Quel volo dal 4° piano

Quando Giuseppe Pinelli, anarchico milanese quarantenne, piomba a terra dal quarto piano della Questura di Milano, l’ingranaggio si inceppa. L’accurata strategia iniziata con le bombe alla Fiera nell’aprile del 1969 e proseguita con gli attentati del 12 dicembre dello stesso anno, si blocca miseramente davanti all’imprevedibile, ostinata resistenza di un modesto ferroviere che ha capito tutto. Che ha intuito quale tragedia si prospetta per il Paese, e per il movimento anarchico, se anche lui capitolerà. Pinelli si rifiuta di stare al gioco, anche se questo sembra ormai inarrestabile, e frappone se stesso ai disegni criminosi del potere. Comincia così a sgretolarsi la più grande, ingannevole montatura mai ordita nella giovane storia della nostra repubblica: ed è per fargli pagare questa responsabilità che l’anarchico viene scaraventato dalla finestra da uno stuolo di poliziotti frustrati dall’impossibilità di soddisfare i disegni dei loro padroni.
Quel giorno, con quella morte, cambia la storia del nostro paese. La Strage di Milano, infatti, non sarà più l’opera di anarchici assetati di sangue, ma il progetto reazionario di una consistente fetta dell’apparato di potere, e d’ora in poi si chiamerà più appropriatamente Strage di Stato. Si apre un nuovo periodo, cominciano gli anni settanta, anni di lotte, di grandi tensioni e di grandi errori, anni di drammi personali e collettivi che segnano l’esistenza di una intera generazione, ma anche anni di grande generosità e intelligenza politica. Nelle pagine di questa rivista viene descritta un’altra storia di quegli anni, quella di Franco Serantini, il giovane anarchico pisano morto nel carcere di Pisa, or sono trent’anni, in seguito alle percosse subite dalla polizia in una giornata di lotta antifascista. E opportunamente si mette in rilievo come un filo rosso leghi i percorsi di vita dei compagni e delle storie di allora.

Un’epoca forse irripetibile

In un contesto così vivace e dinamico, anche l’ambiente intellettuale si mobilita e partecipa alla stagione dei cambiamenti con un impegno, spesso, di grande efficacia. E naturalmente lo spartiacque della strage di Piazza Fontana diventa uno dei punti focali della riflessione. Come si vede dalla bibliografia essenziale curata dai compagni pisani, furono molti gli interventi di intellettuali, giornalisti, scrittori che portarono il loro contributo allo straordinario lavoro di controinformazione che caratterizzò quegli anni, così come molti furono gli artisti che si ispirarono, più o meno direttamente, al fatto. Se in campo cinematografico non si può dimenticare Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Rosi, o Sacco e Vanzetti di Montaldo, che inizia con la storica inquadratura dell’anarchico Salsedo che precipita dal grattacielo della polizia di New York, in campo teatrale nasce quello che, a mio parere, è il capolavoro di Dario Fo: Morte accidentale di un anarchico.
Dario Fo è troppo conosciuto perché mi dilunghi a illustrarne i meriti, per cui mi limiterò qui a ricordare per brevi tracce la trama del testo e l’importanza che questo venne ad avere allorché il suo esilarante sberleffo al potere contribuì a far diventare patrimonio comune la percezione dell’inganno che si stava imbastendo. Il paradosso dell’artista, gioiosamente surreale, seppe capovolgere il senso tragico di quanto era avvenuto, e di questo prezioso risultato se ne avvalsero non solo i compagni dei movimenti, ma un’infinità di altre persone, solitamente distanti da qualsiasi forma di impegno e partecipazione. Un vero e proprio capolavoro, figlio di un’epoca forse irripetibile, al tempo stesso una grande opera d’arte e un grande intervento politico. Il suo successo fu enorme, e lo spettacolo girò per tutta Italia in spettacoli affollatissimi, nei grandi teatri come nei primi teatri tenda o nei palazzetti dello sport, e spesso, molto spesso, anche gli spazi più grandi erano insufficienti a contenere tutto quel pubblico che voleva “ridere” sulla Strage di Stato.

Sull’equivoco sull’assurdo sull’ironia

Tutto nasce da un’idea teatralmente geniale, quella di affidare a un “matto” maniaco dei travestimenti il compito di smontare, pezzo per pezzo, le innumerevoli versioni che la questura milanese ha fornito per giustificare i propri comportamenti. Il protagonista, usando una logica apparentemente delirante, lascia credere di voler soccorrere il questore e la sua corte in evidente crisi di credibilità e, fingendosi prima un poliziotto, poi un giudice, un agente segreto e un giornalista, ricostruisce il dramma della morte di Pinelli attraverso una serie inesauribile ed esilarante di divertentissime gag. Giocata sull’equivoco, sull’assurdo e sull’ironia, la sua logica, assolutamente folle e altrettanto stringente, ricostruisce, pezzo per pezzo, la terribile verità di quei giorni di dicembre, facendo apparire, nel crescente imbarazzo delle “autorità” ormai in balia del loro burattinaio, la oscena nudità della ragion di stato, tanto criminalmente quanto inefficacemente perseguita.
Ce n’è per tutti, davvero per tutti, in questo capolavoro di teatro politico, e nessuno dei tanti responsabili, fellone o codardo, piccolo o grande che sia, viene risparmiato dalla scatenata e beffarda irruenza dell’autore. Qui ripropongo, fra le altre, una scena rimasta famosa, quella delle “tre scarpe del Pinelli”. È forse l’esempio più pieno di come Dario Fo sia riuscito a trasformare le grottesche affermazioni dei poliziotti responsabili di quella tragica morte in un crescendo di irresistibile sarcasmo. E a svelare come surreale non fosse il comportamento del “matto” che girava travestito per la Questura di Milano, ma le menzogne inventate, con grande affanno, da un Potere messo alle corde. Tre scarpe, appunto, e “una risata che li seppellirà!”.

Contro le ombre fumose

Naturalmente in quegli anni furono parecchi i lavori, di taglio politico o biografico, ispirati alle vicende della Strage di Stato. Qui, alla lettura di alcune pagine di Morte accidentale di un anarchico, ho voluto affiancare brani che, a mio parere, possono dare un’idea di quanta ricchezza, politica e umana, si espresse allora. Parto con la fondamentale Nota degli Autori che fa da prefazione all’opera collettiva La Strage di Stato (Roma, Nuova Sinistra, 1970), forse il libro più importante in assoluto, se non altro per il preziosissimo e insostituibile ruolo di decostruzione delle trame statali. Se quello fu un vero e proprio manuale per i compagni impegnati a lottare contro lo stato, altrettanto importanti furono due testi che unirono alla passione politica un tratto di profonda e partecipe umanità. Il primo è di Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage (Milano, Feltrinelli, 1971), nel quale la nostra affezionata amica tratteggiò, per un pubblico enormemente più vasto di quello raggiunto dalla stampa anarchica, il ritratto del compagno cui dedichiamo la rubrica di questo mese; il secondo testo è di Piero Scaramucci, Licia Pinelli, una storia quasi soltanto mia (Milano, Mondadori, 1982), dove il giornalista rende omaggio al coraggio e alla dignità di una donna che, per fortuna di tutti, seppe resistere, con caparbietà, alle interessate sollecitazioni e alle continue pressioni a “lasciare perdere”. Per chi ricorda quegli anni, la figura di Licia fu quasi altrettanto importante di quella del marito Pino, e per questo penso che anche il suo sia un mirabile “ritratto in piedi”. Chiudo le citazioni con alcune pagine del recente Bombe e segreti. Piazza Fontana 1969 (Milano, Elèuthera, 1997), del nostro compagno Luciano Lanza, fra i protagonisti e i testimoni di quelle vicende. È un libro ancora sul mercato, e ne consiglio vivamente la lettura, perché grazie alla sua chiarezza espositiva e alla lucidità delle argomentazioni, fuga definitivamente tutte le ombre fumose che ancora vorrebbe spargere il Potere.

Massimo Ortalli

È lapalissiano,
direi ovvio

di Dario Fo
 

MATTO Siamo appunto al primo tempo…andiamo per ordine: verso mezzanotte l’anarchico, preso da raptus, è sempre lei dottore che parla, preso da raptus si è buttato dalla finestra sfracellandosi al suolo. Ora, che cos’è il “raptus”? Dice il Bandieu che il “raptus” è una forma esasperata di angoscia suicida che afferra individui anche psichicamente sani, se in loro è provocata un’ansia violenta, un’angoscia disperata. Giusto?

QUESTORE E COMMISSARIO Giusto.

MATTO Allora vediamo, chi, che cosa ha procurato quest’ansia, quest’angoscia: non ci resta che ricostruire l’azione: tocca a lei entrare in scena, signor questore.

QUESTORE Io?

MATTO Sì, avanti: le spiace recitarmi il suo famoso ingresso?

QUESTORE Scusi, quale famoso?

MATTO Quello che ha determinato il raptus.

QUESTORE Signor giudice …ci dev’essere un equivoco, non l’ho fatta io quell’entrata, ma un mio vice, un collaboratore…

MATTO Eh, eh, non è bello buttare le responsabilità sui propri dipendenti, anzi è bruttino… Su, si riabiliti e reciti la parte…

COMMISSARIO SPORTIVO Ma signor giudice, è stato uno di quegli espedienti a cui si ricorre spesso… in ogni polizia, così per fare confessare l’indiziato.

MATTO Ma chi l’ha chiamata lei? Lasci parlare il suo superiore, per piacere! Ma sa che è un bel maleducato? D’ora in poi risponda solo se interrogato… capito? E lei dottore prego, mi reciti quest’entrata, in prima persona.

QUESTORE D’accordo. Le cose sono andate più o meno così: l’anarchico indiziato si trovava lì, proprio dove è seduto lei.
Il mio collabora… cioè io, sono entrato con una certa irruenza…

MATTO Bravo!

QUESTORE E l’ho aggredito!

MATTO Così mi piace!

QUESTORE Caro il mio manovratore, nonché sovversivo… devi piantarla di prendermi in giro…

MATTO No, no per favore…attenersi al copione.
(Mostra i verbali) Qui non c’è censura… non ha detto così!

QUESTORE Beh, sì, ha detto: hai finito di prendermi per il sedere!

MATTO S’è limitato al sedere?

QUESTORE Sì, glielo giuro.

MATTO La credo, vada avanti. Come ha chiuso?

QUESTORE Abbiamo le prove che le bombe alla stazione sei stato tu a metterle.

MATTO Quali bombe?

QUESTORE (abbassando il tono: discorsivo) Sto parlando dell’attentato del venticinque…

MATTO No, risponda con le stesse parole di quella sera. Immagini che sia io il ferroviere anarchico. Su, coraggio, quali bombe?

QUESTORE Non fare lo gnorri! Lo sai benissimo di che bombe parlo: quelle che avete messo nei vagoni alla stazione centrale otto mesi fa.

MATTO Ma voi le avevate davvero queste prove?

QUESTORE No, ma come le stava appunto spiegando il commissario prima, si trattava di uno di quei soliti inganni a cui si ricorre spesso noi della polizia…

MATTO Ah ah… che lenze… (E sferra una manata sulle spalle del questore che resta allocchito).

QUESTORE Però avevamo dei sospetti… Dal momento che l’indiziato era l’unico ferroviere anarchico di Milano… era facile arguire che fosse lui…

MATTO Certo, certo è lapalissiano, direi ovvio. Così, se è indubbio che le bombe in ferrovia le abbia messe un ferroviere, possiamo anche arguire di conseguenza che al palazzo di giustizia di Roma, quelle famose bombe le abbia messe un giudice, che al monumento al milite ignoto le abbia messe il comandante del corpo di guardia e che alla banca dell’agricoltura, la bomba sia stata messa da un banchiere agrario, a scelta.
(…)
MATTO ...e veniamo al fatto vero e proprio: al salto.

COMMISSARIO D’accordo.

MATTO Il nostro anarchico, preso da raptus, vedremo poi di ritrovare insieme una causa un po’ più credibile a questo folle gesto… si alza di scatto, prende la rincorsa… Un momento, chi gli ha fatto il “predellino”?

COMMISSARIO Come: il “predellino”?

MATTO Insomma, chi di voi si è messo accanto alla finestra con le dita intrecciate all’altezza del ventre: così. Per fargli appoggiare il piede…e: zam! Un colpo che gli fa sorpassare il parapetto al volo!

COMMISSARIO Ma che dice, signor giudice, vuole che noi…?

MATTO No, per carità, non scaldatevi… io domandavo così… pensavo che, essendo piuttosto altino come salto, con così poca rincorsa, senza aiuto dall’esterno… io non vorrei che qualcuno potesse mettere in dubbio…

COMMISSARIO Non c’è nulla da mettere in dubbio signor giudice, gliel’assicuro… ha fatto tutto da solo!…

MATTO Non c’era manco una predella di quelle da competizione?

COMMISSARIO No…

MATTO Il saltatore portava forse scarpe con tacchetti elastici alla Brumel?

COMMISSARIO No, nessun tacchetto…

MATTO Bene, cos’abbiamo: da una parte un uomo alto sì e no 1,60, solo, senza aiuto, privo di scale… dall’altra una mezza dozzina di poliziotti, che pur trovandosi a pochi metri, anzi uno addirittura presso la finestra, non fanno in tempo ad intervenire…

COMMISSARIO Ma è stato così all’improvviso…

AGENTE E lei non ha idea di come fosse agile quel demonio…io ho fatto appena in tempo ad afferrarlo per un piede.

MATTO Oh! Vedete, vedete che la mia tecnica della provocazione funziona: lei l’ha afferrato per un piede!

AGENTE Sì, ma mi è rimasta in mano la scarpa, e lui è andato di sotto lo stesso.

MATTO Non ha importanza. Importante è che sia rimasta la scarpa. La scarpa è la prova inconfutabile della vostra volontà di salvarlo!

COMMISSARIO Certo, è inconfutabile!

QUESTORE (alla guardia) Bravo!

AGENTE La ringrazio signor quest…

QUESTORE Zitto!

MATTO Un momento… ma qui qualcosa non quadra. (Mostra un foglio ai poliziotti) Il suicida aveva tre scarpe?

QUESTORE Come, tre scarpe?

MATTO E sì, una sarebbe rimasta tra le mani del poliziotto… L’ha testimoniato lui stesso qualche giorno dopo il fattaccio… (Mostra il foglio) Ecco qui.

COMMISSARIO Sì, è vero…L’ha raccontato ad un cronista del “Corriere della Sera”.

MATTO Ma qui, in quest’altro allegato, si assicura che l’anarchico morente sul selciato del cortile, aveva ancora ai piedi tutte e due le scarpe. Ne danno testimonianza gli accorsi, fra i quali un cronista dell’“Unità”, ed altri giornalisti di passaggio!

COMMISSARIO Non capisco come possa essere successo…

MATTO Neanch’io! A meno che quest’agente velocissimo abbia fatto in tempo, precipitandosi per le scale, a raggiungere un pianerottolo del secondo piano, affacciarsi alla finestra prima che passasse il suicida, infilargli la scarpa al volo e risalire come un razzo al quarto piano nell’istante in cui il precipitante raggiungeva il suolo.

QUESTORE Ecco, vede, riprende a fare dell’ironia!

MATTO Ha ragione, è più forte di me… mi scusi. Dunque, tre scarpe… Scusate, non vi ricordate se per caso fosse tripede?

QUESTORE Chi?

MATTO Il ferroviere suicida… se per caso aveva tre piedi, è logico portasse tre scarpe.

QUESTORE (seccato) No, non era tripede!

MATTO Non si secchi, la prego… a parte che da un anarchico ci si può aspettare questo ed altro!

AGENTE Questo è vero!

QUESTORE Zitto!

COMMISSARIO Che guaio, per la miseria… bisogna trovare una ragione plausibile, se no…

MATTO L’ho trovata io!

QUESTORE Sentiamo.

MATTO Eccola: Senz’altro una delle scarpe gli era un po’ grande, e allora, non avendo un sottopiede a portata di mano, ha infilato un’altra scarpa più stretta, prima di infilare quella larga.

COMMISSARIO Due scarpe nello stesso piede?

MATTO Sì, che c’è di strano?… come con le calosce, vi ricordate? Quelle soprascarpe di gomma che si portavano una volta…

QUESTORE Appunto, una volta.

MATTO Ma c’è chi le porta ancora… anzi, sapete che vi dico? Che quella che è rimasta fra le mani dell’agente non era una scarpa, ma una caloscia.

COMMISSARIO Ma no, è impossibile: un anarchico con le calosce!… roba da gente all’antica… da conservatori…

MATTO Gli anarchici sono molto conservatori…

QUESTORE Già, ed è per questo che ammazzano i re!

MATTO Certo, per poterli conservare imbalsamati…
Se uno aspetta che i re muoiano vecchi, incartapecoriti, consunti dalle malattie, poi si disfano, si decompongono, non si riesce più a conservarli…Invece così, ammazzati di fresco…
 

Tratto da: Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico, Torino, 1974.

Perché questa
controinchiesta
degli autori de “La strage di Stato”
 

Questa controinchiesta – condotta da un gruppo di militanti della sinistra extra-parlamentare e iniziata nel periodo in cui, con il pretesto degli attentati del 12 dicembre, si scatenava la caccia all’”estremista di sinistra” – non nasce da esigenze di legittima difesa: per denunciare “le disfunzioni dello stato democratico” o “la violazione dei diritti costituzionali dei cittadini”. Sappiamo che questi diritti, quando esistono, sono riservati esclusivamente a chi accetta le regole del gioco imposto dai padroni: l’unanimismo dei servi o l’opposizione istituzionale dei falsi rivoluzionari. Per noi, “giustizia di classe” e “violenza di stato” non sono definizioni astratte o slogans propagandistici, ma giudizi acquisiti con l’esperienza: gli operai, i contadini, gli studenti, li verificano ogni giorno nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole, nelle piazze, e non soltanto nelle “situazioni di emergenza”. La repressione preferiamo chiamarla rappresaglia. Essa rappresenta un parametro di incidenza rivoluzionaria: sappiamo che il sistema colpisce con tanta più virulenza quanto più i modi e gli obiettivi della lotta sono giusti, e che l’unica, vera, amnistia che conti, sarà promulgata il giorno in cui lo stato borghese verrà abbattuto.
Per questo non ci stupisce né ci indigna il ricorso dei padroni alla strage e la trasformazione di 16 cadaveri in formula di governo; né che l’apparato ne copra le responsabilità con l’assassinio e con l’incarcerazione di innocenti. Lasciamo ai “democratici” il compito di scandalizzarsi, di chiedere accertamenti e indagini parlamentari, di gridare: “Questo non deve accadere! Qui non siamo in Cambogia!” come se esistessero tanti imperialismi anziché uno solo, come se i sistemi che esso usa abitualmente in Asia, Africa, America Latina o in Medio Oriente, fossero privilegio esclusivo dei popoli di colore o sottosviluppati: inammissibili per un “paese di alta civiltà”, come il nostro. Fin dall’inizio eravamo coscienti che non avremmo potuto fornire agli altri militanti molto di più di quanto essi già sapevano sulle responsabilità dirette e indirette che stanno dietro la strage di Milano.
Prima ancora che i giornali progressisti definissero “oscuro suicidio” la morte di Giuseppe Pinelli, sui volantini alle fabbriche e all’università, sui giornali rivoluzionari e sui muri delle città italiane, i colpevoli venivano indicati con nome e cognome. Quando i deputati della sinistra ufficiale denunciavano “l’oscura manovra reazionaria” rivolgendo appelli di unità antifascista a quegli stessi settori politici che di questa manovra, nient’affatto oscura, erano i gestori e i portavoce ufficiali, migliaia di militanti si scontravano in piazza con la polizia gridando esplicitamente i risultati della loro analisi di classe. Il significato di questa controinchiesta, quindi, è quello di offrire ai compagni un modesto strumento di lavoro per l’approfondimento e la diffusione a livello popolare dell’analisi sullo stato borghese; perché, come ha detto Lenin prima di Gramsci, la verità è rivoluzionaria. Siamo convinti, nello stesso tempo, che essa fornisca la dimostrazione di quanto e meglio avrebbero potuto fare – se solo lo avessero voluto – le forze della sinistra istituzionale, politiche e sindacali. Le quali però non hanno voluto perché il farlo significava dimostrare che dietro le bombe di Milano e di Roma, dietro la morte di Giuseppe Pinelli, esistono complicità che non lasciano spazi riformistici.
L’abbiamo dedicata a due compagni: Giuseppe Pinelli e Ottorino Pesce.
Il primo, un operaio, è rimasto ucciso per predisposizione storica, come i suoi compagni che quasi ogni giorno muoiono nei cantieri e nelle fabbriche dei padroni; il secondo giacché aveva scelto di mettersi dalla parte degli sfruttati anziché degli sfruttatori, pretendendo di rifiutare il ruolo sociale che gli era stato assegnato. Lo ha fatto dichiarando – proprio quando la sinistra ufficiale assisteva pressoché impassibile alla caccia all’”anarchico” e al “maoista” – che la giustizia italiana è una giustizia di classe: la stampa “independente” lo ha linciato, i magistrati “progressisti” lo hanno invitato alla prudenza e al tatticismo. È morto d’infarto il 6 gennaio 1970.

Un gruppo di militanti della sinistra extra-parlamentare (13 dicembre 1969-13 maggio 1970).

Tratto da: AA.VV., La Strage di Stato, Roma, 1970.

 

“Non ero
a conoscenza...”
di Camilla Cederna

No, davanti ai giudici, Calabresi non è più il prestigioso personaggio di allora. Ha sì il suo pullover a collo alto, sotto il completo rigato gangster, sempre debole il mento, ben curata la basetta, ma ogni tanto nei momenti di tensione un irrefrenabile tic gli fa premere la già risoluta mascella. Ha perso l’aria di superiorità a lui solita, (anche perché al suo apparire il pubblico scatta in grida ritmate: “Ass-a-ssi-no! Ass-a-ssi-no!”), e alla pari del più modesto brigadiere appare un semplice esecutore di ordini, è soltanto un oggetto in mano ai superiori. Gli ordinano di andare in via Scaldasole a prendere gli anarchici e lui ci va e li prende; gli ordinano di andare il giorno dopo a Basilea a interrogare il tale e lui esegue; lunedì 15 lo incaricano di interrogare Pinelli, ma solo sui suoi rapporti con Valpreda, guai a sconfinare, e lui non sconfina. Sulla posizione di Pinelli non sa niente, e tantomeno sui suoi alibi. (“Non ero a conoscenza, ero all’oscuro, non toccava a me interessarmi”), non sa perché deve interrogarlo solo da qui fin lì, né gli viene in mente di chiederlo, si guarda bene dal contestargli qualcosa, finché, a verbale ultimato, prende il verbale per portarlo dal dottor Allegra, e il suo compito è finito.
Se allora sapeva che Pinelli era un poco di buono, adesso sa anche lui che era una gran brava persona con la quale si descrive nei migliori rapporti: gli regalava libri, gli offriva il caffè, con lui “aveva scambi di idee e di vedute,” e l’interrogatorio non era un interrogatorio ma un dialogo, magari costellato di battute. Una bugia ammette si di avergliela detta durante il dialogo, e non certo verso mezzanotte, ma quattro ore prima, però era più che altro “una frase a effetto,” era “Valpreda ha parlato!” e nonostante il pallore e la drammatica risposta, in serata Pinelli era sempre stato sereno e disteso. (“Sì, ma per terra!” urla il pubblico che appena può lo rimbecca.)
(...) La figura di funzionario che non guarda gli orologi e non è nemmeno tanto spedito nel dire bugie, a Calabresi gliela fan fare gli avvocati Gentili e Guidetti Serra, ma lui non si scompone: chissà, forse la frase: “Questa è la fine dell’anarchia!”, Pinelli può averla ripetuta anche negli ultimi momenti, tanto lui non c’era. La bella figura gliela vuol far fare Lener, naturalmente, quando a proposito delle cortesie usate al ferroviere il Natale 1968, rivanga l’episodio del libro di Emanuelli, e ahimè per colpa sua, in aula si ride ancora. “Allora Pinelli lo aveva contraccambiato con un altro libro: era Spin river” dice testualmente il virtuoso partenopeo della parola, quindi “un’antologia di canti negri,” aggiunge, per offrire una nota di cultura in più. Dato poi che il gioco dello scaricabarile è la specialità di Calabresi (“…esulava dalle mie competenze, chiedetelo ad Allegra!”) il pubblico irriverente sbotta: “Calabresi buttati, ché Allegra ha parlato!”.

Tratto da: Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Milano, 1971.

 

...c’è morte e morte
di Piero Scaramucci

Piero Scaramucci: Il 12 dicembre del ’69 un paio d’ore dopo la bomba di piazza Fontana, Pino è stato portato in questura.

Licia Pinelli: È stato invitato. Calabresi l’ha trovato in via Scaldasole, alla sede anarchica, e gli ha detto di seguirlo con il suo motorino.

Tu quando l’hai saputo?

Io non sapevo niente, non sapevo neanche della bomba di piazza Fontana perché il mio televisore era rotto. Alle 20 sono venuti dei poliziotti a cercare Pino e visto che non c’era hanno telefonato in questura, e in questura hanno detto che era già li. Così ho saputo che era fermato. Ma non sapevo il perché.
Poi verso mezzanotte ha telefonato Pino, diceva che erano in tanti fermati e quindi avrebbe tardato. Me la ricordo come una telefonata rassicurante. Gli ho detto che erano venuti i poliziotti a cercarlo, che avevano fatto una perquisizione e si erano portati via delle carte sue. La prima perquisizione della mia vita, spero anche l’ultima. Sai come ti senti insultata quando guardano le tue cose! Io ho un senso del possesso molto forte. Poi guardano una copia di tesi e ti chiedono se lavori per hobby! Con tutti i soldi che giravano per casa era proprio il caso di lavorare per hobby…

(...). Hai chiesto ai poliziotti perché cercavano Pino?

Sì, ma mi hanno dato una risposta generica e io non ho insistito. Sai che ci si comporta da cretini certe volte? E continuavo a non sapere che c’era stata la bomba di Piazza Fontana. Il mattino dopo, sabato, Pino mi ha ritelefonato dalla questura per dirmi di avvisare in Ferrovia che non poteva andare in servizio, gli avevano consigliato di dire che era ammalato. Ma di piazza Fontana non abbiamo parlato e anche per tutta la giornata di sabato sono rimasta in casa senza sapere niente.
(...). Verso le 22,30 hanno ritelefonato dalla questura dicendo di cercare il libretto di viaggio di Pino. Mi pare che fosse proprio Calabresi. Gli ho chiesto:
“Ma mio marito non è a San Vittore?”
“No,” mi ha risposto, “ è qui da noi dove sta molto meglio.”

Ti ha detto perché voleva il libretto ferroviario?

Volevano vedere se era andato a Roma nell’agosto quando c’erano state le bombe sui treni. Sai che avevano incolpato gli anarchici per le bombe sui treni e alla Fiera di Milano, quindi cercavano dei collegamenti...

A quell’epoca qualcuno in polizia sapeva già che quegli attentati li avevano fatti i fascisti, il gruppo di Freda e Ventura. La questione del libretto dimostra che cercavano qualcosa per incastrare Pino, ma non per la strage di Piazza Fontana.

E poi, figurati: se uno va a mettere delle bombe sui treni adopera il libretto di viaggio?
Ho trovato il libretto, ho richiamato Calabresi e ho chiesto se dovevo portarlo io, ma mi ha detto: “No, mandiamo noi, non si disturbi”. Alle 23 è arrivato un agente a prelevarlo.
Dopo siamo state svegliate dai giornalisti ed è cominciato quell’incubo. Calabresi che mi risponde: “Abbiamo da fare”. L’ospedale, mia suocera in mezzo a tutta quella gente che non le dice niente, come se non parlasse, non chiedesse, non ci fosse. Hanno aspettato che fosse ben morto.

Forse Pino avrebbe potuto dirle qualcosa.

Come ha detto qualche parola ai barellieri.
Che però non sono riusciti a capire. Forse avrebbe detto. Per precauzione hanno aspettato che fosse morto, così non parlava più.
E poi di nuovo a casa, è arrivato un altro amico, stravolto: “Cominciano i giornali, che Pino si è suicidato”, forse era stato in qualche redazione o erano uscite le prime edizioni, non ricordo bene. Ricordo l’atmosfera della stanza ma non le parole. Una veglia funebre. C’era Bruno, c’era Gigi, la mamma di Pino, la mia gatta e c’ero io.
La mia gatta, poverina, sembrava che avesse capito tutto, che avesse seguito tutto, era più disperata di me: sembrava che volesse consolarmi, sai come fanno i gatti quando ti si strusciano contro facendo le fusa.
Poi ho telefonato ai miei genitori, a tutti i parenti fuori Milano, ho telefonato a un compagno di Pino per avvisarlo. Quando io non ce la facevo più era Bruno che telefonava, e quelli non volevano credere e chiedevano di parlare con me. Un incubo. Vedi, la morte è una cosa normale come la vita, ma c’è morte e morte. Ti viene l’odio per chi ti impone la morte, la morte in questo modo infamante, schifoso.

Tratto da: Piero Scaramucci, Licia Pinelli. Una storia quasi soltanto mia, Milano, 1982.

 

Una logica assurda
di Luciano Lanza

La strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, segna un punto fondamentale della storia italiana del dopoguerra. Quel giorno si materializza la criminalità di una classe politica che, per conservare il potere di fronte all’avanzata del “comunismo”, è pronta a tutto. Anche a lasciare morti sul suo percorso pur di non veder messa in discussione la sua leadership. Quella strage non è una pagina oscura, non è la “notte della repubblica”, è un capitolo chiaro, preciso: meglio i morti che il cambiamento. E di morti, negli anni successivi, ce ne sono stati molti. Per mano soprattutto della destra, ma anche della sinistra. Un gioco perverso: la destra aveva attaccato, la sinistra doveva rispondere. Anzi, doveva innalzare il “livello di scontro”.
Una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana. In questa ottica la bomba di piazza Fontana ha segnato e scritto la storia. Che è anche una storia infinita. Dagli anarchici “pazzi criminali” si passa ai nazisti e fascisti colpevoli. Accomunati sul banco degli imputati, verranno assolti tutti. E i colpevoli? Non esistono. Poi rispuntano responsabilità dei nazi-fascisti quando i principali colpevoli non possono essere più condannati. Infine vengono alla luce 150 mila fascicoli dei servizi segreti, abbandonati alla periferia di Roma, dove sarebbero nascosti altri misteri. Una vera commedia all’italiana, se non fosse una tragedia.
Una tragedia che vede negli attentati del dicembre 1969 il momento centrale di una strategia che doveva portare, nelle intenzioni degli esecutori, a un regime autoritario, ma che è stata gestita dai più alti organi dello Stato per mettere fuori gioco gli avversari politici e per creare un clima di paura che perpetuasse la centralità della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati. In questo senso la bomba di piazza Fontana è l’analizzatore della società italiana: mette a nudo il ruolo di ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia. Tutti coinvolti in un progetto criminale. È l’unica definizione possibile.
Ricostruire quell’avvenimento, che vede le sue premesse nelle bombe del 25 aprile e del 9 agosto 1969, significa dunque individuare l’essenza nascosta dello Stato italiano. Perché non si è di fronte a organismi deviati dai loro compiti. Questa è una grande favola che i mezzi d’informazione hanno cercato di raccontare quando le responsabilità dei “servitori dello Stato” non erano più occultabili. La realtà, infatti, è molto più semplice e sconcertante: “La presenza di settori degli apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata ‘deviazione’, ma normale esercizio di una funzione istituzionale”, scrive il giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, che dal 1989 al 1997 ha condotto una nuova indagine sull’eversione di destra e su piazza Fontana. Allora si comprende come il termine “strage di Stato” assuma una valenza che va al di là dello slogan politico, perché individua invece una verità inconfutabile.
Infine una precisazione. Questo libro è di parte, ma non partigiano. Nel senso che io, l’autore, ho vissuto molte di quelle vicende come anarchico del Circolo Ponte della Ghisolfa. Ho condiviso la mia attività politica (fino al 15 dicembre 1969, giorno della sua morte) con Giuseppe Pinelli e ho partecipato attivamente alla campagna per la liberazione di Pietro Valpreda. Sono quindi coinvolto, anche sul piano emozionale. Ma ho cercato, grazie anche ai quasi tre decenni trascorsi, di pormi un traguardo: raggiungere il massimo di obiettività possibile.

Tratto da: Luciano Lanza, Bombe e segreti. Piazza Fontana 1969, Milano 1997.