Dall'infanzia nel popolare quartiere Ticinese alla partecipazione quale giovanissima staffetta alla Resistenza. L'impegno nel movimento anarchico, il lavoro nelle ferrovie, la costruzione di una famiglia, l'entusiasmo nella propaganda anarchica e nella solidarietà con le vittime della repressione.

Avrebbe 60 anni: era nato nel popolare quartiere di Porta Ticinese nel 1928. Sarebbe nonno: una delle sue adorate figlie è già mamma,anche l'altra è già sposata. Ma la storia, si sa, non si può mai scrivere al condizionale. Tanto meno con i "se".
Eppure io ho l'intima convinzione -indimostrabile, certo- che se fosse ancora qui, sarebbe ancora "nel giro". Sarebbe ancora attivo nel nostro movimento: a fare che cosa, non importa. Diciannove anni sono tanti, e in questi 19 anni quanta gente -che pure è stata attiva ed entusiasta, o almeno lo pareva- è scomparsa alla fine nel nulla, si è svaccata, sistemata, allontanata. Quante cose sono successe, quante speranze sono appassite, quante facce sono comparse e scomparse in questi 19 anni!
Ma chi ha conosciuto Pino difficilmente potrebbe immaginarselo diverso da quello che era negli ultimi anni della sua vita - in quegli anni '60 che, ancor prima del '68, avevano visto una progressiva crescita del movimento anarchico a Milano. Niente di travolgente, d'accordo. Eppure, affianco dei compagni vecchi e di mezza età -molti dei quali passati attraverso l'esperienza della Resistenza e poi ritrovatisi intorno al giornale Il libertario ed al suo redattore Mario Mantovani -si era affacciata una manciata di giovani, con i quali Pino- di almeno un decennio più vecchio di loro aveva subito legato.
Lui che, finite le elementari, aveva dovuto andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere, aveva però colmato le lacune della mancata istruzione scolastica con la lettura di centinaia e centinaia di libri, ammirevole esempio di autodidatta. E poi, nel '44/'45, men che diciottenne, aveva partecipato alla Resistenza come staffetta partigiana, in uno dei vari raggruppamenti anarchici che operarono efficacemente dentro e intorno alla metropoli lombarda. Poi la Liberazione, l'entusiasmo per la ritrovata libertà, il rapido gonfiarsi delle fila libertarie con l'afflusso di tanti giovani. Tempo qualche anno e l'euforia del dopoguerra è solo un ricordo: il riflusso dell'ondata rivoluzionaria post-bellica "sgonfia" il movimento anarchico. Pino è tra i non molti giovani a rimanere, convinto ed attivo.
Nel '54, vinto un concorso entra nelle ferrovie come manovratore. L'anno successivo si sposa con Licia Rognini, incontrata ad un corso di esparanto.

Il Circolo seconda casa

Nel '63 si unisce ai giovani anarchici della gioventù Libertaria, due anni dopo è tra i fondatori del circolo "Sacco e Vanzetti" - finalmente una sede anarchica, dopo che per un decennio i compagni erano costretti a chiedere ospitalità ai repubblicani o ad altri. Nel '68, dopo che lo sfratto costringe alla chiusura il "Sacco e Vanzetti", il 1° maggio (pochi giorni prima che scoppi il Maggio) si inaugura un nuovo circolo, in piazzale Lugano 31, a pochi metri dal Ponte della Ghisolfa.
Il clima sociale è surriscaldato e tale rimarrà anche per tutto l'anno successivo. Al Circolo si succedono cicli di conferenze, riunioni di studenti, assemblee. Vi si riuniscono alcuni dei primi comitati di base unitari, i mitici CUB che segnarono la prima ondata, in quegli anni, di sindacalismo di azione diretta,al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali. Pino è tra i promotori della (ri)costruzione della sezione dell'Unione Sindacale Italiana (USI), l'organizzazione di ispirazione sindacalista-rivoluzionaria e libertaria.
Il circolo diventa per Pino la seconda casa ( a volte la prima, si lamenta Licia, che lo vede sempre meno). E' lui a promuovere l'organizzazione della biblioteca (e poi, dopo tante arrabbiature, a mettere i lucchetti agli armadi per farla finita con la scomparsa dei libri - tutti con la loro copertina nera, tutti schedati e ordinati). Alla domenica mattina, quando nel circolo si ritrovano i vecchi ( e qualcuno, lo era davvero: 90 anni, ed anche di più), Pino c'era quasi sempre: lui che era il più vecchio - con Cesare- tra i giovani, ma certamente un giovane tra quei vecchi spesso attivi prima del fascismo, prima cioè che lui fosse nato.

Ma questa volta era diverso

Negli ultimi mesi della sua vita, poi, Pino è particolarmente coinvolto dalle attività connesse con gli arresti dei vari anarchici accusati delle bombe esplose il 25 aprile '69 a Milano, alla stazione centrale ed alla fiera campionaria. Ai compagni detenuti a san Vittore (saranno poi assolti nel giugno '71), dopo aver trascorso - alcuni di loro- 26 mesi di carcere) Pinelli assicura l'invio di soldi raccolti tra compagni ed amici, fa arrivare pacchi di cibo, vestiario e libri che lui stesso porta alla portineria del carcere. Nell'ambito della appena costituita Crocenera Anarchica, si impegna nella costruzione di una rete di solidarietà e di controinformazione, che possa servire anche in altri casi simili.
Quando, verso le 7 di sera del 12 dicembre, Calabresi e gli altri dell'ufficio politico piombano nella seconda sede anarchica milanese -in fondo al secondo cortile di via Scaldasole 5, nel cuore del quartiere Ticinese- Pinelli è appena arrivato per lavorare un pò, con un altro compagno, alla sistemazione dei locali, in vista della prossima inaugurazione.Pinelli viene invitato a seguire i poliziotti in questura, anzi a precederli col motorino. c'era già stato tante volte, in via Fatebenefratelli: conosceva bene le regole del gioco, interrogatori, lusinghe e minacce. richieste di nomi, indirizzi, informazioni. Ma questa volta era diverso.
Tre giorni dopo, il corpo di Pino veniva scaraventato giù dalla finestra di una stanza dell'ufficio politico, al quarto piano della questura. Era la fine di una vita, l'inizio di una tragica farsa, tuttora in corso.

 

Paolo Finzi

 

 

 

 

 

 

I Funerali di Pinelli

Originariamente apparsa sul primo numero di "Linea d'ombra" ( e successivamente pubblicata nell'antologia "L'ospite ingrato"),questa testimonianza dello scrittore Franco Fortini rende l'atmosfera di quel freddo pomeriggio milanese di TRENTACINQUE anni fa. E sottolinea motivi e riflessioni che vanno ben oltre una cerimonia funebre.

L'altra mattina ho attraversato il centro mentre da uffici e fabbriche la gente convergeva in piazza del Duomo per i funerali degli assassinati. Mi è parso di non aver mai veduto una scena simile. Tra via Manzoni e Santa Margherita i portoni versavano gruppi fitti di impiegati che uscivano e si dirigevano verso la Galleria e il Duomo. Pareva si stesse muovendo tutta la città. I negozi si chiudevano, le banche abbassavano le saracinesche. Arrivavano a migliaia gli operai della zona Nord, infagottati nelle tute che celavano panni di casa; aggrondati in viso. Il freddo era molto duro, umido. Non ho voluto restare sulla piazza. Quando ho raggiunto Largo Cairoli fra la folla che si accalcava sui marciapiedi, ho visto passare tre o quattro furgoni funebri, diretti al nodo delle autostrade.
Oggi a scuola ho tenuto la mia terza lezione sul testo di Marcuse a una quindicina di allievi. Ho cominciato alle due e venti. Avevamo finito l'orario scolastico all'una. La presidenza ci ha concesso l'aula. Sono stati gli studenti a chiedermi di parlare dell'Uomo a una dimensione. Quella loro quasi incredibile volontà di impadronirsi del linguaggio di un filosofo della scuola di Francoforte, con Hegel alle spalle. Non hanno mai ascoltata una lezione di filosofia e vengono, quasi tutti, da famiglie operaie della più tetra periferia e dell'hinterland.
Stamani avevo scritto sulla lavagna un appello : si farà un 'ora sola su Marcuse -delle due previste- perchè c'è il funerale di Pinelli. Chi vuole ci venga. Poi ho detto -ma non so se ho fatto bene- che era meglio limitare la partecipazione. Quando alle tre e quaranta quando sono uscito ho capito che nessuno dei ragazzi avrebbe potuto venire. A quell'ora dovevano avviarsi al pullman e ai treni della Nord per tornarsene alle loro case. Ci sono quelli che abitano a un'ora e mezza di viaggio.

Seri ma non tesi

Ho percorso in auto i viali verso il ponte della Ghisolfa. C'era molto traffico, è l'iltimo sabato prima di Natale. Dopo via Bodio, sulla discesa del ponte che si prolunga verso occidente con un lungo nastro sopraelevato di cemento m'è venuto addosso, accecandomi, il sole già basso, al tramonto, rosso tutto faville. Riconescevo la Milano futurista, espressionista anarchica, degli anni Dieci.
I raggi trapassavano un'aria polverosa, gelata. Foglie e carta. I piazzali convulsi, l'erba secca sulle aiuole spartitraffico. La starda era nera di folla,fra le due pareti di case popolari. Donne, gli occhi rossi e lo scialle, si affacciavano. Qua e là, fotografi appostati.
Mi sono detto: quanta gente. Ma non era vero. Neanche un migliaio di persone. Quanti debbono aver avuto paura. C'e' un mazzo di bandiere nere con la A in rosso. Due o tre bandiere rosse. Di quelli della Quarta Internazionale , credo. Molti , forse i più, erano giovani; ma molti anche gli anziani e i vecchi. Quando sono in mezzo a una folla non mi rammento di essere già, per i più, un vecchio. La bara veniva avanti da fondo della strada, su di un furgone identico a quello che giorni fa aveva portato via Umberto Segre. Poi, tra la gente che guardava dalle finestre, venivamo noi.
Cercavo con gli occhi Vittorio e Giovanni e così mi volgevo, camminando e guardando in faccia la piccola folla. Non si sentiva neanche lo scalpiccio. I visi erano seri ma non tesi. Una vecchia magra, gli occhi rossi di lacrime. Mi ha salutato. L'ho riconosciuta, stupito: è una comunista, di quelle che per vent'anni hanno fatto la Milano alto-borghese -che ci ha portato fin qui. Di altri comunisti del PCI, ne ho veduti pochissimi: vecchi i più, alcuni vecchissimi. Come mai sono qui, confusi con i marx-leninisti e gli anarchici? Sono, ora capisco, i nostagici dello stalinismo, sempre più respinti ai margini del partito. Poco dopo essere uscito sul viale -la folla si è fermata. Ho visto R., alto, già molti capelli bianchi, sua moglie, piccola e muta. Goffredo dice che domattina Enzo Paci parlerà al cinema Anteo. Il PCI non voleva dare il locale, aspettasse dopo le feste. "Dopo le feste -avrebbe risposto Paci- siamo tutti in galera."
La polizia non permetteva al corteo funebre di proseguire. Insieme a N. sono arrivato a Musocco che era ormai crepuscolo. Faceva sempre più freddo. Abbiamo camminato svelti attraverso la pianura di croci e monumenti. E' sterminata, sino all'orizzonte non vedi che cippi e croci. Al campo 76 ci sarà stato un centinaio di persone, un gruppo cupo sulla terra calpestata, sotto il cielo verde e viola. Su di un viale poco discosto, sotto grandi pioppi ignudi, una ventina di agenti in borghese guardavano i compagni del morto. Eravamo ai due lati di una trincea. Qui scavano con una benna, giudicando a occhio quante bare dovranno entrare in giornata. Quando siamo arrivati i becchini stavano calando la bara di Pinelli. Accanto alla sua ho visto calare, poco prima, un'altra cassa. Abbiamo alzato i pugni a salutarlo. Un frate ha cominciato a dire in latino un preghiera. Pregava per quell'altro e i parenti dello sconosciuto si allontanavano da quella gente strana, venuta a sovrapporsi alla loro pena. Qualcuno, con tono brusco e professionale,mise in mano a una vecchia un foglio, scandendo il numero di riferimento della bara e del campo.

Un lungo momento

Intanto sopravveniva altra gente. Guardavano verso la cassa,in fondo alla trincea. Dall'altra parte del fossato ho rivisto la testa candida di Giovanni.Scivolando sulla fanghiglia, facendomi largo tra i fotografi, anch'io sono arrivato sul ciglio della fossa. Le bandiere nere si abbassavano. Un giovane con una corta barba ha detto con voce tranquilla alcune parole: "Pinelli è stato assassinato. Addio, Pino. Non dimenticheremo né te né quelli che ti hanno ucciso".
E' stato un lungo momento. Mi sono rammentato di quando, cinque anni fa, abbiamo messo in terra Raniero Panzeri, a Torino. La voce roca ha attaccato "Addio, Lugano bella". Erano in molti a cantare ma a bassa voce e il ritmo era lento, davvero una marcia funebre. Che quelle parole potessero essere ancora attuali, faceva impressione e rabbia. Ripetizione, tradizione. Quel canto pareva somigliare a quelli di sconosciute sette, perdute dentro le capitali moderne. M'è parso, per un attimo, di essere in una di quelle città degli Stati Uniti dove sopravvivono le memorie anarchiche del secolo scorso o dell'età di Sacco e Vanzetti. L'orgoglio della miseria e più ancora, l'orgoglio della sconfitta.
Era davvero così? Guardavo i giovani che, non senza incertezza cantavano ora una "Internazionale" stonata; per un tratto, anch'io li ho accompagnati. Vent'anni fa i vecchi carrarini che, dopo il funerale di uno di loro, venivano in riva al Magra a cantare le canzoni del Gori, non erano che una curiosità. Oggi non è più così, i libertari hanno ritrovato, dopo il 1956, non solo i propri morti ma anche le ragioni. E' in quel che accade alle verità che diventano vittoriose dopo la morte, dissolvendosi. Nello squallore di questa fedeltà sento il medesimo odore di cripta che è di certe cappelle protestanti. Eppure quanto di quelle, anche nel loro gelo, non è passato nel cattolicesimo dei nostri giorni. L'anarchia ha fecondato così, senza che ce ne avvedessimo, una buona parte degli operai e degli studenti; e Bakunin si è presa la sua rivincita su Marx.

Il gelo del cimitero

Viviamo nelle paure di una identità irrigidita, di una fedeltà che retrocede a superstizione : questa può essere una delle facce del decadentismo. Le superstizioni sanno addobbare magicamente il dolore e la sconfitta. Il gelo del cimitero, la pietà dei canti stonati, delle bandiere sulla fossa ingiusta, la sera di noi gravati dal senso di un capitolo di storia che si chiude, di un triste futuro di persecuzione e di silenzi: tutto questo è stupenda scena della fedeltà, armonia della ripetizione: ma è anche inganno e conforto. Veniamo via che è buio fitto. Vittorio Sereni, Marco Forti e Giovanni Raboni camminano con me sulla ghiaia del vialetto. Ci sorpassano coppie di giovani, nelle loro vesti militaresche, il braccio di lui intorno alla spalla di lei, carichi -così immagino- di rancore e amore. Che cosa sarà di loro? Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l'orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita un'età, cominciata ai primi del decennio. E' possibile il silenzio degli uomini dell'opinione, i difensori dello stato di diritto? Sì, è possibile. La paura è veloce. Lo dico e i vicini sono della mia stessa opinione. Chissà che cosa ci porta il domani. L'alone di luce della città è davanti a noi in fondo a viale Certosa e a Corso Sempione, oltre il Castello. Ci salutiamo, ci stringiamo le sciarpe al collo, ci separiamo, andiamo in cerca delle nostre auto sul piazzale

Franco Fortini

  

A Giuseppe (Pino) Pinelli, anarchico milanese, nato il 21 ottobre del 1928 e morto il 15 dicembre del 1969 precipitando dal quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio, è intestato il nostro archivio. La sua vita in breve. Terminate le scuole elementari Pino Pinelli dovette andare a lavorare, prima come garzone poi come magazziniere. Tuttavia la conclusione degli «studi ufficiali» non lo allontanò dai libri e dagli interessi culturali: lesse centinaia di volumi divenendo appassionato autodidatta. È del periodo della Resistenza l'inizio della sua militanza politica: fu giovane staffetta partigiana nella formazione socialista «Franco» (delle Brigate «Matteotti»). Si avvicinò all'anarchismo nel 1952, frequentando una scuola di esperanto. Fu in quell'occasione che Giuseppe incontrò Licia Rognini, che dopo pochi anni sposò. Pino e Licia ebbero due bambine di nome Silvia e Claudia. Nel 1954 Pino vinse un concorso ed entrò nelle ferrovie come manovratore. Nei primi anni Sessanta alcuni giovani crearono il gruppo Gioventù libertaria; Pino, nonostante avesse una quindicina di anni in più dei fondatori del gruppo, condivise l'esperienza con grande entusiasmo rappresentando un punto di contatto fra i nuovi arrivati all'anarchismo e i vecchi militanti. Nel 1965 è fra i promotori del Circolo Sacco e Vanzetti di viale Murillo, circolo che, nel 1968, si trasferì in piazzale Lugano prendendo il nome di Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. In questa atmosfera ricca di stimoli e slanci Pinelli si impegnò con grande generosità e capacità promuovendo diverse iniziative (tra cui la Croce nera anarchica e la sezione Bovisa dell'Unione sindacale italiana – USI) e creando occasioni di confronto fra lavoratori e studenti. Poi giunse il dicembre del 1969, con la «strage di Stato» di piazza Fontana, la montatura contro Valpreda e altri anarchici, il fermo «per accertamenti» di Pinelli, la sua uccisione. La immediata e forte campagna di contro-informazione, che coinvolse oltre agli anarchici anche parte della sinistra extra-parlamentare e parlamentare, fece sì che larghi settori dell'opinione pubblica non presero mai sul serio le versioni ufficiali (tra loro per altro contraddittorie) del «suicidio» (polizia) e del «malore attivo» (magistratura). La tragica morte di Pino diede luogo a vari libri e ispirò vari artisti, dal premio Nobel (1997) Dario Fo, con la sua opera teatrale Morte accidentale di un anarchico, al pittore Enrico Baj, con i suoi Funerali dell'anarchico Pinelli.