BOCCACCIO E LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
(premesse all'autogestione)
Senza
dubbio non sono pochi gli argomenti circa i quali la teoria e la prassi del pensiero
comunista libertario sono ancora oggi insufficienti e di troppo scarsa
profondità, la cui importanza è invece sempre più pressante ai fini non solo di
un vago e fumoso rinnovamento (o
aggiornamento) culturale, ma proprio per la proponibilità e la praticabilità di
un progetto politico/sociale che, attraverso e oltre la dimensione della pura
utopia, si ponga come movimento reale. Tra questi temi da noi finora forse
troppo scarsamente considerati va annoverato quello dell'”estetica” della
democrazia borghese-rappresentativa: ove per “estetica” si intende la
rispondenza, reale o ideale, a bisogni effettivi o immaginari dell'uomo e della
società. Si è cioè partiti – d'altronde giustamente – dalla
critica e dalla negazione di questo modello (Proudhon, Marx, Bakunin, Lenin,
Malatesta) per giungere troppo direttamente alla ricerca delle
possibilità - e delle eventuali cause – del rovesciamento di questo stato di
fatto, e all'immediata formulazione di prospetti di ordinamenti sociali
alternativi. Le teorizzazioni marxista ed anarchica nascono su quello che è già
uno status profondamente corrotto dell'originario ideale borghese: alla
tranquilla economia mercantilistica si è sostituita la totale disumanizzazione
dell'industria, la reificazione nella macchina;
ad un rapporto sociale che, pur avvenendo nella forma – tipica
dell'alienazione borghese – dello scambio mediato dalla moneta, conservava una
sua dimensione umana di rapporto tra persone, si sostituisce il rapporto
inumano tra uomo e strumento di lavoro; alla disponibilità per tutti (sia pure
nel permanere di differenze di classe e di casta) si sostituisce la sempre
minore disponibilità occupazionale; infine, last not least, alla limitata (sia
geograficamente che qualitativamente) sfera del potere delle antiche
aristocrazie, segue la sempre più soffocante oppressione ed ingerenza
esercitata dagli Stati nazionali.
In questo quadro, all'interno del quale le
varie borghesie nazionali nulla più hanno da promettere ai popoli se non
sfruttamento capitalistico e oppressione statale – per tacere delle guerre –
era ovvio che la negazione prendesse il sopravvento sulla riflessione critica:
tanto più a causa dell'infelice convinzione dei più, a quell'epoca,
dell'imminente crollo del capitalismo, con la conseguente presunta necessità di
approfondire ed estendere al massimo la negazione, senza troppi mezzi termini:
per meglio preparare il Mondo Nuovo che doveva presto sorgere dalle rovine
della “preistoria dell'umanità”.
Ma non voler considerare – e non tanto nella
pura riflessione teoretica, ma proprio nella concreta riflessione pragmatica
volta alla “trasformazione del mondo” - certi temi, può spesso essere assai
pericoloso e, alla lunga, gravemente dannoso. Così, sarebbe per noi anarchisti
e libertari estremamente pericoloso non voler oggi prendere in considerazione
questo problema: come mai un'organizzazione sociale così evidentemente negativa
e colpevole qual è quella fondata sullo Stato – su qualsiasi Stato – pur
andando palesemente contro gli interessi e i desideri della gente, si sia
perpetuata ed anzi rafforzata lungo i secoli attraverso delle rivoluzioni che pure
sarebbero state delle valide premesse al suo abbattimento (o, al limite, all’
assurda e buffonesca marxiana “estinzione dello Stato”)? Considerando, una volta tanto, questo
problema al di fuori dei nostri consueti, più o meno consapevoli, vittimismi storici
(i “tradimenti della rivoluzione”, etc.): questo sia perché con tali
argomentazioni in realtà non si spiega più niente o ben poco, sia ancor di più
perché non tanto di un'analisi storica qui si tratta, quanto piuttosto di un
problema di ordine sociologico e antropologico. Spinto ai massimi termini
l'argomento ci porterebbe al tema enorme e ancora largamente da affrontare
della reale natura del Potere (del potere in sé), della sua riproduzione e
modificazione, delle sue dimensioni (dall'inconscio individuale alla famiglia
alla scuola allo Stato), dei suoi luoghi (la lingua la cultura l'arte lo sport
il lavoro) etc; qui si tenterà più semplicemente un abbozzo di discorso, ancora
limitato, su un epifenomeno del potere, una delle sue modalità: la democrazia
rappresentativa. Discorso limitato,come si vede, ma necessario ed
improrogabile: perché se non si è prima chiarito, dal nostro punto di vista e
secondo un'ottica generalmente socioantropologica e funzionalistica più che
particolare e storicistica, come e perché il sistema della democrazia
rappresentativa o indiretta abbia finora sempre prevalso (pur in forme
diversissime e spesso contraddittorie) su ogni aspirazione alla democrazia
diretta, anzi rafforzandosi; mentre tutti i tentativi di tipo libertario e le
esplosioni autogestionarie siano rimasti episodi pur splendidi, ma effimeri; se
dunque non si è chiarito prima questo, a ben poco gioverà parlare poi di
autogestione anarchica e di comunismo libertario: si rischierebbe di fare
nuovamente dei castelli in aria. Non si tratta di “revisionismo” o di “uscire
dall'anarchismo”, ma di ammettere onestamente un grave ritardo culturale e
progettuale, e sforzarsi di colmarlo.
Giovanni Boccaccio, alla fine della prima
giornata del Decameron, ci fornisce una significativa rappresentazione – sia
pure ovviamente non ancora consapevole di sé – di un modello puro, ideale, di
democrazia rappresentativa: che di modello puro e ideale, al limite
dell'utopico, si tratti, è evidente se si considera che per Boccaccio questo modello
si dà non già come realtà fattuale, ma ancora nei modi dell'aspirazione poetica
ad un mondo meno travagliato e funestato dalla “matta bestialità” dei bui
secoli precedenti; un mondo da costruire sulla scorta di nuovi ideali e nuovi
modi di vita – oggi diremmo: su nuovi bisogni. Vale la pena di soffermarsi su
questo brano boccacciano, per cogliere questa premonizione di quella che sarà
poi l'ideologia borghese.
Terminato dunque il narrare della prima
giornata, posta sotto il “reggimento” di Pampinea, questa dichiara chiuso il
proprio mandato e, levatasi di capo la corona d'alloro simbolo della potestà,
nomina “regina” del dì seguente Filomena: la quale, dopo aver ringraziato
l'amica, si produce in un vero e proprio discorso – tutt'altro che di circostanza
e formale – di accettazione d'investitura e d'enunciazione di un “programma”.
In sostanza inizia affermando che lei non intenderà governare basandosi
esclusivamente sul proprio giudizio, ma seguendo anche quello degli altri: per
cui subito esporrà loro le proprie intenzioni, di modo che essi possano
immediatamente integrarle o controbattere con le proprie. Prosegue affermando
di approvare sostanzialmente gli ordinamenti stabiliti da Pampinea per la prima
giornata e di non ritenere dunque di mutarli: si tratta semmai per lei di
aggiungerne altri, non in contrasto con i precedenti: naturalmente,
coll'assenso di tutti. “Naturalmente” tutti assentono e approvano; e Dioneo,
che solo ha da avanzare una richiesta personale, senza ostacoli se la vede
soddisfare con generale consenso.
E' qui da considerare anzitutto l'importante
momento di transizione in cui si situa la rappresentazione boccacciana del suo
modello di democrazia: che non si identifica più nell'antica, ideale polis
ateniese – nella quale è l'intera assemblea degli uomini liberi a decidere e legiferare; mentre qui, pur
entro una così ristretta comunità – per giunta di amici – è avvertita
l'esigenza (tanto più significativa
quanto appunto appare men motivata) dell'istituzione di un “reggimento” unico,
di una sia pur minima centralizzazione del potere: il quale è però ancora ben
lungi dal farsi assolutistico, Stato ed egemonia. Alla democrazia assembleare degli uguali si
succede qui la delega dei poteri ad un singolo, la cui potestà però è fondata
non già su di un “diritto” (divino o “naturale”) ma su di una convenzione – qui
ancora trasparente ed esplicita – tra liberi ed eguali che insieme decidono di
istituire al di sopra di sé un “reggimento” che insieme rappresenti e medii i
loro interessi particolari con l'obiettività (presunta) di chi è al di sopra
delle parti, legiferi ed esegua o faccia eseguire leggi e sentenze: ed è quella
stessa convenzione che – con ben maggiore sviluppo di idee – si chiamerà
contrattualismo, contrat social.
Ma appunto nel paragone differenziale con
quelle che poi saranno le teorie politiche di un Locke o di un Rousseau sta la
specificità e l'importanza dell'ideale del Boccaccio: qui abbiamo ancora un
puro ideale (non importa se giusto o sbagliato), una vaga aspirazione di tipo
etico-sociale, mentre lì siamo ormai nel pieno campo della lotta teorica per un
preciso progetto politico, di presa del
potere da parte della nuova classe contro la vecchia; qui la consapevolezza
storica (peraltro ancora molto embrionale) è di natura più intellettuale
(filosofico-letteraria) che fattuale, mentre lì siamo già alla guerra verbale
che si affiancherà alle guerre e alle rivoluzioni (le due inglesi prima,
l'americana e maxime la francese poi) che saranno necessarie per il
passaggio dal vecchio al nuovo potere; qui l'ordinamento sociale si regge
spontaneamente sull'antico canone aristocratico-medievale della cortesia,
lì sulla Costituzione che stabilisce in maniera ferrea, “oggettiva” ed
immutabile
diritti e doveri di
governati e governanti. E proprio l'ideale della “cortesia”, dell'aristocratica
gentilezza, che si sposa perfettamente all'idea di società armonica ed
armoniosa, libera da traumi e da conflitti (e non si può negare che, di fronte
alla violenta brutalità dei secoli precedenti, questo fosse un grande ideale
umanistico) è il grande fatto nuovo, la profonda motivazione storica, non solo
politico-ideologica, ma anche e più socioantropologica, dell'avvento e
dell'instaurazione del regime democratico-borghese e costituzionale. In una
parola, il sistema delegante-rappresentativo non nasce solo sul sopruso e la
sopraffazione, come solitamente siamo usi pensare, magari inconsapevolmente; è
anche
– ed oggi soprattutto – questo: ma lo è per il
più a partire da
quell'Ottocento che appunto vede nascere e svilupparsi come movimento
reale il
comunismo, la lotta contro lo sfruttamento capitalistico e
l'oppressione
statale. Ma qui siamo già in una situazione profondamente
degradata, corrotta;
e non si può ragionevolmente pensare che fossero di questo
genere le promesse e
le speranze insite nell'idea, nell'utopia borghese: persino i generali
“cileni”, nell'abbattere violentemente ogni sia pur blanda
parvenza di
democrazia consensuale, devono in qualche modo
“idealizzare” la propria
dittatura – e termini quali “pace”,
“ordine”,
“legalità”,”lavoro”, etc.,
giungono puntuali a volgere quasi in epopea l'eccidio e l'oppressione.
Di qui potrebbe ora dipartirsi anche il
discorso oggi molto alla moda (alla moda del “riflusso”) sulla “inevitabile”
corruzione delle utopie: lasciando trapelare l'aristocratico dubbio che
qualsiasi salto rivoluzionario celi l'identica involuzione, lo stesso errore.
Non è discorso che ci possa interessare,
perché è questione vuota e tutta “metafisica” (proprio nel senso un po' banale,
ma tutto negativo, caro alla tradizione positivistica); ed è discorso del tutto
antiscientifico perché rifiuta di calarsi in un rapporto reale con la realtà; a
noi importerà invece cercare, al di fuori di slogans e di preconcetti,
le possibili cause di eventuali involuzioni del “modello virtuale” di cui siamo
assertori e portatori.
In sostanza, sembra di poter dire che
l'idealità borghese nasce e muove i primi passi sulla base della
scoperta-ritrovamento della sfera del privato, della riaffermazione del
desiderio di un mondo ove ognuno possa liberamente “farsi i fatti suoi”, sia
nel senso dell'economia (badare ai propri affari ed interessi, anziché
continuare a tenerli in second'ordine rispetto agli interessi preminenti,
politico-militari, dell'impero o dei nobili), sia nel senso del riemergere dei
valori, all'epoca tutt'altro che tradizionali, della famiglia e della casa, di
contro all'antico continuo guerreggiare che portava gli uomini lontano dalla
patria a combattere e a morire per motivi ed interessi sempre meno avvertiti,
sempre più lontani dai propri. Tutta la tradizione del Medioevo si era
adoperata ad esaltare i valori del sacrificio eroico per la ragione dell'Impero
e della Chiesa, a lodare la perdita del marito, del figlio o della moglie,
in nome della ragion di Stato; Boccaccio
irride, sia pure con discrezione e talora ammirazione, a questi ideali. Né si
deve pensare che si trattasse di un fenomeno di riflusso: era al contrario una
nuova conquista – non più in Terra Santa o nel lontano Oriente, ma tra le mura
della propria casa; ed era una conquista dell'uomo e dell'umano, esaltante.
L'esigenza di seguire con più tranquillità e far prosperare lontano da guerre e
sconvolgimenti le proprie attività affaristiche e la stanchezza del guerreggiare
ai confini del mondo portano questo nuovo bisogno d'una esistenza meno
affannosa e soggetta ai casi fortuiti, ed insieme più distaccata e meno
condizionata dalle alterne vicende della politica; ma perché si potesse
affermare e radicare un modello sociale che istituzionalizzava e codificava la
delega pacifica, non per sconfitta di guerra, dei poteri, era necessario
affiancare questi nuovi bisogni con una nuova ideologia: l'illusione – che
diventerà poi pretesa ipocrita - di un
ordine naturale della (e nella) delega, di
una conformità di questa alla “natura”, della naturalità di un siffatto
modello sociale – e quindi, in uno stadio di ulteriore evoluzione (quello a noi
oggi imposto) dell'ideologia – della sua insostituibilità (argomento tanto caro
a tutti i nostri conservatori, sia di destra che di sinistra). Così, causa la
piena delega di poteri, quella “conquista del privato” che era stata origine e
frutto di una gioiosa contestazione verso l'alterità, l'estraneità politica e
terrena dell'Impero, e religiosa ed ultraterrena della Chiesa, presto si
trasforma involvendosi in rinuncia al politico, in rifiuto del mondo, in reclusione entro il
carcere della famiglia: si passa così da un estremo all'altro, dalla massima
sottomissione alle esigenze esterne all'esclusiva cura degli affari propri
- da un'estraniazione a un'altra.
Ambedue i momenti sono raffigurati o accennati dal Boccaccio: se il rifiuto del
“morire per il Re” è uno dei motivi non espliciti, ma costanti del Decameron,
d'altro lato vediamo pure che quando per la quarta giornata Filostrato, che vi
tiene il reggimento, decide un argomento
delle novelle che agli altri non piace, essi vi si adattano senza minimamente
protestare.
A questo punto la lunga ma necessaria analisi
storica può terminare: perché l'ideologia qui descritta della frattura
inevitabile tra un privato ed un politico, e la conseguente rinuncia al secondo
( almeno sino a che le cose non precipitino a un tal punto da rendere
improrogabile un temporaneo ritorno al politico, una rivolta), questa illusione
che sia giusto così, sia bene votare e delegare e lasciar fare agli altri, non
è un semplice fenomeno storico (sebbene sia un prodotto storico di una certa
civiltà, quale è la nostra): ma è invece un fenomeno trans-storico, che percorre
la Storia tutta, è cioè un fenomeno antropologico, in qualche modo inerente
all'uomo in quanto tale. E proprio perché l'illusione che le cose possano
“naturalmente” andare avanti da sé, senza farsene carico in prima persona,
bensì delegando, non è sorta una volta
sola nel corso della storia, ma sempre e nelle situazioni più diverse, è
necessario che noi oggi, in rapporto a, ma a monte di qualsiasi dibattito su
autogestione, democrazia diretta etc., ci poniamo il problema di evitare,
anticipandolo, il rischio che il modello di società che propugniamo risulti,
alla pur minima prova dei fatti (lotte ed iniziative autogestite, etc.), in
qualche punto, debole. Si tratta, per così dire, di immunizzare l'utopia:
contro il maggior numero di malattie possibile. E se oggi l'illusione,
l'alienazione politica, da combattere, è quella borghese che abbiamo visto
prima – perciò era necessario discuterla preventivamente – dobbiamo anche
sempre tener conto del fatto che essa si può presentare per cause e con modalità
molto varie. In definitiva bisogna
uscire da un certo massimalismo semplicistico – più ideologico e mentale che
politico, beninteso – che si fonda sulla vecchia convinzione che basti scalzare
una tantum il potere e i rapporti di potere e di delega, per aver
risolto tutto: mentre occorrerà invece considerare da subito tutte le possibili
cause di involuzione burocratico-autoritaria nascoste nel modello sociale di
cui ci facciamo (ci dobbiamo fare) propositori, e suggerire soluzioni contro queste minacce che siano
effettivamente praticabili quando ve ne sia bisogno. Si tratta anche qui di
uscire dall'ideologia e dalla pura utopia, per approdare al concreto, alla
Storia e al movimento reale che trasforma la Storia; ma per far questo lo
studio storiografico non basta, può solo avere un ruolo sussidiario (ricordarci
le esperienze passate come indicazioni di massima), mentre essenziale sarà
l'approccio socioantropologico che consideri la costante del “ritorno alla
delega” appunto non semplicemente come una singola vicenda storica, o come una
serie di vicende analoghe ma irrelate, bensì come un dato troppo reiterato per
investire la sola dimensione storica, tale dunque da potersi spiegare solo come
fenomeno trans- (e meta-)storico, avente quindi come fondamento primo una
caratteristica, un'esigenza dell'uomo e dell'umano – un inalienabile bisogno
della sua natura, come già ci ha mostrato la precedente analisi del testo di
Giovanni Boccaccio.
Un bisogno può essere studiato,analizzato,
posto in relazione ad un contesto e quindi spiegato anche nella sua essenza
profonda; può essere giudicato, posto in discussione ed anche contestato nelle
sue motivazioni: ma non può essere – in sé -
cancellato, negato nel suo essere. Il bisogno non è - in sé – un valore.
Ad esempio, curare il proprio corpo e fare uso di cosmetici sono aspirazioni
umane (che non significa necessariamente “di tutti”) per sé nient' affatto da
disprezzare : lo diventano quando appunto questi non-valori vengono relazionati
e sottomessi ad un valore (per giunta
artificiale e mistificante) come il valore di scambio, o a valori altrettanto
falsi e detestabili quali il desiderio di spicco, di supremazia sociale, lo
snobismo etc.: ma che siano bisogni umani (bisogno di stare e sentirsi bene, di
godere del proprio corpo, di piacere a sé e agli altri,etc) in qualche modo
universali ed ineliminabili, è dimostrato dal fatto che ogni società o civiltà
– e quelle “primitive” o precapitalistiche più ancora di quelle capitalistiche
– appena abbiano superato il livello della mera economia di sussistenza, vi
anelano sensibilmente (e si pensi alla Cina del dopo-Mao, o alla Polonia che
lotta per una diversa qualità della vita; o, ancora, a quella parola d'ordine
del '68 che chiedeva “il pane e le rose”). Combattere – o quantomeno
ridimensionare, razionalizzare – certi bisogni umani, quando essi significano o
implicano ineguaglianza e sopraffazione, è necessità imprescindibile per un
processo rivoluzionario anarchista o comunque di segno libertario; ma negare e
soffocare tali bisogni tout court ucciderebbe immediatamente il processo
stesso: non l'essere del bisogno, semmai il suo essere sociale va
corretto.
Anche il fenomeno che abbiamo sin qui
esaminato, e direttamente osservato nella sua fase aurorale e – ovviamente –
ancora inconsapevole nei succitati passi del Decameron - cioè il calo di
tensione che sempre è succeduto e succede ai periodi di grande attivismo e di
partecipazione diretta (sia pure nella forma dell'obbligo di combattere), e il
conseguente ritorno al privato – corrisponde ad un bisogno: ad un
bisogno ancora tutto, o quasi, da scoprire e studiare. Qui si può solo
suggerire che esso potrebbe assomigliare, sembra assomigliare molto più
a ciò che Marcuse chiamava il “bisogno biologico di pace” che a un semplice voltar
le spalle al mondo per rinchiudersi in casa, come spesso, guardando solo agli
aspetti esteriori, oggi erroneamente si fa parlando di “riflusso”. In tal senso
questo bisogno avrebbe anche una precisa valenza contestativa; ma attenzione:
non solo verso il potere e la sua politica, ma anche verso
l'iperpartecipazione, l'eccesso spasmodico, e in definitiva spesso alienante,
di attivismo.
Se questo fenomeno è correlato ad un
bisogno sinora misconosciuto, se è esso stesso un bisogno (magari anche
“sbagliato” nelle sue forme e nelle conseguenze che comporta – come d'altronde
abbiamo visto che spesso avviene dei bisogni) allora noi non possiamo negare o
sottovalutare con un'alzata di spalle, liquidandolo come tema di tipo
situazionistico-spontaneistico, o altro, il problema: sarebbe una grossa
ingiustizia e un grave errore tattico. Dovremo anzi discutere e confrontarci
per trovare soluzioni alternative, teoriche sì, per forza, ma pragmatiche e
praticabili, che concilino le esigenze della democrazia diretta,
dell'autogestione, dell'azione diretta, con una giusta forma di soddisfazione
di questi bisogni, che non li inibisca né li porti all'eccesso. Servirà
altrimenti a poco (sia detto col massimo rispetto per quegli studiosi che
all'argomento si solo anche brillantemente dedicati) discutere delle forme
dell'autogestione, di economia e società autogestionarie, di abbattimento di
Stato,classi e caste, se non sappiamo ancora materialmente come far
funzionare e durare nel tempo una democrazia non-delegante. E non si torni più
a ripetere, per l'ennesima volta, con la medesima ottusità, che “questi
problemi si vanno ad affrontare nel concreto, nella prassi”: non è affatto
vero: i problemi che noi oggi siamo necessariamente portati a considerare
legati alle numerose “esperienze di
lotte e di iniziative autogestionarie” sono diversi e soprattutto minimi
rispetto a quelli cui qui si fa riferimento. Una cosa è condurre ed animare una
lotta o una iniziativa (anche economica, quali una cooperativa, l'autogestione
di una fabbrica “decotta” etc.), senza e contro autoritarismi e deleghe; un'
altra cosa è sostenere un'intera società, in tutte le sue complesse
ramificazioni, nella costanza di una democrazia diretta che mai e nulla ceda a
burocratismi. Una cosa è un episodio di antagonismo, pur glorioso ed esaltante
ma limitato nello spazio e nel tempo; altro è un intero ordinamento sociale
autogestionario che, per essere tale, dovrà avere ben maggiori dimensioni e
durata. Ma soprattutto è importante la fondamentale differenza tra le
motivazioni che spingono dei lavoratori minacciati dalla chiusura della
fabbrica, o dei disoccupati privi di prospettive occupazionali tradizionali, a
farsi carico direttamente del proprio destino, e le motivazioni almeno
apparentemente non altrettanto pressanti e improrogabili che dovrebbero
spingere i cittadini di una società autogestio- naria a partecipare
continuamente e instancabilmente a tutte le decisioni. Non si tratta di
“annacquare” l'anarchismo: si tratta di evitare che si uccida da sé. Abbiamo
un'utopia da concretare: cominciamo dal vaccinare l'utopia.
Francesco De Ficchy