jacques Delors), Il Saggiatore,
Milano
Von Weizsacker, Lovins A.B., Lovins L.H. (1998),
Fattore 4, Edizioni Ambiente, Milano
Bologna G. (a cura) (2000), Italia capace di
futuro, EMI, Bologna
Wuppertal Institut (1997), Futuro sostenibile,
EMI, Bologna
UNEP, IUCN, WWF (1991), Prendersi cura della
terra. Strategie per un vivere sostenibile,
Gland, Svizzera |
La crescita della popolazione
La crescita della popolazione
1.000.000.000 di individui nel 1804 dopo 123
anni
2.000.000.000 di individui nel 1927 dopo 33 anni
3.000.000.000 di individui nel 1960 dopo 14 anni
4.000.000.000 di individui nel 1974 dopo 13 anni
5.000.000.000 di individui nel 1987 dopo 12 anni
6.000.000.000 di individui nel 1999
Gli scenari futuri delle Nazioni Unite prevedono
il raggiungimento del nono miliardo nel 2043 con
un incremento medio di un miliardo ogni 14,5
anni.
Essendosi la popolazione mantenuta sotto il
miliardo per la decina di millenni della sua
presenza sulla terra è evidente che qualche
meccanismo ha fatto saltare l’autoregolazione
della presenza della specie facendo così
intraprendere una crescita esponenziale.
Questo meccanismo è stato l’allontanamento delle
comunità dal controllo e dalla gestione delle
risorse al quale ha significativamente
contribuito l’industrializzazione delle risorse.
Attraverso di esso infatti si concentrano grandi
quantità di richiesta di materie e grandi
quantità di merci il cui controllo è al di fuori
della comunità insediata.
In questo bisogna stare attenti a non connettere
l’aumento delle merci, e quindi i processi di
industrializzazione, con il benessere delle
persone. Per millenni vi sono stati popoli
felici e nel benessere senza consumi di merci e
il consumo di merci non garantisce il benessere,
come è evidente dallo stato di salute degli
abitanti dei paesi ricchi.
È facilmente ipotizzabile che tale
allontanamento aumenterà nel prossimo futuro e
questo non solo in ragione dell’aumento della
popolazione in assoluto ma principalmente in
ragione dell’aumento della popolazione urbana
passata dal 30% del totale nel 1950, al 47% del
2000, al previsto 50% del 2007.
La popolazione urbana è quella in assoluto più
dipendente dal mercato non avendo la possibilità
di autonomia alimentare né di gestione di
qualsivoglia risorsa.
L’aumento della popolazione urbana aumenta di
fatto la concentrazione della gestione delle
risorse nelle mani di pochi,
l’industrializzazione della loro utilizzazione e
quindi il peggioramento delle condizioni
complessive ambientali e sociali.
In generale, l’aumento di 500.000.000 di persone
ogni 7 anni è una manna per il mercato che
attraverso di essi si garantisce comunque, al di
là del loro livello economico, la continua
crescita.
Se non si definisce una effettiva riduzione nel
numero della popolazione e nel consumo non è
possibile ipotizzare un futuro se non
all’interno di rigidi schemi produttivi che
consentiranno maggiori favori ad alcuni e
maggiore miseria ai molti.
Su questo tema:
UNFPA (Fondo delle Nazioni Unite per la
popolazione) (2002), Popolazione e
cambiamenti ambientali. Lo stato della
popolazione nel mondo 2001, AIDOS, Roma
|
Le
risorse
La globalizzazione internazionalizza i beni
ambientali. I “beni comuni” (acqua, terra, mare ecc.) e
i prodotti che ne derivano naturalmente sono
commercializzati: cresce a dismisura il commercio delle
risorse e il profitto che ne deriva conferisce agli
investitori internazionali poteri crescenti in ogni
parte del globo. Mentre i governi nazionali non sono in
grado di gestire il problema, che trascende i loro
confini, le strutture economiche hanno trovato il canale
della internazionalizzazione del profitto e organizzato
il sistema del saccheggio delle risorse.
A titolo esemplificativo si percorrono alcuni dati utili
a definire il livello di saccheggio in corso.
La risorsa foresta
Ogni anno vengono abbattuti 14 milioni di ettari di
foreste tropicali pari a 3 volte la superficie del
Costarica. Il 42% delle foreste vengono distrutte per
produrre legno e cellulosa (dal 1980 il settore cartiero
è cresciuto del 700%) quasi completamente assorbito dai
paesi occidentali.
Il taglio e l’utilizzazione del legno dei paesi
tropicali è frequentemente connesso a filiere produttive
controllate da soggetti occidentali che praticano
modalità produttive spesso illegali. La cartiera Indah
Kiat a Sumatra, ad esempio, è finanziata da investitori
scandinavi, spagnoli e canadesi; essa distrugge ogni
anno 200 Kmq di foresta pluviale vergine, negli ultimi
dodici anni una superficie pari al territorio del
Lussemburgo. Nel 1993 è stata multata per essersi
appropriata illegalmente di almeno 3000 ettari di
foreste appartenenti al popolo indigeno Sakai, averla
rasa al suolo e aver lasciato i Sakai senza cibo né
mezzi di sostentamento. Anche l’agenzia italiana per il
credito all’esportazione, SACE, ha dato garanzie per
ulteriori finanziamenti a tale cartiera.
Il valore globale dei prodotti forestali
commercializzati a livello mondiale è continuato a
crescere negli ultimi decenni, passando da 47 miliardi
di dollari nel ’70 a 139 miliardi nel ’98.
Particolarmente rapida è stata la crescita del commercio
di prodotti forestali semilavorati, come compensato,
pasta di legno e carta. E la tendenza è in continua
crescita.
Rispetto agli anni sessanta il commercio di pasta di
legno e di carta è più che quintuplicato in volume. I
prodotti del settore cartario rappresentano circa il 45%
del valore totale dell’esportazione dei prodotti
forestali.
Solo il 10% della carta finisce in prodotti di lunga
durata, come i libri. Il restante 90% viene impiegato
una sola volta e quindi gettato. Nel 1997 pressoché la
metà della carta prodotta è stata utilizzata per
imballaggi.
Il legname utilizzato per la produzione della carta
rappresenta quasi un quinto del raccolto mondiale di
legno vergine. Circa il 54% del legno impiegato per la
fabbricazione della carta proviene da foreste
secondarie, circa il 17% da foreste primarie,
principalmente quelle delle regioni boreali di Russia e
Canada.
All’uso per la produzione della carta si aggiunge quello
agricolo. Ogni anno decine di migliaia di ettari di
foreste vengono abbattute per fare posto a coltivazioni
ed a pascoli. Anche in questo caso il motore principale
di tale azione è l’esportazione della risorsa verso i
paesi ricchi consumatori di carni, a cui si affiancano
gli interessi dei latifondisti che ampliano le loro
proprietà o indirizzano su questi terreni forestati le
aspettative dei senza terra.
Anche le estrazioni minerarie e di combustibili hanno
un’influenza sulla salute delle foreste, oltreché sullo
stato delle montagne, delle acque ecc. Spesso accade che
interi territori vengano devastati per estrarne
scarsissime quantità di prodotto “prezioso”. Ad esempio,
ogni chilogrammo di oro prodotto negli Stati Uniti
comporta una produzione di 3 milioni di chilogrammi di
detriti di roccia. Spesso i siti di estrazione primaria
sono all’interno di foreste o aree vergini. L’estrazione
mineraria, lo sviluppo energetico e le attività ad essi
connesse rappresentano – dopo il taglio degli alberi- la
più grave minaccia al sistema forestale, e riguardano
circa il 40% delle foreste oggi in pericolo.
Queste attività hanno spesso anche effetti drammatici
per le popolazioni indigene: non solo le operazioni
estrattive distruggono la foresta di cui le popolazioni
vivono, ma i prodotti tossici utilizzati nel corso
dell’estrazione e delle lavorazioni in loco avvelenano i
fiumi.
La risorsa acqua
Nonostante nel pianeta si utilizzi solo il 7%
dell’acqua dolce disponibile il sistema idrico
planetario è gravemente alterato.
Ciò dipende dal fatto che l’acqua non è omogeneamente
distribuita né geograficamente (vi sono luoghi in cui vi
è molto meno acqua e luoghi in cui vi è molto più acqua
di quella necessaria) né temporalmente (vi sono periodi
in cui vi è più acqua e periodi in cui vi è molto meno
acqua del necessario). Al dato globale di abbondanza si
riscontra una situazione locale molto problematica.
Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità, nel 2000 un miliardo e 100 milioni di persone
non disponevano di sufficienti risorse di acqua
potabile. Queste persone si potrebbero definire come
“deprivate del diritto fondamentale all’acqua”
Nella maggior parte dei casi la scarsità d’acqua è un
fenomeno che si manifesta quando la siccità e la
diversione delle risorse idriche per l’agricoltura e
l’industria limitano la quantità di acqua disponibile
per rispondere ai bisogni primari della popolazione.
Il 70% dei consumi di acqua mondiale è per l’agricoltura
ed è per gran parte connesso alla volontà di aumentare
la produzione attraverso l’irrigazione (il 40% del cibo
globale è prodotto con il 17% dei terreni coltivati,
tutti irrigui e per gran parte situati nei paesi
ricchi).
L’assenza di fonti disponibili e accessibili di acqua
potabile e di servizi igienici è strettamente collegata
all’elevato tasso di malattie e di mortalità.
In alcune regioni (India p. es.) lo sfruttamento
eccessivo dell’acqua di falda sta aggravando le
disuguaglianze sociali legate al reddito. Via via che le
falde freatiche si abbassano, i coltivatori devono
scavare pozzi più profondi e comprare pompe più potenti
per portare l’acqua in superficie: e i più poveri non
possono permetterselo, cosicché spesso lasciano le loro
terre agli agricoltori più abbienti e diventano
braccianti di questi.
Finora è stata la scarsità di terre a determinare il
modello del commercio dei cereali: ora anche la scarsità
di risorse idriche sta diventando un fattore decisivo.
Per un paese con gravi carenze di acqua importare una
tonnellata di frumento significa importare 1000
tonnellate di acqua. Nel 1997, l’acqua necessaria per
produrre cereali e altri prodotti agricoli in nord
Africa e Medio Oriente è stata circa pari al flusso
annuale del Nilo. È evidente come questo induca una
dipendenza sempre più stretta di questi paesi
dall’importazione da paesi terzi.
A livello mondiale, circa il 70% delle acque deviate dai
fiumi o pompate dal sottosuolo viene utilizzato per
l’irrigazione, il 20% per l’industria e il 10% per usi
residenziali.
Mille tonnellate d’acqua possono essere utilizzate in
agricoltura per produrre una tonnellata di frumento, che
vale 200 dollari, oppure possono essere usate per scopi
industriali per un valore produttivo di 14.000 dollari.
È evidente che la tentazione del guadagno industriale ha
quasi sempre la meglio, e nel tempo potrebbe averne
sempre di più. Ma non sarà facile imparare a digerire
uno spinterogeno.
A causa dei prelievi d’acqua molti grandi fiumi si
prosciugano prima di raggiungere il mare, e alcuni sono
spariti del tutto.
Nel sud-est degli Stati Uniti il fiume Colorado solo
raramente riesce a raggiungere il golfo di California;
l’Amu Dar’ja, immissario del lago d’Aral, viene
completamente prosciugato dai coltivatori di cotone
uzbeki e turkmeni molto prima di raggiungere il lago, le
cui acque sono in forte ritiro fino a farne temere la
scomparsa.
L’immenso Fiume Giallo è andato in secca per la prima
volta – in tremila anni di storia della Cina – nel 1972
e non ha raggiunto il mare per circa quindici giorni. In
seguito la situazione è verticalmente peggiorata e, a
fronte dei progetti che prevedono l’ulteriore utilizzo
delle sue acque per scopi agricoli, industriali e
urbani, è possibile che il Fiume Giallo diventi un fiume
interno, che non raggiunge mai il mare.
Situazioni simili si hanno per il Nilo e per il Gange.
La battaglia per accaparrarsi le residue acque di questi
fiumi potrebbe diventare intensissima nei prossimi anni,
a fronte della prospettiva di incremento demografico dei
paesi che insistono su questi bacini.
I fenomeni di deforestazione vanno a contribuire
all’aggravamento della siccità, anche nei periodi di
maggiori precipitazioni, perché favoriscono i processi
di inaridimento del terreno e quindi una difficoltà
maggiore per la captazione delle acque. Questi stessi
fenomeni hanno facilitato il propagarsi dei terribili
incendi che nel 1997/98 hanno colpito Indonesia e
Brasile.
Infine si deve considerare anche il degrado della
qualità delle acque. A livello globale meno del 10%
della massa totale dei rifiuti (scarichi industriali,
residui di produzione agricola e rifiuti umani) viene
trattato prima di essere scaricato nei fiumi; gli stessi
fiumi la cui acqua viene utilizzata per bere, per
l’irrigazione e per l’industria. In tutti i continenti
le acque sotterranee sono a rischio di contaminazione.
Che cosa e chi spinge al consumo di risorse
Quanto consuma il cittadino italiano
nella vita |
Consumi alimentari |
|
100.000,00
|
Consumi non alimentari |
|
400.000,00
|
Abitazione
|
90.000,00 |
|
Trasporti/auto
|
70.000,00 |
|
Totale consumi |
|
500.000,00
|
In Italia si consuma ogni anno
|
Importo di merci |
|
430.000.000.000,00
|
Come è diviso l’importo per diverse
fasi |
Ditte produttrici |
40%
|
|
Pubblicità |
5%
|
|
Grossisti |
10%
|
|
Dettaglio |
35%
|
|
Trasporti |
10%
|
|
Come è diviso l’importo tra i diversi
soggetti (1) |
Imprenditori (2) |
70%
|
10% speso in merci
|
|
|
90% accumulato (investimenti e
proprietà)
|
Manodopera |
30% (3)
|
80% speso in merci
|
|
|
20% risparmi (4)
|
Note
(1) Nel mondo 200 aziende gestiscono il 40% del
totale di questo importo.
(2) Produttori, grossisti, imprese di
pubblicità, di trasporto, negozianti, etc. Il
costo dei materiali di fatto è divisibile tra
imprenditori, che ne gestiscono il prelievo, e
la trasformazione e la manodopera che lavora per
essi.
(3) Nel mondo circa il 20% di tale 30% è
distribuito tra 2 miliardi di persone.
(4) Gestiti da imprenditori (banche, istituti,
assicurazioni, etc).
L’elaborazione dei dati è del tutto indicativa.
La fonte dei dati dei consumi pro-capite in
Italia è: ISTAT (2001), I consumi delle
famiglie anno 1999, Roma. |
Le risorse minerarie
I combustibili fossili (carbone, petrolio e gas
naturale) forniscono oltre il 90% dell’energia nella
maggior parte dei paesi industrializzati e il 75%
dell’energia su scala mondiale. Il 30% è petrolio, il
combustibile fossile più “conveniente” e più diffuso.
Nel 2000 sono stati utilizzati 3.200 milioni di
tonnellate di petrolio con una crescita media nei
consumi per tutti gli anni novanta dello 0,8% annuo (USA
nel 1999 crescita del 2%).
Nei principali ambiti estrattivi si sono organizzati dei
veri monopoli: ad esempio in Arabia Saudita vi è una
sola società che gestisce il 95% dei prelievi, la Saudi
Aramco, la compagnia che produce la maggiore quantità di
barili al giorno 9.000.000 bb/g saldamente controllata
dagli Stati Uniti d’America.
Il sistema energetico, così come è organizzato oggi,
lascia completamente fuori circa due miliardi di persone
che non hanno combustibili ed elettricità, e serve in
maniera inadeguata altri due miliardi di persone che non
possono permettersi la maggior parte dei comfort
derivanti dal consumo di energia del modello
occidentale. Ma anche in questa situazione, in cui i
consumi energetici sono così malamente distribuiti e
senza ipotizzarne una eventuale e disastrosa estensione
(disastrosa per via, per esempio, delle emissioni, già a
livello di guardia), l’affidamento all’impoverimento di
risorse non rinnovabili fa sì che si sia costruito un
modello il cui andamento non è sostenibile nemmeno per
un altro secolo.
Se si dovessero soddisfare le crescenti necessità della
Cina (ed è possibile che questa lo esigerà presto),
dell’India e degli altri paesi in via di sviluppo nello
stesso modo in cui vengono soddisfatte oggi quelle dei
paesi industrializzati, sarebbe necessario triplicare la
produzione petrolifera mondiale, anche in assenza di
aumenti dei consumi nei paesi industrializzati. Questo,
ovviamente, comporterebbe che le risorse durerebbero tre
volte meno.
Ma oltre ai danni all’ecosistema planetario la ricerca e
lo sfruttamento del petrolio, come di tutte le risorse
minerarie, comporta la destrutturazione dell’ambiente
naturale e sociale in cui le attività di prelievo si
svolgono. La sconvolgente entità dei profitti che si
ottengono su questi materiali e la possibilità di
concentrarne i ricavi sconvolge le comunità, ne annulla
i caratteri produttivi e insediativi, li sottomette a
enormi interessi non gestiti localmente.
I paesi industrializzati sono grandi consumatori di
minerali: utilizzano più del 90% delle importazioni di
bauxite, circa il 100% delle importazioni di nichel,
l’80% dello zinco, il 70% del rame, del ferro, del
piombo e del manganese. I paesi in via di sviluppo
possiedono gran parte delle risorse minerarie del mondo
e si tengono gran parte dei guasti ambientali.
Per ciascuna delle risorse minerarie di interesse dei
paesi industrializzati sussistono delle condizioni
specifiche di conflittualità. Un esempio tra i molti il
settore della gioielleria. Cresciuto negli ultimi 15
anni del 250%, è per gran parte fondato sul commercio
dei diamanti alla cui estrazione lavorano decine di
migliaia di poveri sottopagati. Per comprendere l’entità
della forza destrutturante dello sfruttamento delle
risorse: l’area dell’Angola dove si raccolgono
ufficialmente circa 600 milioni di dollari l’anno di
diamanti è una delle più povere del mondo ed è teatro di
un conflitto trentennale.
Altre risorse naturali
Gli oceani forniscono più della metà dei beni e dei
servizi necessari all’equilibrio del pianeta. Più della
metà delle minacce che mettono in pericolo la loro
sopravvivenza sono addebitabili all’uomo. Con il loro
volume e la loro densità assorbono, immagazzinano e
trasportano grandi quantità di calore, acqua e sostanze
nutritive. Possono assorbire calore ben 1000 volte di
più che non l’atmosfera. Attraverso la fotosintesi e
l’evaporazione, i sistemi e le specie marine aiutano a
regolare il clima, mantengono vivibile l’ambiente,
convertono l’energia solare in cibo e contribuiscono a
limitare le catastrofi naturali. Il valore economico di
questi servizi “gratuiti” supera di gran lunga quello
delle industrie che hanno fatto degli oceani la fonte
della loro ricchezza.
Il valore di tutti i beni e servizi provenienti dal mare
è stimato in 21.000 miliardi di dollari all’anno (1999);
il 70% in più rispetto agli ecosistemi terrestri.
Dal 1950 la pesca è quintuplicata; la disponibilità pro
capite è aumentata da 8 a 15 chili nel ’96; 200 milioni
di persone dipendono dalla pesca per la sopravvivenza;
l’83%, in valore, del pesce viene importato dai paesi
industrializzati.
L’industria della pesca non fa eccezione al processo di
globalizzazione dei mercati. Dal 1970 al ’98 le
esportazioni di pesce sono cresciute di circa cinque
volte; le nazioni industrializzate dominano il consumo
globale di pesce, con l’80% delle importazioni in
termini di valore. I paesi in via di sviluppo
contribuiscono per circa la metà di tutte le
esportazioni ittiche. Ma l’aumento costante della pesca,
insieme all’inquinamento e alla distruzione degli
habitat, stanno mettendo a repentaglio gli stock ittici
mondiali: la FAO stima che 11 delle 15 maggiori aree di
pesca e il 70% delle principali specie ittiche sono
sovrasfruttate o sfruttate al limite del biologico. Già
nel 1998 il pescato totale è fortemente diminuito
(7,5%), in parte per effetto di condizioni
meteorologiche eccezionali, ma anche per effetto delle
forme di pesca selvaggia che sono alimentate dalla
richiesta. In un oceano impoverito il livello di pesca
viene in parte mantenuto pescando specie sempre più
piccole, l’azione delle reti procura un pescato
involontario di grandi quantità di pesci non selezionati
che vengono restituiti all’acqua morti o moribondi. Ogni
anno la pesca involontaria ammonta a circa 20 milioni di
tonnellate, un quarto del pescato totale.
Ma questa spinta all’esportazione nel terzo mondo, che è
più redditizia, rende la vita dei pescatori autonomi
sempre più dura e i prezzi del prodotto per uso interno
crescono al di là delle possibilità delle popolazioni
locali. In Senegal, ad esempio, molte specie
tradizionalmente consumate da tutta la popolazione
vengono oggi esportate o acquistate solo dai benestanti.
Si tratta di una tendenza con implicazioni gravi per la
sicurezza alimentare, poiché per circa un miliardo di
persone – soprattutto in Asia – il pesce è la fonte
primaria di proteine.
A parità di sforzo in molte zone la quantità del pescato
si è ridotta dell’80% rispetto a dieci-quindici anni fa.
Ciò comporta che vi sia maggiore attività, più costi e
quindi meno benefici locali . Un patrimoni distrutto a
vantaggio di pochi commercianti.
Gli accordi con le comunità locali
Il prelievo
di risorse minerarie avviene anche in zone
abitate. In questo caso le compagnie che hanno
le concessioni provvedono a definire accordi con
le comunità insediate.
È il caso dell’Accordo di “mutua cooperazione”
definito tra AGIP e l’organizzazione degli
Huaorani, popolazione indigena dell’Ecuador.
L’accordo impegna gli indigeni a non opporsi
alla costruzione ed al funzionamento di un
impianto che produrrà circa 30.000 barili di
petrolio al giorno mentre l’AGIP: si impegna a
fornire un quintale di zucchero, burro e sale
per la colazione dei bambini della scuola “ma
solo una volta e unicamente nei mesi maggio,
agosto e novembre dell’anno 2001”, 15 piatti, 15
tazze, 15 cucchiai, una pentola e due secchi;
fornirà per le attività sportive un fischietto
per l’arbitro, un cronometro e due palloni, una
lavagna, una bandiera dell’Ecuador; pagherà 40
dollari al mese per sei insegnanti ma solo da
maggio a dicembre; finanzierà la costruzione di
un’aula scolastica che non deve costare più di
3.500 dollari; doterà ogni comunità (sono sei)
di un armadio farmaceutico più un massimo di 200
dollari di medicine; formerà dei “promotori
della salute” che riceveranno 25 dollari al mese
ma solo per il 2001; inoltre ha rifatto le
tubature dell’acqua potabile di una delle
comunità (costo 2.500 dollari).
Un buon accordo per sfruttare le risorse comuni,
distruggere parti di foresta, inquinare,
ignorare gli effetti che tale attività avrà
sugli abitanti dell’area.
Un buon accordo per l’AGIP. |
Il controllo militare delle risorse
Alcune risorse risultano essere fondamentali sia
per la loro centralità nei processi produttivi
sia per la capacità di produrre profitti.
Tra esse in questo momento il petrolio è la
prima. L’enorme facilità del prelievo, gli
elevati consumi, i bassi costi di produzione e
l’elevato prezzo di vendita delle merci, la
centralità come combustibile per la maggior
parte dei processi produttivi fanno del petrolio
la risorsa che in questo momento produce il
maggiore movimento di denaro.
Il sistema di controllo non si pone in atto solo
per il petrolio ma per la quasi totalità delle
risorse concentrate il cui uso è globale.
Tale controllo è stato richiesto da parte delle
grandi compagnie e si attua prima attraverso
accordi commerciali, poi con la creazione di
concessioni monopolistiche alle compagnie, poi
con la costituzione di governi asserviti, infine
con l’occupazione militare ed i governi
fantoccio.
Gran parte di queste operazioni di controllo
sono attuate da Stati Uniti & C., in quanto gran
parte delle compagnie e quindi degli interessi
risiede in quei paesi.
L’instabilità dell’area del Caspio dipende dalla
presenza del 5% delle risorse petrolifere e di
gas mondiali che dopo divisione dell’URSS non
hanno avuto padrone e dalla necessità di trovare
tracciati controllabili per oleodotti.
Se si verifica la localizzazione delle basi
inglesi e statunitensi nel Golfo Persico si
noterà che esse sono situate tutte in
corrispondenza dell’area di maggiore
sfruttamento del petrolio e del gas (circa il
40% della produzione mondiale).
L’interesse per l’Afghanistan, oltre ad essere
di strategia militare, è connesso con la
presenza di petrolio, di pietre preziose, ed
alla necessità del passaggio di oleodotti.
Ma forse è necessario considerare altri
elementi. L’oppio dell’Afghanistan soddisfaceva
circa l’80% della domanda mondiale. Un affare
che lascia pochi soldi ai coltivatori ma
moltissimi soldi ai gestori del mercato (gli
Stati Uniti sono il maggiore mercato mondiale
per uso personale e farmaceutico).
Centinaia di miliardi di dollari di guadagno che
improvvisamente, nel luglio 2000, è stato
interrotto dai talebani. Nel luglio 2001 non c’è
stato raccolto. A luglio 2002 ci sarà un nuovo
raccolto.
Dietro ogni conflitto vi è una risorsa: in
Angola e Sierra Leone i diamanti, nella
Repubblica Democratica del Congo il rame e i
diamanti, nel Sud Est asiatico (Timor, Malesia,
Indonesia, etc) il legname, nel Golfo Persico,
nel Mar Caspio, in Algeria, Angola, Ciad,
Columbia, Indonesia, Nigeria, Sudan e Venezuela
il petrolio e il gas, etc
In alcuni casi si tratta di interventi degli
Stati Uniti & C. per il controllo diretto, in
altri casi di guerre infinite nell’ambito della
medesima economia tra gruppi imprenditoriali che
finanziano soggetti locali.
Dove c’è stabilità ci sono governi feudali e
monopolio di potenze occidentali, come in Arabia
Saudita dove il 95% del petrolio estratto è
controllato da società statunitensi.
Per ora si tratta di guerre per i minerali e i
combustibili, ovvero risorse locali controllate
da pochi e usate globalmente. Cosa succederà
quando si controlleranno globalmente, localmente
già avviene, acqua e suoli?
La prima guerra moderna in cui l’uso dell’acqua
è uno dei fattori propulsivi è il conflitto
mediorientale.
Intanto gli Stati Uniti impegnano circa il 5%
del loro bilancio per spese militari: 675.775,00
Euro al minuto (350.000.000.000 dollari l’anno)
pari al 40% delle spese militari dell’intero
pianeta.
Su questo tema:
AA.VV. (2201), No Global. Gli inganni della
globalizzazione sulla povertà, sull’ambiente,
sul debito, Zelig Editore, Milano
Brisard J.C., Dasquié G. (2002), La verità
negata, Marco Tropea Editore, Milano
Blum W. (2002), Con la scusa della libertà,
Marco Tropea Editore, Milano
Cheterian V. (2001), Dal golfo alla Cina.
Conflitti ad alto rischio, in Le Monde
Diplomatique - Il Manifesto, 10.11.01
Gouverneur C. (2002), Teheran alla guerra
dell’oppio, in Le Monde Diplomatique
- Il Manifesto, 10.3.02
Klare M.T. (2001), Nuova geografia dei
conflitti, in Guerra e Pace, novembre
2001
Kennedy P. (2002), L’arsenale dell’impero,
in Internazionale n. 426, anno 9, marzo
2002 |
Di necessità, risorsa
Le modificazioni climatiche, l’instabilità del
clima e le mutazioni registrate nelle quantità e
nella frequenza dei periodi di pioggia hanno
fatto insorgere il problema acqua anche in zone
in cui tale emergenza non era storicamente
presente. Una delle cause principale del
collasso idrico di molti territori è l’enorme
uso, spesso motivato solo da ragioni di
profitto, delle acque in agricoltura. In molte
regioni, anche del nostro paese, invece di
controllare l’adeguata utilizzazione delle
acque, si è iniziato a ipotizzare la
realizzazione di impianti di potabilizzazione.
Così facendo non si rende compatibile l’uso con
la quantità di acque, in quanto l’uso
incompatibile è parte di un sistema produttivo e
di profitto, ma si aggiunge un altro strumento
che produce profitti, la vendita delle acque
potabilizzate, ed aumenta la dipendenza della
comunità dal gestore o proprietario degli
impianti che definirà costi e quantità
distribuite.
In un sistema di mercato ogni necessità diviene
risorsa. |
Gli esiti
L’entità del prelievo indiscriminato di risorse, a
cui si è appena accennato ha comportato un danno
irreparabile nell’ambiente e nella popolazione. La
connessione infatti tra prelievo, alterazione
dell’ambiente e delle comunità e danni alla salute è
strettissima e diretta.
Gli ecosistemi di acque dolci sono stati profondamente
trasformati: le zone umide sono state ridotte in
quantità e dimensione (il 60% in meno in Europa
nell’ultimo secolo, il 50% circa nel mondo) per
bonifiche agricole e insediamenti; i fiumi sono stati
rettificati e artificializzati (nel 1950 nel mondo vi
erano 5.750 dighe sopra i 15 metri di altezza, oggi ve
ne sono 41.000); i fiumi che in alcune stagioni
dell’anno non riescono ad arrivare alla foce per la
quantità dei prelievi sono in aumento (Colorado, Fiume
Giallo si sono prosciugati negli anni passati fino a 600
km dalla foce), interi serbatoi d’acque superficiali,
quali il lago di Aral sono in via di prosciugamento
lasciando migliaia di kmq di deserto.
Il 90% del totale mondiale degli scarichi urbani vengono
immessi non trattati nei fiumi, nei laghi, nelle acque
costiere. Ogni anno 5.000.000 di persone muoiono per
avere bevuto acqua inquinata e il 28% della popolazione
mondiale non ha facile accesso all’acqua potabile.
Come visto gli ecosistemi forestali si riducono ogni
anno di una superficie enorme; il 30% delle aree
potenzialmente interessate da foreste è stato convertito
in agricoltura in parte irrigua (la superficie delle
aree irrigue pari al 17% del totale è aumentata dal 72%
dal 1966 al 1996).
I suoli sono continuamente utilizzati per insediamenti
(471 milioni di ettari il 4% della superficie delle
terre emerse è occupata da insediamenti), il 26% è
utilizzato ad agricoltura intensiva. Il 24% dei suoli
agricoli presenta moderati fenomeni di degrado, il 40%
gravi fenomeni di degrado (che comporta la perdita di
capacità produttiva); ogni anno 5 ml di ettari di
terreni si desertifica.
La superficie degli ambiti naturali è in continua
riduzione (in tutti i continenti è molto al di sotto del
50%), come è in riduzione la loro qualità.
Gli incendi dei sistemi naturali (foreste, praterie,
etc), quasi tutti dolosi, colpiscono milioni di ettari
l’anno. La biodiversità è in riduzione con la perdita
annuale di centinaia di specie animali e vegetali.
Ghiacciai in scioglimento, innalzamento dei mari e
aumento delle temperature, inquinamento dell’atmosfera,
etc, etc.
Questo è molto sinteticamente il risultato di un’azione
di sfruttamento che non ha confronti con nulla di quanto
avvenuto in passato. Uno sfruttamento inutile,
evitabile, insensato, tragico, che colpisce non solo
l’ambiente ma le comunità in esso insediate.
Dal 1978 il commercio mondiale è aumentato di 18 volte
eppure dal 1997 la povertà è aumentata del 50%.
Al benessere raggiunto localmente dalle comunità in
presenza di limiti ambientali è stato sostituito un
benessere di merci che ha aumentato le distanze tra le
società e all’interno del società del pianeta: chi era
ricco è diventato più ricco vendendo, chi era povero è
diventato più povero comprando merci.
Indicatori della enorme distanza incrementatasi con il
modello economico è ad esempio il confronto tra il
consumo medio pro-capite degli Stati Uniti d’America con
quello del Zambia: rispettivamente un cittadino
americano ed uno dello Zambia consuma ogni anno: 21 Kg e
8,2 Kg di pesce; 122 kg e 12 kg di carne; 975 kg e 144
kg di cereali; 293 kg e 1,6 kg di carta; 6.902 kg e 77
kg di petrolio equivalente; e dispone di 489 e 17 auto
ogni mille abitanti. Sempre a titolo esemplificativo il
più pagato giocatore di pallacanestro USA ha un ingaggio
di 20 milioni di dollari annui; un lavoratore
indonesiano dovrebbe per essere pagato con lo stesso
importo 23.000 anni; con lo stesso importo si
raddoppierebbero gli stipendi annuali di 55.000 persone,
cambiandone significativamente le condizioni di vita;
con lo stesso importo 20.000.000 di persone
raddoppierebbero il loro budget quotidiano.
Circa un miliardo di persone vive con un reddito
inferiore al dollaro giornaliero ma due sono i miliardi
che vivono sotto una soglia (definita
internazionalmente) di povertà; 27.000.000 di persone
lavora a costo zero (schiavi); centinaia di milioni sono
i minorenni sfruttati lavorando per una miseria dieci e
più ore al giorno, milioni i bambini violati (1.000.000
di minorenni prostitute in Thailandia, 500.000 in
Brasile, 300.000 negli USA)
A Manaus in Brasile il 90% delle bambine che è nel giro
della prostituzione sono state prima violentate a casa,
la prestazione di una ragazza molto al di sotto dei 17
anni (già considerata matura) viene valutata 4,5.
Ma il Brasile è il 4° produttore mondiale di alimenti e
ogni giorno lì muoiono circa 800 bambini con meno di un
anno e il 15% di quelli sotto i 5 anni soffrono di
denutrizione; e il Brasile è lo stesso paese della
depredazione della foresta, dei giacimenti di minerali,
della coltivazione di cereali per gli allevamenti
stranieri.
Ogni anno nel mondo 13.000.000 di bambini muoiono di
fame; 140.000.000 sono i bambini tra i 6 e i 14 anni che
non vanno a scuola; se andassero a giocare ci starebbe
anche bene ma essi compongono un aparte dei 250.000.000
di bambini che forniscono manodopera a basso prezzo per
le multinazionali.).
Ad un ambiente destrutturato corrisponde una società
destrutturata, volontariamente così da lasciare spazio,
senza controllo, al mercato ed ai mercanti, ovvero per
produrre ricchezza e per fare divertire (sic)
pochi.
Come visto per il controllo delle risorse che sono
ritenute strategiche si strutturano dinamiche in cui gli
interessi economici originano quelli politico-militari I
conflitti hanno una genesi mercantile ed al di là delle
cause artatamente costruite è sempre più evidente e
leggibile la strategia delle multinazionali tesa ad una
gestione diretta delle risorse ritenute primarie.
A ciò corrisponde l’esproprio operato ai danni delle
comunità locali della gestione delle risorse che
afferisce a soggetti forti lontani dalle situazioni e
dagli interessi locali. Così per molte comunità avere
delle risorse nel proprio territorio è stata una vera
tragedia.
Lo sfruttamento delle risorse privatizza l’ambiente
natura e divide le comunità eliminando i beni comuni e
portando enormi profitti proprio in ragione della
razzia, seppure concessa, all’ambiente ed alle comunità.
Attraverso questo meccanismo i poveri diventano più
poveri e più dipendenti e i ricchi diventano più ricchi
attraverso l’espoliazione delle comunità locali.
Gli
scenari futuri
Le ipotesi sul futuro sono connesse al tipo di
rapporto con le risorse che si vorrà instaurare. Nella
figura si è schematizzato il ragionamento svolto.
Le risorse del nostro pianeta sono limitate. In questo
momento l’uso delle risorse supera in quantità la
disponibilità delle risorse stesse. Questa quantità di
consumo eccedente si riscontra nel prelievo di risorse
rinnovabili solo nel lungo periodo (foreste etc), di
risorse non rinnovabili (desertificazione dei suoli,
prelievo di risorse minerarie) e nell’immissione di
sostanze alteranti nell’ambiente (inquinamento
dell’aria, delle acque etc)
Questo superamento dipende in alcuni paesi dalla
quantità troppo elevati dei consumi, in altri paesi
dalla quantità della popolazione assai più numerosa di
quanto la disponibilità di risorse consentirebbe e in
altri della compresenza dei due fattori.
Per permettere il mantenimento di questa situazione di
disequilibrio si potrebbe intervenire sui consumi e
sulla crescita demografica riducendo entrambi.
La scelta fatta è invece quella di permettere la
continua crescita di popolazione e di consumi sia nei
paesi ricchi che nei paesi poveri attraverso l’uso di
tecniche che permettano un migliore funzionamento del
sistema produttivo e commerciale esistente.
La tecnica in questa accezione permette di fare
aumentare i consumi e la popolazione ma non la crescita
complessiva del consumo di risorse.
In questo fare la tecnica diviene motore di ulteriore
artificializzazione del sistema. Ovvero per permettere
l’aumento dei consumi e della popolazione i processi
produttivi e insediativi sono industrializzati, estranei
all’ambiente, lontani dal controllo della comunità
insediata.
Il modello della industrializzazione globalizzata
concentra le attività e la produzione di merci nelle
mani di pochi creando una sudditanza nella gran parte
della popolazione planetaria a cui è tolta l’autonomia
ed il controllo della propria esistenza.
In tale maniera si assiste alla realizzazione di una
infelicità programmata dove la libertà degli individui è
uno slogan e dove la dipendenza dal sistema e da chi lo
gestisce non è un astrattezza ma una concreta
limitazione nella vita delle persone.
In questa politica dell’infelicità programmata le
risorse hanno un’importanza centrale in quanto sono
sicuramente sottodimensionate rispetto alle seppur
fittizie necessità ed alla quantità di popolazione
presente nel pianeta.
Per cui il controllo da parte di chi produce delle
risorse che trasforma è inalienabile. E come è
concentrata la produzione e commercializzazione delle
merci così è concentrata la gestione delle risorse.
Presente e futuro di guerre di sofferenze di violenza
sui deboli di sfacciata tracotanza dei forti sono i
caratteri di questo scenario.
La soluzione diversa e alla portata di tutti è quella di
ridurre l’incremento demografico e ridurre i consumi.
Questa è condizione necessaria ma non è sufficiente.
Il disequilibrio ha creato un’alterazione profonda
nell’ambiente naturale che se sottoposto a seppur
ridotta pressione da parte dell’uomo avrebbe tempi di
recupero così lunghi da rendere difficile ipotizzarne un
completo ripristino.
Ma il disequilibrio ha creato una profonda alterazione
culturale e sociale.
In questo la tecnica può essere utile a ristabilire una
relazione con l’ambiente e gli individui.
Una tecnica volta al recupero ed alla riduzione dell’uso
delle risorse; soluzioni appropriate connesse con i
luoghi e le persone, che aiutino a consolidare o
ricreare l’autonomia delle popolazione e rendano
possibile la gestione diretta dei mezzi di sostentamento
da parte delle comunità ed il controllo che in esse
avviene per l’uso comune di sistemi quali quelli
naturali che sono indivisibili.
A questa ipotesi riduttiva si oppone il modello vigente
paventando una continua minaccia di un catastrofico
peggioramento delle condizioni di vita.
In una società in continua crescita la riduzione dei
mercati, o anche la sola stagnazione, è vista come un
enorme rischio sociale, sia per la riduzione
occupazionale che comporta sia per la riduzione della
circolazione del denaro.
Ma nella società contemporanea le quantità di merci
prodotte non sono collegate direttamente con la quantità
degli addetti. In quasi tutti i settori le nuove
soluzioni tecniche hanno ridotto gli oneri connessi con
l’impiego di personale, sia per la riduzione degli
addetti necessari a mantenere i processi produttivi sia
per la qualifica richiesta agli addetti. Pochi addetti
non specializzati riescono a produrre enormi quantità di
merci. La minaccia “riduzione del mercato – aumento
della disoccupazione” oggi più che mai ha poca ragione
di esistere e le condizioni di effettiva, seppur non
formale, schiavitù in cui la maggior parte dei
lavoratori del mondo è costretta ad operare conferma
tale interpretazione.
Sicuramente la mancanza di aumento delle merci e quindi
la riduzione del mercato avrebbe degli effetti e questi
avranno ripercussioni maggiori per coloro i quali hanno
condizioni di vita già al limite. Ma la minaccia
paventata è superiore agli effetti. Se si costituiscono
sistemi di solidarietà e si ricompongono le relazioni
interne alla comunità e si gestiscono direttamente le
produzioni la minaccia potrebbe rivelarsi un enorme
bluff.
In ogni caso non vi è scelta. Il sistema attuale non è
perseguibile per i danni che porta alla popolazione e
nell’ambiente.
Come
intervenire
Azioni dirette
Le risorse minerarie
La riduzione dei consumi è il primo sistema per
ridurre il mercato. La riduzione del mercato riduce
direttamente i profitti e dunque riduce il potere di chi
gestisce il mercato.
La riduzione dei consumi si rivolge evidentemente ai
paesi occidentali dove l’uso di merci inutili interessa
la gran parte della popolazione e non soltanto i ricchi.
Ridurre i consumi è dunque soluzione semplice che porta
benessere diretto (risparmi, meno angosce, meno
nevrosi), indiretto (meno inquinamento, meno problemi
sullo smaltimento) e anche un sensazione di
soddisfazione (uscire dalla condizione di “pollo”
gestito anche nei desideri di acquisto).
Controllare le merci
Acquisire ed utilizzare merci di cui si conoscono le
origini. In particolare delle merci verificare le
modalità produttive (uso della manodopera) e i
comportamenti utilizzati nel trattamento delle risorse e
gli effetti nell’ambiente.
Attraverso questa verifica e privilegiando merci che
abbiano una qualità ambientale e sociale superiore si
indirizza il mercato stimolando i produttori a
perseguire una maggiore qualità.
Tale ambito operativo si sviluppa all’interno delle
regole del mercato attuando esclusivamente un consumo
critico e dunque orientando il mercato stesso.
Relazionarsi direttamente con i produttori
Se possibile è fondamentale acquisire le merci
direttamente dalle comunità che producono scavalcando in
questa maniera tutti gli intermediari del commercio e
quindi direttamente favorendo l’autonomia delle comunità
produttrici. Ciò diviene di particolare importanza per
tutti le merci che provengono da paesi in cui lo
sfruttamento delle risorse naturali è molto elevato e
dove solitamente si accompagna ad un enorme sfruttamento
sociale.
Favorire soggetti che producono localmente e con i quali
si attua un rapporto diretto consolida le relazioni tra
gli individui ed aumenta di fatto la qualità delle
merci. Il produttore infatti conoscendo il consumatore è
interessato a mantenere tale relazione e quindi a
garantire una qualità della merce. Il consumatore da
parte sua potendo verificare tutte le variabili potrà
dare un giudizio complessivo sulla merce ossia un
giudizio in cui fattori sociali, ambientali e di qualità
siano pariteticamente considerati.
Utilizare il dono e “uso libero”
Le società autonome per millenni hanno rafforzato le
relazione tra gli individui attraverso il dono. Ovvero
l’omaggio di oggetti e di favori anche utili alla vita
quotidiana. In questo fare, oltre ad uscire dalle
logiche sia di scambio sia di compravendita, si
innestano meccanismi di gratuità tipici delle società
con un uso marginale del denaro.
In questo molte sono state le esperienze attuate anche
in tempi più recenti.
Uso libero
Da metà degli anni sessanta fino a metà degli
anni settanta furono condotti esperimenti di Uso
libero da parte del Gruppo Dioniso. Ispiratore e
fondatore del gruppo, anarchico, era Giancarlo
Celli. Il gruppo operò in diversi luoghi ed ebbe
sede nel quartiere Tiburtino a Roma.
L’uso libero era fondato sul principio della
messa a disposizione di oggetti (vestiario,
libri etc ) ed in alcuni periodi anche alimenti.
Le persone portavano nella sede materiali e si
rifornivano di materiali a loro utili portati da
altri, ciascuno secondo le proprie esigenze e la
disponibilità presente. L’esperimento interessò
anche il lavoro: numerosi artigiani ed alcuni
professionisti misero a disposizione del loro
tempo lavoro.
Per ulteriori informazioni:
antiglo@email.it |
Azioni di denuncia e proposta
Boicottare
Non credere troppo nei regolamenti, inclusi quelli di
qualità, e nella capacità da parte dei grandi produttori
di esservi ossequiosi. Le norme si modificano a seconda
dei desideri dei potenti.
Anche nelle relazioni con il mercato vi è la possibilità
di attuare una strategia di azione diretta. Boicottare
le ditte che inquinano, che sfruttano oltre misura gli
addetti, che controllano le comunità locali, che
impongono i loro prodotti sostituendoli a quelli locali.
Boicottare i prodotti inutili: quelli che sono
l’evoluzione di una merce ancora funzionante (il campo
dei computer e delle tecnologie domestiche e delle
automobili sono quelli a maggiore rinnovamento
finalizzato solo alla vendita).
Boicottare le merci che per essere prodotte prelevano
risorse non rinnovabili, o prelevano risorse rinnovabili
in maniera incongrua (la distruzione della foresta
pluviale).
Ridurre al minimo l’uso dei prodotti monopolizzati.
Primo tra tutti il petrolio, le droghe, gli autoveicoli,
bevande ed alimenti globali.
Mantenere sistemi di produzione diretta
Cercare di non essere parte del mercato. La
condizione rurale facilita ma non è indispensabile: orti
urbani, piccole coltivazioni sui terrazzi, forme di
conduzione congiunta facilitano l’autoproduzione
alimentare.
Per limitare la propria presenza sul mercato è
fondamentale riparare quello che si ha, recuperare
quello che viene buttato da altri, riutilizzare più
volte ed in forme diverse le merci che si acquistano.
Non sostenere finanziariamente
Non affidare i risparmi ad assicurazioni, banche,
investitori che non ne dichiarino l’uso. I risparmi, per
quanto singolarmente piccoli, sono una delle maggiori
fonti di sostegno del sistema dopo l’aggressione
compiuta ai danni del welfare (aggressione compiuta
appunto per potere gestire in privato queste
disponibilità).
Prestare i soldi eccedenti ad amici che ne facciano
richiesta o affidarli a soggetti che li investano in
azioni socialmente e ambientalmente corrette.
Ridistribuire le risorse
Uno dei maggiori sprechi di risorse è quello derivato
dal loro accumulo.
L’accumulo viene realizzato per ottenere maggiori
profitti. Si accumulano concessioni, materiali, merci.
Vi è una diretta corrispondenza tra ricchezze e risorse.
Anche le situazioni apparentemente meno connesse quali i
mercati finanziari sono fondate sull’uso o sulle
potenzialità d’uso di spazi fisici, di risorse di
materiali.
Un soggetto che ha accumulato denaro ha di fatto
utilizzato una quantità di risorse direttamente
proporzionata. Maggiore è l’accumulo e maggiore è la
quantità di danni provocati all’ambiente ed ai beni
comuni.
È dunque necessario agire su coloro i quali hanno
accumulato per riportare quell’energia al sistema ovvero
per ritrasformare quei capitali in recupero di
condizioni di qualità ambientale e sociale, qualità che
hanno ridotto privandola delle risorse attraverso le
quali hanno accumulato.
Accanto al sempre troppo esteso gruppo dei grandi
accumulatori vi sono centinaia di milioni di persone che
hanno accumulato piccole ricchezze. Una casa in più,
oggetti, terreni sottoutilizzati, soldi. Ognuna di
queste cose ha comportato un uso di energia e una
trasformazione dell’ambiente. Questo tipo di accumulo
non è necessariamente speculativo. Esso spesso è
motivato dalla necessità di avere garanzie per il
futuro. Ma queste garanzie non possono essere ricercate
a livello individuale a meno di enormi sprechi di
materiali ed energia. Queste garanzie debbono essere
trovate nelle relazioni sociali e le risorse accumulate
debbono essere redistribuite nella comunità al fine di
ridurre la continua richiesta di materiale e raggiungere
un benessere che se comune è meno energivoro e più
soddisfacente.
Le risorse debbono rimanere disponibili e quindi non
possono essere trasformate solo per essere accumulate.
Denunciare
Denunciare le imprese, le attività e le merci che non
pongono attenzione all’ambiente ed alle comunità. In
questo è necessario porre attenzione a dividere tra ciò
che non è corretti anche rispetto ai valori diffusi di
questa società (ad esempio lavoro minorile,
inquinamento, sfruttamento oltre i limiti sindacali) e
ciò che non è corretto in quanto attua le regole
istituzionalizzate dell’attuale modello.
I primi, in questo momento, hanno una maggiore
potenzialità nella capacità di evidenziare i limiti del
modello vigente; ad esempio la vastità della loro
presenza, ritenuta una aberrazione, in realtà dimostra
la congenicità rispetto alle pratiche di globalizzazione,
colonizzazione e industrializzazione praticate
Riaccomunare i beni
Mantenere i beni comuni e indivisibili. Acque,
terreni etc.
Ricomporre un patrimonio indiviso (con amici, parenti,
piccole comunità) Attraverso di esso si aumenta la
sicurezza personale nel futuro, si rende meno necessario
attuare degli accumuli per garantire l’eventualità di
situazioni di improduttività e quindi in questa società
di benessere individuale.
Gestire i beni
Il fine della gestione non è quello di ottimizzare i
profitti che scaturiscono dall’uso delle risorse ma
quello di conservare i caratteri dell’oggetto di uso
onde garantirne una qualificata utilizzazione nel tempo.
L’interesse deve essere rivolto non alla trasformazione
ed alla commercializzazione ma al mantenimento di una
potenzialità ed al suo usufrutto nel tempo.
Il soggetto a cui può essere demandata la gestione non
può che essere la comunità insediata che riesce a
distribuire direttamente i benefici ottenibili dalla
conservazione delle risorse tra i propri componenti.
La comunità è interessata al mantenimento delle proprie
condizioni di benessere e dunque alla possibilità di
mantenere o migliorare le condizioni ambientali in cui
essa è insediata. Tale mantenimento prevede una
utilizzazione non alterante e non distruttiva dei
caratteri dei luoghi e degli elementi usufruiti dalla
società insediata.
Ciò non implica la costituzione di comunità chiuse,
autistiche, isolate. Implica esclusivamente la
possibilità di consapevolezza da parte della singola
persona della disponibilità dei beni e delle interazioni
che esistono tra i propri comportamenti e le condizioni
dell’ambiente.
Alcune iniziative in corso
Di seguito si illustrano molto sinteticamente
alcune recenti iniziative che promuovono delle
soluzioni per ridurre il gli effetti negativi
del sistema. Nonostante la loro efficacia in
alcuni casi sia piuttosto discutibile sono
iniziative che sostengono pratiche alternative a
quelle perseguite dal modello vigente.
Il controllo del prezzo delle materie prime
Il caffè di qualità “arabica” aveva un prezzo
per cento libre di 180 dollari nel 1998 e di 55
dollari nel 2001. Attraverso la riduzione del
prezzo da parte degli importatori si attua una
politica di controllo del mercato, si
sottomettono ed impoveriscono interi paesi, si
producono enormi danni alle persone e
all’ambiente.
Un’azione richiesta è quella di un controllo
politico dei prezzi delle materie prime da parte
dei paesi importatori. “Acquisti trasparenti”
che influenzino positivamente le condizioni
sociali e ambientali di produzione, che
favoriscano le merci che usano materie prime
correttamente pagate, che permettano ai paesi
importatori di vigilare sul proprio mercato.
Annullamento del debito estero
I paesi in via di sviluppo (PVS) pagano ogni
anno tra i 250 e i 300 Mld di dollari di
interessi per i prestiti ricevuti ovvero circa
cinque volte quanto ricevono in aiuti.
Attività volte a favore della eliminazione del
debito dei paesi in via di sviluppo nei
confronti dei paesi ricchi. Gran parte del
prodotto dei paesi poveri è dedicato al
pagamento degli interessi dei prestiti ricevuti.
Il fare prestiti ai paesi è il meccanismo di
massima destabilizzazione dei governi ed il
maggiore strumento di controllo delle
popolazioni.
È evidente che la riduzione o eliminazione di
tale debito permetterebbe ai paesi oggi
sottoposti ad una vera vessazione economica a
potere investire in settori finalizzati al
benessere della popolazione. È altrettanto
evidente che è una battaglia perseguibile solo
considerando l’emergenza della situazione in
quanto non cambia assolutamente i rapporti tra i
paesi né costituisce alcun percorso verso
situazioni future diverse.
Revisione delle politiche di cooperazione
I paesi industrializzati trasferiscono una quota
minima del Prodotto nazionale lordo ai PVS; meno
dello 0,22% (50 Mld di dollari) con una
riduzione continua degli importi (ad esempio
solo dal 1999 al 2000 sono stati ridotti del
6%). Le risorse private volte alla speculazione
stanziano circa 250 Mld di dollari in alcuni di
questi paesi.
Vi è un movimento che tende al rilancio della
cooperazione pubblica, con l'obiettivo preciso
dell’aumento del benessere delle popolazioni (e
quindi non al sostegno di azioni
imprenditoriali), e con la richiesta ai paesi di
finanziamenti con un elemento di dono almeno del
25% del totale degli importi.
Tobin tax
L’ipotesi è che siano tassati tutti i movimenti
finanziari. Attualmente il reddito di una
persona è definito al di là di quelle che sono
le transazioni e i capitali investiti in borsa.
Questo avviene anche per le società. Ipotizzando
che gran parte dei profitti negli ultimi sono
stati ottenuti attraverso operazioni di borsa e
che a queste azioni hanno corrisposto effetti in
campo sociale e ambientale di portata enorme
tassarle sembra essere un sistema per
controllare e per avere una significativa
disponibilità economica (riducendo di poco i
profitti) da utilizzare per l’interesse comune.
La Tobin tax è stata ed è elemento di
caratterizzazione della politica fiscale di
alcuni partiti della sinistra in Europa.
Fieramente osteggiata dell’economia liberista,
ha un carattere di palliativo nei confronti di
un meccanismo molto più destrutturante di quello
che si riesce a controllare attraverso
l’imposizione di questa tassa.
Bilanci di giustizia
Iniziativa a cui aderiscono singoli individui
che vogliono ridurre i propri consumi. Il valore
è quello di tenere in relazione persone che
hanno fatto scelte di vita autonome e che di
fatto aumentano l’autonomia personale rispetto
al sistema.
Sostegno diretto a comunità
Il sostegno diretto alle comunità dei paesi in
via di sviluppo è stato per anni monopolio delle
organizzazioni missionarie. Oggi il quadro si è
sufficientemente allargato sia in ambito
cattolico dove sono molto numerosi i gruppi di
base direttamente connessi a comunità locali sia
nel mondo laico dove si sono strutturati gruppi
ed associazioni con il medesimo fine. La grande
acquisizione culturale effettuata negli ultimi
anni è che il rapporto con le comunità locali
non è fondato solo sull’invio di materiali ma
nel tentativo di comporre una relazione
paritetica basata sullo scambio culturale e di
merci.
Il commercio equo e solidale
Una delle attività più innovative realizzate nel
corso degli ultimi anni. Le associazioni che
partecipano a tale rete distribuiscono nei paesi
ricchi merci prodotte direttamente dalle
comunità locali.
In questa maniera non si utilizzano
intermediari, si riesce a valutare in maniera
significativamente più consistente il lavoro
degli operatori locali, si garantisce nel corso
degli anni una continuità nella quantità di
merci e una stabilità nel prezzo che le forme di
sfruttamento attuate dalle grandi compagnie ed
in genere dal mercato non solo non garantiscono
ma ostacolano.
Gli esiti di tale azione sono la maggiore
autonomia delle comunità locali, il maggiore
benessere economico da parte degli operatori
locali, la possibilità di indirizzare la
produzione verso forme di minore impatto
ambientale, il controllo di qualità delle merci,
la ricomposizione di una relazione quasi diretta
tra produttore e consumatore.
Le “botteghe del mondo” in Europa sono circa
3.000 sostenute da circa 96.000 volontari per un
giro di affari di prodotti equo solidali di
circa 400 milioni di euro.
Caricare la produzione di tutti gli oneri
Il prezzo delle merci non considera appieno il
valore del prelievo ambientale e degli effetti
negativi che la loro produzione, il loro consumo
ed il loro smaltimento comportano nell’ambiente
e nella società.
Introdurre all’interno della definizione del
prezzo tali variabili potrebbe modificare
integralmente il valore delle merci e potrebbe
consentire il recupero di una parte di tali
importi al fine del recupero ambientale e alla
riduzione degli effetti negativi sociali
comportati dalle merci.
Tale considerazione dovrebbe essere estesa ai
bilanci degli stati. Il essi le quantità sono
considerate in termini di Prodotto interno
lordo; anche in questo non sono valutati i costi
relativi all’impoverimento sociale ed ai danni
ambientali connessi.
Le ipotesi di recuperare all’interno dei costi
di produzione le variabili ambientali e sociali
sono alla base della posizione di alcune
associazione ed in parte di alcuni
organizzazione politiche.
Finanza etica
È stato calcolato, dalla stessa Banca Mondiale,
che i paesi ricchi investendo un dollaro nei
paesi poveri ne otterranno 13 di guadagno;
questo dato unito a quello dell’importo dei 50
Mld di dollari annui di interessi sui prestiti
dimostra come siano i paesi poveri a finanziare
quelli ricchi. E ciò è ottenuto attraverso la
distruzione dell’ambiente e delle società
locali.
Alcune organizzazioni hanno lanciato l’ipotesi
di una finanza etica ovvero investimenti privati
o pubblici socialmente e ambientalmente
responsabili, volte alla gestione trasparente
del risparmio, al rifiuto della logica
speculativa, alla valorizzazione delle persone e
non delle attività.
Nell’ambito di questa azione da una parte si è
avviato un controllo degli investimenti attuati
dai paesi e dagli investitori e dall’altro si è
promossa l’organizzazione di “banche etiche”.
Sono soggetti, molto diffusi nell’Europa
centro-settentrionale finalizzati alla gestione
dei risparmi in maniera corretta socialmente ed
ambientalmente. Aderire a tale iniziative è
garanzia che i propri risparmi non finiscano in
armi, al finanziamento di guerre, al sostegno di
operazioni commerciali socialmente e
ambientalmente dannose, di interessi contenuti,
di prestiti ad iniziative di persone e comunità
volte al recupero dell’autonomia alimentare,
produttiva, culturale, politica.
Su questo tema:
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