Tre appuntamenti, un filo conduttore: il ministro Moratti va al mercato dei saperi - quale resistenza, quali alternative.
Costituzione di comitati studenteschi autogestiti e libertari per opporci al degrado della pubblica Università, contro la soggezione del sistema formativo alle esigenze e ai ritmi delle imprese, contro la riforma Moratti, per le dimissioni immediate del ministro, contro gli ulteriori favoritismi alle università dei preti e degli imprenditori, contro l’autoritarismo dei docenti e il feudalesimo universitario, contro la logica del monopolio della cultura, della selezione e della sottocultura al servizio delle industrie. E poi contro la “regionalizzazione” e all’autonomia finanziaria, grazie alla quale potremmo assistere (o già assistiamo) alla differenziazione sostanziale degli Atenei del Nord da quelli del Sud, delle facoltà scientifiche e tecnologiche da quelle umanistiche, delle scuole “sponsorizzate” dai geni della finanza dagli istituti di “provincia”. Assisteremo (o già assistiamo?) allo spettacolo di rettori delle università private che, in quanto tali, si sottraggono a qualsiasi intervento di controllo da parte dello stato (vedi l’adeguarsi dei soli atenei pubblici ai requisiti minimi richiesti), ma che, a loro volta, possono controllare e dirigere le università pubbliche.
Nei confronti dell’industria e degli industriali poi l’Università pubblica sarà assai meno autonoma di quanto oggi non sia, visto e considerato anche “la volontà” di una buona parte degli ambienti del centrosinistra a respingere totalmente la riforma Moratti.
Contro tutto questo ed altro, ma soprattutto per il diritto allo studio e all’istruzione veramente di massa, per un sapere critico e consapevole, per una società senza corruttori e corrotti, senza sfruttatori e sfruttati. Una battaglia dunque non solo difensiva e resistenziale.
Il nostro impegno deve essere finalizzato alla creazione di un’Università aperta a tutti, pluridisciplinare, nella quale lo studente si possa porre come soggetto attivo, pensante e decisionale. Vogliamo un’Università libera e realmente democratica ed una didattica altrettanto uguale, che sia punto di riferimento e di aggregazione per tutta la cittadinanza, sede di un vivace confronto culturale. E gli studenti a cui pensiamo devono essere i liberi costruttori del proprio futuro e non un numero, una cifra su cui i dirigenti e i politicanti locali possono speculare.
Dobbiamo pronunciare il nostro NO contro il tentativo di allontanare gli studenti dai luoghi in cui realmente si decide di ghettizzarsi in parlamentini che fungono da palestra di allenamento per futuri dirigenti di partito. Dobbiamo opporci al progetto di ulteriore privatizzazione dell’università, il quale, subordinando ricerca e didattica agli interessi ed alla direzione dei soggetti privati verrebbe a costituire l’esatta negazione del concetto di autonomia universitaria che continuano a difendere e a sbandierare: la cultura, il sapere, così come la salute fisica, psichica e affettiva sono beni che per la loro natura non possono essere sottoposte a leggi di mercato. Dobbiamo continuare ad affermare il pieno diritto degli studenti a contare dentro l’università e a dire la loro circa la creazione, l’organizzazione e la trasmissione del sapere. Siamo stanchi dell’università fast-food di nozioni preconfezionate: vogliamo un’università come luogo di reale elaborazione culturale che consenta ai suoi utenti un percorso di formazione critico, problematico e dignitoso.
Invece di autonomia continuiamo a parlare di cultura.
Al principio dell’autonomia bisogna riconoscere tutto il suo valore; ma quando si continua ad abusare di termini, a collocarli in ogni contesto, si assiste inevitabilmente ad un progressivo svuotamento del loro significato. Parlano ancora di autonomia i ministri che vogliono ulteriormente privatizzare l’università e alcuni docenti che a questo di oppongono. L’autonomia dei primi deve essere interpretata come integrazione del sapere nelle dinamiche dell’economia, quella dei secondi come salvaguardia di un arcaico privilegio corporativo dall’attacco dell’industria privata.
Si è chiamata autonomia quella dell’università perché autonomi sono ritenuti i soggetti che si muovono sul mercato. Ma l’autonomia del soggetto in ambito mercantile dipende dalla merce che lo stesso è in grado di offrire: il soggetto sarà tanto più autonomo quanto il mercato sarà in grado di fornirsi della sua merce o quanto più il primo sarà in grado di fornirsi della merce che il mercato richiede. Quindi al termine autonomia dovremmo aggiungere condizionata.
E questa contraddizione, che deriva dall’uso ideologico di un termine, vuole piegare il suo significato ad esprimere una realtà che di fatto contraddice. Col termine autonomia si cerca di far apparire come un atto di autodeterminazione ciò che di fatto non lo è.
Difendere veramente l’autonomia significa difendere una cultura capace di reggere e di contrastare i processi di omologazione in atto nella società occidentale, che sia capace di soddisfare bisogni negati da un vivere sociale in cui l’unica relazione possibile con l’altro è determinata dallo scambio di valori equivalenti.
È per noi inconcepibile che il mercato diventi l’obiettivo principale dell’università, e che in vista di tale obiettivo si organizzi in essa la didattica e la ricerca. Ma è ovvio che il mercato, da parte sua, chiede all’università tecnici capaci di rispondere ai problemi di massimizzazione dei profitti e non tecnici che siano liberi di scegliere l’uso che vogliono fare della tecnica.
L’università a cui pensiamo deve essere il luogo della cultura, deve formare coscienze critiche che da soggetti si inseriscano sì nel mercato ma per metterlo continuamente in discussione, per bloccare la sua tendenza ad ingoiare ogni cosa, per opporre ai suoi modelli di riferimento quelli di una cultura libera e non mercificata.
Solo da una cultura libera può nascere un mondo di liberi.
Edoardo (Comitati di Base Studenti Libertari - Scuole ed Università dell'Aquila)