(Perù) La Protesta e l’Andinizzazione dell’Anarchismo nel Perù, 1912 – 1915


GERARDO LEIBNER

Università di Tel Aviv

In questo articolo analizzeremo nel quale la realtà nazionale fu imposta ai tentativi d’introduzione di una ideologia universale: l’anarchismo nel Perù, o più precisamente, l’anarchismo è il Perù indigena. Il nostro analisi si centrerà nel processo di compenetrazione dell’anarchismo con l’utopia andina di ristaurazione nel antico impero inca, il Tahuantinsuyo. L’evoluzione ideologica in questo senso fu spinta principalmente dall’aprossimazione della prattica rivoluzionaria alla realtà indigena e ai conflitti agrari, e porto al culmine in mezzo delle grandi ribellioni indigene nelle Andes del sud peruviano durante la prima metà degli anni venti.

Nel suo rilevatore libro Ayllus del Sol – Anarquismo y Utopía Andina (1), Wilfredo Kapsoli espone le relazioni e connessioni esistenti tra militanti di ideologia ed affiliazione anarchica e vari dei dirigenti contadini che liderarono le grandi ribellioni indigene, relazioni che si strinsero nel marco del Comitato Pro-Diritto Indigena – Tahuantinsuyo (1920 -23), durante i tre congressi indigeni che questo organizzò a Lima, e con la creazione della Federación Indígena Obrera Regional Peruana (1923). Kapsoli presenta non solo la collaborazione pratica e l’appoggio solidale da parte degli anarchici al movimento contadino, bensì qualcosa nonostante più significativo, un’articolazione ideologica molto singolare dell’anarco-sindacalismo – ideologia europea, universalista, razionalista e progressista nella sua visione della storia – con l’utopia andina di restaurazione del Tahuantinsuyo. La sintesi ideologica non appare sempre elaborata in maniera esplicita, ma si deduce dalle connessioni rivelate da Kapsoli. È probabile che, più che una sintesi intellettuale coscientemente ponderata ed elaborata, dagli attori di quelle ribellioni, dirigenti indigeni e militanti anarchici allo stesso modo, si trattò del risultato naturale della sua prattica rivoluzionaria e dell’avvicinamento ed influenze mutue che si andarono dando durante la stessa. Da parte degli anarchici, si trattò principalmente di un’idealizzazione dell’impero incaico (2); idealizzazione che permise loro di integrarsi nelle ribellioni indigene di carattere milenarista e restaurazionista.

Tuttavia, in questo articolo cercherò di illuminare una tappa anteriore a trattata da Kapsoli; una tappa nella quale consideriamo che si processa il cambiamento sostanziale nell’atteggiamento degli anarco-sindacalisti limegni rispetto alla questione indigena, creandosi durante la stessa una nuova attitudine ideologica, cosciente ed esplicita. Questo cambiamento rimase registrato brevemente nel giornale La Protesta e costituì la base dell’utopia andina condivisa dai dirigenti indigeni ed anarchici durante i primi anni della decade del ’20. Si tratta di un profondo viraggio concettuale che potrebbe essere considerato come la prima peruvizzazione o andinizzazione di un’ideologia rivoluzionaria europea, e cercheremo di dimostrarlo nelle prossime righe.

L’anarchismo e l’indigenismo in González Prada

Dobbiamo cominciare a riferirci necessariamente a Manuel González Prada, la figura più distaccata dell’anarchismo nel Perù, e chi è considerato come il fondatore del radicalismo politico peruviano. In González Prada si presenta un caso speciale, nel quale convivono parallela e separatamente un atteggiamento indigenista critica e radicale che si nutre della critica alla realtà del Perù aristocratico, costiero e bianco, con un’ideologia anarchica universale, senza che quest’ultima sia influita per la prima.

González Prada (3) non iniziò la sua traiettoria politica ricevendo la rivelatrice luce dell’anarchismo europeo. Egli non possedeva all’inizio più che un atteggiamento (qualcosa meno elaborato di un’ideologia) radicale, laica, democratica, positivista e, soprattutto, patriottica, quando, terminando la guerra del Pacifico (1879-83), cominciò ad emergere con le sue acute critiche alla società oligarchica e allo stato peruviano. In 1891 partecipò alla fondazione di un nuovo partito politico radicale, l’Unión Nacional , ma alcuni mesi dopo viaggiò all’Europa, dove si avvicinò ad intellettuali radicali francesi e spagnoli, e finì adottando l’ideologia anarchica (1891-98).

Quello che interessa, nel nostro caso, è che l’atteggiamento radicale di González Prada cominciò a svilupparsi ideologicamente in funzione dalla realtà peruviana, più concretamente, con la bancarotta della vecchia oligarchia e della sua “nazione” peruviana, aristocratica, costeño e criollo. Benché, per certo, la sua educazione ispana e l’influenza della cultura francese costituirono le sue fonti concettuali e le sue fornitrici ideologiche, poiché egli stesso era un prodotto della società criolla, costiera ed aristocratica al che tanto fustigo (4). Conoscitore e critico acuto della decadente aristocrazia limeña, non arrivò mai, ciononostante, a conoscere la realtà andina. Sollevandosi contro l’ispanismo decadente che predominava allora nella società limeña, assorbì la cultura francese e l’introdusse nei circoli intellettuali di Lima. Il suo radicalismo peruviano si aggravò più ancora di fronte alla ricomposizione dell’oligarchia nazionale ampliata, che da 1895 abbracciava nuovi settori provinciali e politici (5), ma continuava a mantenere il suo carattere aristocratico ed esclusore delle masse popolari. Sebbene il suo incontro con l’anarchismo europeo proporzionò a González Prada un strumentale ideologico che fece possibile la profondizzazione e radicalizzazione della sua critica della realtà peruviana, le analisi peruviane di González Prada non scagionarono nel suo mondo concettuale europeo, né nella sua concezione del mondo.

In González Prada si percepisce una separazione tra la critica e l’attitudine contestataria nella società peruviana, da una parte, ed un’ideologia com-pletamente universalista, di origine europea e che tratta di temi molto lontani alla realtà peruviana, per altro. Sebbene González Prada arrivò a definire gli indigeni andini come alla vera massa della nazione peruviana (6) e criticò virulentamente lo sfruttamento a che erano sottomessi, non arrivò a collegare tra la realtà andina e la sua ideologia, meno ancora, formulare qualche programma rivoluzionario adeguato a essa. Il più lontano che riuscì ad andare – abbastanza più che la maggioranza dei suoi contemporanei -, nel suo articolo “Nuestros Indios” (7) che iniziò in 1904 e non riuscì a completare e pubblicare prima della sua morte (1918), fu in considerare il problema come una questione sociale vincolata al servilismo ed il carattere feudale del regime di haciendas, impossibile da risolvere, pertanto, per mezzi pedagogici (che era la posizione più corrente tra i liberali positivisti), ed offrendo come unica alternativa la resistenza violenta ed individuale di fronte allo sfruttatore. Alternativa altrui al carattere organizzato, sociale e culturale dell’anarchismo che egli stesso auspicava, quanto più all’anarco-sindacalismo egemonico tra gli anarchici del Perù.

González Prada trasmise all’anarchismo peruviano un atteggiamento di critica concreta ed implacabile alla società peruviana e, dentro di essa, un chiaro indigenismo, benché limitato per la sua ignoranza e svincolazione con la realtà andina, con le continue ribellioni (che solitamente difendeva dalla stampa) e lo spirito ed ideologia degli indigeni, ed i processi economici e sociali che colpivano giornalmente alla sierra. González Prada fu da una parte un radicale peruviano – criollo e costeño – e, per un altro, un anarchico, senza arrivare ad una sintesi che lo trasformi in anarchico peruviano, e senza superare le sue limitazioni costeñas. Per ciò, l’incontro del quale parliamo sarà scoperto posteriormente.

Anarchismo, eurocentrismo ed il dilemma indigeno

I gruppi anarchici che si formarono agli inizi del secolo in Lima, in Arequipa ed in altre città provinciali, ricevevano la sua orientazione ideologica dell’anarchismo europeo, molte volte attraverso Buenos Aires. Sebbene consideravano all’indio un “paria”, un sfruttato, e perfino, sotto l’influenza di González Prada, riconobbero nell’indio al vero peruviano relegato, marginalizzato, con chi si identificavano, la sua concezione strategica circa la redenzione indigena rimase, molte volte, arretrata dietro la diagnosi di González Prada. C’erano anarchici come Glicerio Tassara per chi la redenzione dell’indigeno consisteva in alfabetizzarli ed assisterli con agronomi che rivelassero loro i procedimenti moderni per aumentare la producttività (8). Ed è che tra i militanti anarchici, la cultura ed il razionalismo europei erano considerati come la chiave della redenzione dell’indigena. La fede positivista nella Ragione, la Scienza, e la superiorità della cultura europea, vincolata al profondo rifiuto che sentivano per l’odiosa, anchilosata e decadente oligarchia criolla, autoconsiderandosi come rappresentante della nazionalità, crearono in essi un atteggiamento generale di disprezzo verso il peruviano (9).

Nel suo primo periodo, gli anarchici ruppero con la nazione oligarchica e le sue tradizioni, ma davanti alla mancanza di legami con l’altro Perù, il Perù indigeno, si limitarono ad assimilare un’ideologia universalista. Questo offriva loro strumenti ideologiche sufficienze per sviluppare teoricamente il suo rifiuto al Perù aristocratico, e li equipaggiava anche per liderarare al giovane e numericamente ridotto movimento operaio urbano, ma non bastava per elaborare un’alternativa di portata nazionale che servisse per arrampicare le Ande. I circoli anarchici urbani che si trovavano relativamente isolati dal resto del paese, delle masse contadine, tendevano il suo sguardo verso un oceano dal quale sbarcherebbero le sue speranze. In quello spirito si espresse Glicerio Tassara in La Protesta (10):

“….la corrente civilizzatrice che parte dell’Europa, si sparse per il mondo, non può essere fermata nelle nostre spiagge per lo sforzo di uno che un altro spirito arcaico, più affezionato con la tradizione odiosa che con l’innovazione giustiziatrice: non in vano il Perù si trova in contatto morale ed intellettuale con altri paesi di superiore cultura.”

D’accordo con quell’atteggiamento, vicino alle informazioni e commenti sulle lotte operaie, e menormente sull’attualità peruviana più ampia, La Protesta, dai suoi inizi, riprodusse costantemente scritti dei principali teorici dell’anarchismo europeo – Kropotkin, Bakunin, Proudhon, Gori, Malatesta, etc. – e relativamente meno analisi della realtà sociale peruviana che continueranno ad abbondare col passo del tempo. Generalmente si accontentava col “accertamento” della regola universale nel corso di qualche conflitto, o con la caratterizzazione di un determinato fenomeno peruviano con vocaboli di validità universale: “militarismo”, “febbre politica”, etc. Dell’Europa provenivano gli ideologi, i miti rivoluzionari del secolo XIX, gli avanzamenti della Scienza (scritta sempre con maiuscola in La Protesta) il Razionalismo, la civilizzazione moderna, il messaggio del futuro per i paesi arretrati come il Perù. Il positivismo era, generalmente, la filosofia dei primi radicali peruviani tra chi prese l’anarchismo. Il progresso materiale e la redenzione sociale andavano legati verso un futuro promettente. Tanta era così, che uno dei settimanali considerati precursori dell’anarchismo si denominò La luce elettrica (1886 -1897) (11).

La concezione eurocentrica della storia, secondo la quale lo sviluppo storico dell’Europa Occidentale è una linea tracciata per la quale dovranno sfilare gli altri paesi, più arretrati nel suo sviluppo, ed in relazione alla quale bisogna analizzare le sue realtà, si trovava implicita nel ragionamento degli anarchici peruviani; sebbene, in una certa forma, era stato già discussa dal suo più distaccato ideologo. González Prada si era riferito in termini di ammirazione all’antica civiltà inca, considerandola, in certi aspetti, superiore a quella del suo tempo, benché respingendo, a sua volta, qualunque pretesa restauratrice (12).

Gli anarchici ed il dibattito indigenista

La “Repubblica Aristocrática” (13) soffrì il suo primo rovesciamento serio du- rante la breve presidenza populista di Guillermo Billinghurst, tra giugno di 1912 e febbraio di 1914. Appoggiandosi nei settori popolari urbani, Billinghurst mise in scacco all’oligarchia civilista dominante, fino a che questa recuperò il potere politico ricorrendo ad un colpo militare. La sua presidenza fu un periodo di avanzamenti e conquiste per il movimento operaio urbano. Non si registrano modificazioni significative in quello che riguarda al regime agrario e la situazione dell’indio, benché Billinghurst arrivasse a creare ed appoggiare una commissione investigatrice sugli oltraggi ed furti commessi contro gli indigeni nella regione di Puno che condussero violentemente ad una ribellione contadina repressa violentamente.

Il delegato da parte di Billinghurst fu l’ufficiale dell’esercito Teodomiro Gutiérrez Cuevas, chi si suppone diresse in 1914-5 la gran insurrezione indigena del sud, adottando il nome di Rumi Maqui. Gutiérrez Cuevas realizzò un’investigazione, durante la quale affrontò i capi locali, chi esercitarono pressioni dal parlamento nazionale (potere che si trasformò nel bastione politico dell’oligarchia e nel cui nome si effettuò il colpo di stato) che furono respinte da Billinghurst. La sua caduta arrecarebbe la destituzione di Gutiérrez Cuevas ed alla fugga del paese, fino alla sua probabile riapparizione come Rumi Maqui (14).

L’ambiente creato durante la presidenza di Billinghurst incoraggiò e diede spinta alle attività umanitarie e denunciatorie dell’Associazione Pro-Indigena, creata in 1909, e che seguirebbe attiva fino a 1917. Per gli anarchici, il periodo di Billinghurst fu complesso e contraddittorio. Da una parte, gli anarco-sindacalisti organizzati intorno al giornale La Protesta comunicarono nelle lotte operaie e goderono del suo auge, ma, per l’altro, si confrontarono col pericoloso fenomeno di un governo che attrasse alle sue file a dirigenti sindacali e creó organizzazioni sociali sotto la sua tutela, alimentando l’illusione che è possibile risolvere questioni sociali dentro del quadro dello stato.

È per un periodo parzialmente concordante con quello di Billinghurst nel quale si processa un cambiamento fondamentale nell’atteggiamento e le concezioni anarchiche rispetto alla questione indigena. In mezzo alle fessure nell’egemonia oligarchica fu sorgendo ed aggravandosi una coscienza indigenista limegna, e gli anarchici furono parte di quel processo. La nascita della questione indigena porterebbe finalmente agli anarchici a rivalutare le sue posizioni eurocentriche iniziali. Ma ciò non si diede come il risultato teorico dei suoi dibattiti ideologici, bensì come conseguenza del suo avvicinamento alla realtà andina durante le convulsioni sociali che scossero al Perù in quegli anni e la prassi rivoluzionaria nelle quali gli anarchici si andarono coinvolgendo.

Il viraggio non fu immediato. Le prime proposte di rivalutazione furono respinte e solo la pratica potè aguzzare e trasformando la posizione iniziale, fino al consolidamento di una nuova posizione radicalmente distinta.

La Protesta fu la principale tribuna dell’anarco-sindicalismo (15), che fino a 1919 costituì l’unica corrente rivoluzionaria organizzata con ideologia elaborata. Nonostante persecuzioni, della sua opposizione inflessibile a tutti i regime di turno e delle sue difficoltà finanziarie, La Protesta si pubblicò mensilmente, con irregolarità, tra 1911 e 1927, con una tiratura che oscillava tra 1500 e 3000 esemplari. Nella sua maggioranza, gli esemplari di La Protesta erano diffusi tra i gruppi anarchici di Lima e Callao, e gli operai della capitale. Bisogna considerare che probabilmente certo numero di esemplari erano letti per più di una persona. C’era anche in effetti un sistema di scambio con pubblicazioni di altre città peruviane, non necessariamente anarchici, ma sì di carattere sociale operaista, o di critica liberale. Ugualmente si manteneva un ampio sistema di scambi con pubblicazioni anarchiche nell’estero. Fino al N°. 33 (3 ottobre1914), col quale comincia un breve periodo di due mesi in cui appare come settimanale e si incomincia a vendere a prezzo fisso, La Protesta funzionò sotto il principio di “Erogazione Volontaria”, pubblicando liste di sostenitori.

In gennaio di 1912, La Protesta pubblicò un articolo di B.S. Carrión, intitolato “Il Comunismo nel Perú” (16). Questo articolo costituisce il primo rivalutamento, il primo indizio di una nuova concezione, divorziata già dall’eurocentrismo che cerca basare le sue prospettive rivoluzionarie su elementi della realtà peruviana. Se si ama, si tratta del primo tentativo conosciuto di legare le aspirazioni future dell’anarchismo col passato del Perù. Contrariando a Tessara, lo sguardo di Carrión non si dirige già verso l’oceano, bensì verso la sierra, e il termine tradizione acquisisce un’altra connotazione:

“L’abitudine ha forza di legge, e la tradizione è la storia dei popoli che non lasciarono scritta la cronaca dei propri avvenimenti. Percorrendo alcuni dei paesini che esistono disseminati nelle falde delle Ande, ha lasciato in me dolorosa impressione, la sparizione di un passato che fu magari migliore che l’epoca attuale, economicamente considerata.”

Conseguente con queste prime considerazioni, Carrión passa ad identificare e descrivere due elementi che perdurano come vivo testimonio del passato che “fu magari migliore”: l’unya (il lavoro in comune) e lo scambio di prodotti. Senza idealizzare la situazione dell’indio, senza smettere di segnalare il suo stato di oppressione, Carrión risalta i fattori, latenti di speranza che rivelano l’esistenza di un potenziale di redenzione nella stessa realtà indigena:

“L’indio è di natura pacifico; lo dimostra l’orrore che sente alla coscrizione militare (reclutamento), l’odio verso le autorità per gli abusi che commettono con essi, ed il nascente sdegno con che guardano i chierici, che perdono giorno per giorno la (sic) influenza che esercitarono in forma assoluta.”

Gli indigeni passano ad essere possibili individui rivoluzionari e non solo oggetti di sfruttamento, analisi, pena, o istruzione. I fattori di cambiamento, si insinua, sono prodotto di una congiunzione tra l’eredità dell’antico comunismo incaico e la reazione di disubbidienza di fronte allo sfruttamento.

L’obiettivo di questi apprezzamenti non è puramente descrittivo ed analitico. Carrión si propone indicare una strategia, un programma di azione basato in esse, e la sua proposta non è ispirata solamente nelle sue osservazioni nei paesini dalle falde delle Ande. Esiste un fattore esterno, no-europeo che l’aiuta a basare la sua tesi; un fattore non peruviano, benché sì considerato compatibile con la realtà peruviana: la rivoluzione messicana. Questa può avere un “riflesso” nel Perù, perché considera che “esistono analogie di diverso ordine” tra gli indios del Messico e quelli del Perù, principalmente “lo sfruttamento servile al quale è sottommesso il proletariato peruviano e specialmente l’indio delle mesete andine e della montagna.” Allora, non staremmo solo di fronte ad una prima manifestazione di tinozza concezione anarchica in onore di andinizzazione e peruvizzazione, ma anche di fronte ad un anarchismo latinoamericanizzato, o più precisamente, prendendo la definizione posteriore di Haya de la Torre, indoamericanizzato. Deplorevolmente, le tesi di Carrión su “come potesse portarsi a termine la propaganda tra gli indios col fine di seguire l’esempio di quelli del Messico”, non arrivarono a noi. L’articolo finisce lì per mancanza di spazio, con una promessa di pronta continuazione, ma questa brillò per la sua assenza.

Le tesi di Carrión dovette provocare una forte polemica tra gli anarchici, e furono respinte dal gruppo che pubblicava La Protesta. Nel numero seguente si pubblica, invece dell’attesa continuazione ed occupando un spazio identico all’articolo anteriore, un articolo firmato da M. Caracciolo Levano, fondatore del giornale e considerato come la figura più distaccata tra i veterani dell’anarco-sindacalismo limegno. Senza menzionare espressamente a Carrión, Caracciolo Levano espone sistematicamente le posizioni “ortodosse” dell’anarchismo universalista, razionalista e positivista rispetto alla questione indigena.

“Redenzione indígena” (17) s’intitola il suo articolo che comincia con una serie di affermazioni ideologiche, sulle qualli si baseranno gli argomenti posteriori: “Istruire è redimere. Educare è moralizzare… Nonc’è progresso né civiltà senza libertà”. Caracciolo Levano non vede niente positivo, nessun motivo di speranze, nello stato attuale dell’indio; lo sfruttamento non provoca una reazione che possa condurre alla redenzione indigena. Gli sfruttatori incentivano l’uso dell’alcool e la coca che “degrada ed abbrutisce” l’indio e, allora, l’unica disubbidienza possibile è il crimine. Sebbene Caracciolo Levano polemizza con le concezioni razziste dei circoli aristocratici dominanti, accetta, invece, la diagnosi dell’inferiorità indigena, benché divergendo circa le sue cause. Nella sua opinione, gli indigeni sono rozzi e degenerati, benché non per ragioni etniche e biologiche, e possono essere estratti della sua passività ed incorporati al progresso umano solo per la panacea del razionalismo:

“¿Come salvare dunque, all’indio di quella nera situazione di schiavo, e dell’ignoranza in cui vegeta? Per un solo mezzo: per l’istruzione razionale. Insegnandogli i suoi doveri e diritti individuali e collettivi di uomo libero e cosciente, affinché sappia sentire, pensare ed operare con altezzosità e volontà proprie; svegliando in lui lo spirito di resistenza e disubbidienza. Indicandogli i mezzi che deve mettere in pratica per godere della felicità…

Insegnandole che l’unica Verità sta nella Ragione e nella Scienza…”

Sebbene Caracciolo Levano non si riferisce esplicitamente all’articolo di Carrión, la polemica risulta evidente. Più anche, la discussione può avere conseguenze pratiche per i militanti anarchici, per quello che Caracciolo Levano presenta su ¿che fare?, distinto a quello di Carrión che La Protesta non pubblicò. Secondo lui, la missione di “chi veramente si informino sulla redenzione dell’indio” deve essere la formazione di maestri indigeni, “apostoli di propaganda ed insegnamento” che alfabetizzino in quechua ed educhino “inculcandogli gli ideali emancipatori, e svegliandolo del profondo marasma in cui sonnecchia.” Il primo passo per la redenzione indigena passa per la scuola razionalista, dove l’indigeno andino potrà ricevere la luce che dell’Europa portano gli anarchici.

I conflitti agrari ed il viraggio concettuale

L’ambiente rurale nei mesi seguenti non fu molto propizio per il tipo di attività, relativamente tranquilla e paziente, proposta da Caracciolo Levano. Questo non prese in considerazione lo stato di ribellione endemico dei contadini indigeni nelle Ande del sud peruviano da fini del secolo scorso, né l’acutizzazione dei conflitti lavorativi nelle tenute capitaliste del nord. In 1911-2 si slegò una violenta ribellione contadina in Azángaro che fu crudelmente repressa dai capi della regione. La ribellione ed i massacri in rappresaglia furono il preludio all’insurrezione di Rumi Maqui in 1915. Nel frattempo, nel nord, in aprile di 1912, si dichiararono in sciopero migliaia di “lavoratori” nelle tenute zuccheriere della valle di Chicama. Lo sciopero fu violentemente soffocato dai proprietari di quattro delle cinque grandi aziende mediante l’azione unita dell’esercito e le bande armate, lasciando un totale di 150 lavoratori morti (18).

Le ribellioni contadine nel sud si ripercossero in La Protesta molto meno che il massacro nella valle di Chicama.Questa fu ripetutamente trattata dal giornale che sembra non avere notizie dell’altopiano. Senza dubbio, questo si deve a che la valle di Chicama era una zona di relativo sviluppo capitalista, più intensamente relazionata con le concentrazioni urbane della costa, con maggiore accesso a fonti di informazione, e, come vedremo, agitatori sociali vincolati all’anarchismo accompagnarono e testimoniarono sugli eventi. Ad ogni modo, quello che c’interessa è che Caracciolo Levano risulta stare molto lontano della realtà rurale dal suo momento quando chiede per l’indio maestri razionalisti per continuare a “svegliare in lui lo spirito di ribellione.” Tuttavia, riferendosi allo sciopero di Chicama nel suo discorso del 1 maggio di 1912, a solo due mesi del menzionato articolo, lo stesso Caracciolo Levano metteva a fuoco di una forma completamente distinta la situazione dell’indígena (19):

“Anche la nostra razza indigena, quei paria umiliati ed avviliti… si agitano e si ribellano con intrepidezza e coraggio contro i suoi iniqui oppressori”

Gli eventi di Chicama reclamavano degli anarchici a Lima un altro tipo di attività, un altro atteggiamento. Gli indigeni non erano oramai una “massa inerte” alla quale bisognava svegliare, ma si ribellavano per se stessi, ed erano gli anarchici che dovevano adattarsi alle circostanze. Questo nuovo atteggiamento si riflette espressamente, per esempio, nell’autocritica che reitera l’urgenza di elevare il livello di organizzazione sindacalista, poiché gli anarchici limegni non poterono aiutare né informarsi in tempo, lasciando gli scioperanti di Chicama ”completamente soli nella dolorosa campagna che hanno liberato” (20).

In La Protesta si denuncia anche la prigione nel nord della città di Trujillo del “infaticabile propagandista sociale Reinaga, e l’onesto e coraggioso giornalista radicale Benjamín Pérez Treviño, direttore di La Razón di quella città”, in relazione con gli eventi di Chicama. Reinaga, un personaggio multifaccia, originario del Callao, era uno dei fondatori del movimento operaio in Trujillo e pubblicava su quei momenti, con 71 anni di età, il suo proprio giornale, “El Jornalero”; nel quale propagava idee anarchiche e sindicaliste (21). Gli eventi di Chicama provocarono un primo cambiamento nell’atteggiamento di La Protesta, ancora lontana della proposta di Carrión. Man mano che i militanti anarchici si vedono più informati ed inclusi nei conflitti agrari, e si avvicinano alla realtà indigena, si va sviluppando un atteggiamento il cui culmine sarà una confluenza o articolazione dell’anarchismo col messianismo indigeno di restaurazione del Tahuantinsuyo nella cornice di un’utopia andina (22).

Cisneros diventò un militante anarchico e portò a La Protesta il suo indigenismo in un momento chiave, nel quale stava evolvendo il pensiero anarchico sulla questione indigena. Soprattutto, egli apportò una pratica di avvicinamento ed attività unita con gli indigeni, la quale accelererebbe il processo di “andinizzazione” dell’anarchismo. Una delle esperienze di Cisneros che rimase registrata in La Protesta (26) fu il tentativo di creare il Centro di Studi Sociali “Libetad y Cultura” nella località di Pallasca. Questo si iscriveva nella cornice della concezione esposta da Caracciolo Levano, ed il suo obiettivo fu definito “occuparsi dell’istruzione operaia nella regione della sierra.” Trattandosi di un’azione culturale ed educativa che si suppone non includeva azioni di carattere radicale a breve termine, Cisneros non ebbe inconveniente in collaborare con le autorità locali. Tuttavia, già nella sua prima assemblea pubblica, il l di gennaio di 1913, si scatenò un’accaldata discussione tra le autorità – che comprendono rapidamente chi erano i giovani interessati in sviluppare la cultura in Pallasca – e gli anarchici, incapaci di dissimulare i suoi obiettivi. Apparentemente, l’incidente condannò il centro culturale al fallimento. Gli indigeni, da parte sua, mostrarono un risveglio interesse, che allarmò alle autorità. È di supporre che il fallimento di esperienze di questo tipo fu uno dei fattori che incisero sul cambiamento di strategia e di atteggiamento degli anarchici di fronte alla questione indigena.

In giugno di 1913 si pubblicò il N°.23 di La Protesta, nel quale Cisneros firma per la prima volta un articolo a Lima. La sua presenza nella capitale si fa notare nelle sue multiple collaborazioni nel giornale, specialmente nella cosa relativa alla questione indigena. Ma non sempre l’osservazione della realtà indigena produsse una chiara rivalutazione nell’atteggiamento anarchico.

È cosicché, nello stesso numero, si pubblica una nota sotto il titolo “La Carovana indigena”, firmata da Benjamino Soto e N., che descrive lo sfruttamento dei lavoratori indigeni “lavoratori” nelle aziende della costa durante raccolta di canna di zucchero Nonostante la sua autentica solidarietà coi lavoratori indigeni, non può occultare una visione eurocentrica e paternalistica:

“¡Povera razza! schiava a forza di essere mantenuta nell’ignoranza ed il fanatismo -..] gli anarchici avvicineremo agli indigeni al nostro ideale – per la sua redenzione.”

Come nel primo articolo di Caracciolo Levano, la mancanza di istruzione è considerata come il principale fattore che permette lo sfruttamento, mentre la chiave della redenzione per gli indigeni si trova in mano degli anarchici. Più anche, le tradizioni e le credenze indigene (l’autore sottolinea specialmente il fatalismo) sono tacciate di “fanatismo”, senza percepire in esse possibili elementi redentori.

Nei N°. 27 a 32, corrispondenti al periodo tra novembre di 1913 e settembre di 1914, non ci sono quasi riferimenti alla questione indigena, ad eccezione di una nota sulla rivoluzione messicana, nella quale sottolineano l’occupazione di terre da parte dei contadini e la carta rivoluzionaria degli anarchici messicani (27). Ma la falsa impressione che crea l’abbandono della questione indigena nelle pagine di La Protesta si trasforma in sorpresa nel N°. 33, del 3 di ottobre di 1914. Mentre il giornale zittiva, i militanti anarchici vincolati a lui si dedicavano ad un lavoro di agitazione tra i lavoratori rurali. La prigione di due agitatori, Antuñano e Montoya, nelle tenute della valle di Carabayllo ruppe il silenzio, apparentemente calcolato, di La Protesta. Sotto il titolo “La voce di un Contadino”, e senza firma, si denuncia “…la prigione arbitraria dei nostri compagni.”

La realtà sociale riscuoteva forme radicali e gli anarchici si vedevano sempre di più inclusi. In ottobre di 1914, mesi dopo il rovesciamento di Billinghurst, si cercava di consolidare il ritorno dell’oligarchia, appoggiata nell’esercito, all’esercizio pieno del potere politico, e pertanto l’ambiente politico non si mostrava molto tollerante con agitatori sociali. Gli anarchici, da parte sua, sfidavano al regime e dirigevano i suoi dardi contro “il militarismo”, egli quale non apportava motivi per un atteggiamento di tolleranza da parte del governo. Nel sud, nell’altopiano, si faceva sentire un costante stato di agitazione tra gli indigeni, stato che culminerebbe nell’insurrezione di Rumi Maqui, un anno più tardi. I proprietari terrieri propiziavano un allarmismo che li giustificava reprimendo e spogliare gli indigeni. Non esistono indizi circa una partecipazione anarchica o relazione chiunque col sollevamento di Rumi Maqui, eccetto alcune vaghe accuse che i capi locali pretendeva sfruttare per giustificarsi di fronte all’opinione pubblica della capitale e finire l’invio di forze repressive (28).

Nello stesso numero nel quale si informa sulle detenzioni, difende Elías Mendiola ai suoi compagni, respingendo le accuse delle autorità che hanno preteso di vedere un incitamento all’ammutinamento, all’incendio e la distruzione… dove c’erano solo lavoro di investigazione ed organizzazione societaria operaia…”. Benché naturalmente apologista, risulta interesante la sua descrizione dell’attività propagandistica tra i braccianti indigeni. È ovvio che si tratta di una propaganda abbastanza più vicina all’agitazione che l’elementare lavoro di istruzione razionalista raccomandata da Caracciolo Levano. Gli anarchici assunsero che la realtà indigena nelle aziende era propizia per captare messaggi sindacalisti (29). Interessa specialmente l’allusione al “lavoro di investigazione” che, senza un altro indizio, potrebbe significare un tentativo più serio da parte degli anarchici di conoscere ed avvicinarsi alla realtà indigena. Nel quadro dell’ambiente repressivo dell’epoca, il diario conservatore El Comercio pubblicò un articolo di avvertenza contro gli anarchici, nel quale li descrive come terroristi, allo stile diffamatorio comunemente usato allora in diverse parti del mondo, ma aggregando un’accusazione “peruviana”, destinata a provocare una vera fobia nell’opinione pubblica: “istigano gli indigeni alla guerra di razze” (30). Accusazione ovviamente respinta da La Protesta (31).

Il viraggio concettuale

Fino ad ora abbiamo visto come gli anarchici limegni di La Protesta trattarono il tema indigeno e furono involucrandosi in lui tra gennaio di 1912 ed ottobre di1914. La strategia esposta da B.S. Carrión fu respinto e neanche edita interamente; solamente possiamo dedurla dal suo articolo introduttore. Invece, il giornale, per mezzo di una delle figure più distaccate dell’anarcosindicalismo, Manuel Caracciolo Levano, presentò un atteggiamento più concorde con quello che possiamo considerare le concezioni “ortodosse” o universali dell’anarchismo. Vedemmo, anche, come la realtà degli acuti conflitti rurali dell’epoca, l’avvicinamento alla realtà indigena, e l’inserimento, ancora abbastanza laterale, nelle lotte, furono sfumando ed alterando la visione anarchica. Perfino lo stesso Caracciolo Levano, davanti agli eventi di Chicama, solamente quattro mesi dopo essersi pubblicato il suo articolo programmatico, presenta una visione distinta, più adattata alla realtà andina dell’epoca (32):

“Le terre fertili delle nostre montagne non hanno bisogno di irrigazioni artificiali per produrre. Le nostre incipienti moltitudini, dotate di naturale raziocinio, non hanno bisogno di filosofie curialesche, tergiversatore della Verità, per rendersi conto di quello che devono fare, per liberarsi delle ingiustizie…”

Tuttavia, fino a novembre di 1914, non si arrivò a formulare nelle pagine del periodico anarcosindicalista un progetto prosecutore di quello presentato da Carrión. Appena nel N°. 39, del 21 novembre di 1914, si pubblicò un articolo abbastanza più radicale sul suo appello al passato andino di fronte al presente di oppressione e miseria, nel suo avvicinamento all’utopia andina, e nel suo rifiuto al determinismo positivista delle concezioni eurocentriche della storia. L’articolo, firmato da E. di Arouet Prada, si diploma “Razza indigena”, ed in lui si regge che sebbene al presente le radici dello sfruttamento si trovano nella conquista spagnola, la repubblica, da parte sua, non aveva cambiato sostanzialmente la situazione:

“Sulle macerie del Tahuantinsuyu, i figli di Valverde e Pizarro continua l’opera di distruzione e rovina dei suoi genitori. Il regime coloniale o vicereale non è sparito… Con la repubblica, se i suoi fondatori procederono di buona intenzione, i politicanti di dopo fino ad oggi non hanno fatto altro che cambiare nomi nell’abuso, l’oppressione ed il crimine…”

Al caratterizzare al regime di sfruttamento come coloniale, le categorie razziali acquisiscono un contenuto sociale. Più anche, respingendo il concetto determinista del progresso storico, concetto chiave nella visione eurocentrica, l’autore proclama la superiorità delle civiltà indigene: “gli aztechi e quechua furono più civilizzati di essi (i conquistatori).”

Perfino al presente si trova in pericolo uno dei più importanti antenati del passato indigena, “il comunismo che sussisteva ancora ad ogni distruzione, sta sparendo grazie all’ambizione e la fame canina dei capi.” Appoggiandosi su citazioni di González Prada che risaltano la mancanza di senso delle libertà formali e borghesi della repubblica per gli indios, l’autore, allo stesso modo della critica, ricade varie volte in una descrizione idealizzante del passato incaico, paragonandolo col presente, frutto della conquista:

“Gli invasori distrussero il Comunismo imperiale incaico, per sfruttare gli indios a nome di un padrone; devastarono la sua civiltà, a nome di una fede mentita, piuttosto barbarie, demolirono i suoi monumenti per erigere chiese ad un dio malvivente; sterminarono, infine, la razza.”

Richiamano l’attenzione le risorse semantiche utilizzate per presentare un’immagine idealizzata dell’Impero degli Inca, affinando questioni problematiche dal punto di vista dell’ideologia anarchica. Il regime sotto gli inca è definito innanzitutto come “Comunismo” (con maiuscola), e solo come “imperiale” (con minuscola), risaltando l’importanza dell’elemento positivo e minorizando il negativo. Dopo, i tempii religiosi indigeni sono ricalcati come “monumenti”, presentando come cultura ed arte quello che sarebbe considerato nell’ideologia anarchica “ortodossa” come superstizioni e culti destinati a mantenere al paese nell’ignoranza e l’obbedienza. La rivendicazione implicita dei culti indigeni, comparati col cristianesimo, è più chiara nel seguente passaggio, posto in bocca degli indios:

“…. c’obbligate ad adorare al vostro dio e servire alla vostra patria, miti ambedue feroci e sanguinari che non conosciamo…; noi non abbiamo più dio che il Sole e la Natura, né più patria della terra che calpestiamo…”

L’autore confonde, così sia intenzionale e demagogicamente, o forse sinceramente, il culto agli astri ed i fenomeni della natura con la fede positivista, razionalista e moderna nelle leggi della natura. Di questa maniera, l’idealizzazione del Tahuantinsuyo diventa molto più digeribile per gli anarchici moderni; si creda un ponte tra il passato idealizzato e l’ideologia progressista e rivoluzianaria del presente, portatrice del futuro.Ugualmente, presentando i suoi argomenti mettendoli in bocca degli indigeni, l’autore esprime quello che egli considera un stato di coscienza, insinuando un possibile discorso propagandistico per gli agitatori indigeni.

E non sarà neanche l’istruzione razionale quella che libererà gli indigeni, l’agitazione anarchica, bensì il ritrovo messianico coi miti del passato. Sembrasse che l’autore voglia collegarsi con quello che considera i miti esistenti nella memoria collettiva degli indios.

La possibilità di redenzione è abbordata nei termini del messianismo andino che effettivamente caratterizzò le insurrezioni indigene più importanti: “Se un nuovo José Gabriel Cóndor Canqui, (Túpac Amaru) non viene a redimere questa razza depredata…”. Risulta illustrativo quello che otto anni prima, il giornale anarchico Los Parias, chiedendo anche per il leader redentore, convocava l’esempio europeo di Spartaco (33). Tuttavia, chiarisce Arouet Prada, l’obiettivo continua ad essere propagati gli ideali anarchici, poiché quando “gli indios si compenetrino dello spirito libertario ed abbraccino l’ideale anarchico avranno ottenuto la sua definitiva liberazione.” Ma ora il cammino passa per l’incontro tra gli anarchici e gli indigeni nel terreno della memoria collettiva, del passato comunismo incaico e delle ribellioni nei secoli scorsi, dalla conquista. In forma molto diretta ed esplicita, Arouet Prada abborda la critica degli anarchici che si rifiutano di vedere in un regime imperiale e dispotico una bandiera ad inalberare:

“Che cosa dire agli indios? Su il Comunismo e governo socialista – autoritario – degli Inca, vissero felici… In realtà che gli indios non avevano pane, tetti dove ripararsi sotto quel governo patriarcale. Qualche storiografo gracchiava ` ¡ Oh!il dispotismo’, riferendosi a questo governo. Ma tale doveva essere ed in quell’epoca (un certo tipo di determinismo storico nonostante tutto). A chi si lamentano del dispotismo degli Inca gli domanderemo ¿ sono davvero liberi tutti gli uomini oggi? … gli indios furono più felici nel dispotismo degli Inca che nella tirannia dei Viceri e Presidenti. Nell’impero socialista prepotente – non libertario – essi non ebbero pane, soffittodove ripararsi, né soffrirono la frusta, la sciabola…”

E torna a riaffermare la superiorità della civilizzazione incaica, differenziando modernità tecnologica e superiorità morale o umana:

“La civiltà stessa degli Inca fu più umana di quella dei conquistatori. In effetti, quelli non ebbero le guerre religiose, né le guerre politiche o patriottiche dei dieci ultimi anni degli europei…. L’attuale macelleria e desolazione europea è anche una prova che la civiltà del secolo XX è una ` barbarie di guanto bianco.’”

La Prima Guerra Mondiale, coi suoi orrori, già nei suoi primi mesi, provocò profondi cambiamenti nella concezione del progresso, rompendo l’ottimismo storico del determinismo positivista e trasformandosi in uno dei fattori nella rivalutazione di varie ideologie canonizzate, compreso nel seno dell’anarchismo. In America Latina, la guerra europea produsse una gran delusione con la civiltà del vecchio continente, fomentando un’intensa ricerca di fonti proprie di riferimento ed ispirazione, ed incoraggiando in alcuni paesi, come nel Perù, una rivendicazione del passato indigeno. Il viraggio concettuale dentro l’anarchismo peruviano non fu completo, poiché rimasero residui della concezione anteriore, e non fu necessariamente condiviso nello stesso grado per tutti gli anarchici di La Protesta. Di tutte forme, caratterizzò gli anarchici vincolati alle ribellioni contadine degli anni venti e trascese l’anarchismo per abarcare, con diversi gradi e sfumature, agli indigenisti radicali durante 11 anni di goberno di Leguía. Già in 1915, la nuova sintesi ideologica si rifletteva nell’opuscolo propagandistico La Anarquia, nel Perù, pubblicato da Juan Manuel Carreño chi presenta l’anarchismo moderno come “la continuazione evolutiva del sublime comunismo incaico” (34), né più né meno.

Le concezioni esposte nell’articolo di E. di Arouet Prada costituiscono un momento chiave nel processo di “andinizzazione” dell’anarchismo limegno rappresentato per La Protesta. La questione indigena smette di essere osservata con occhi costeños europei, per rappresentanti di una cultura moderna, razionale, portatrice della scienza, la verità e la redenzione sociale, per mezzo della sua teoria rivoluzionaria. Questa è rilevante ancora, ma non risiede in nessuna ipotesi “progresso umano” inerente alla civiltà occidentale e moderna. Gli indios arriveranno agli ideali anarchici, e con essi alla sua stessa liberazione, trovandosi con gli anarchici nei suoi propri miti, nella sua memoria collettiva del passato comunismo incaico, nei pratici collettivisti e di aiuto mutuo che sopravvivevano ancora, nelle sue credenze, più relazionate con la natura – e pertanto più vicine alla scienza – che il cristianesimo dei discendenti dei conquistatori. Gli anarchici peruviani incominciano a guardare verso la sierra e dalla sierra. Non sperano oramai che le onde del progresso bagnino le coste del Perù ed essi, gli anarchici costeños, inzzupati per esse, diffondano il suo messaggio nella sierra mediante la formazione di maestri indigeni acculturati. Possiamo segnalare vari fattori che ebbero influenza su questo processo:

  1. Come fattore di fondo, l’acutizzazione dei conflitti sociali agrari come risultato della creazione di aziende capitaliste, principalmente nel centro e nord del paese, e dell’incorporazione di altre al mercato mondiale, quello che – molte volte si confonde col termine di “modernizzazione.’ Questo, insieme ad aggrava conflitti esistenti e creda altri nuovo, dà maggiore diffusione pubblica a livello nazionale. Cioè, riguardoalla sierra alla costa, integrando a maggiori regioni del paese.
  2. La crescente partecipazione di militanti anarchici nei conflitti agrari, durante i quali continuano a conoscere e compenetrandosi nella realtà (economica, sociale, culturale e mentale) indigena.
  1. L’origine peruviana del radicalismo politico di González Prada creó per i suoi seguaci un antecedente che permise loro di criticare la realtà peruviana da sé stessa e non solo dai paradigmi dell’anarchismo universale.
  2. . Il processo di andinizzazione dell’anarchismo è parte dello sviluppo dell’indigenismo nel Perù che arrivò alla sua auge durante gli anni venti. Gli anarchici non si astraggono ai processi socio-politici ed intellettuali dal paese.
  3. Paradossalmente, la delusione europea col positivismo, da principi del secolo, contribuì alla deuperizzazione dell’anarchismo peruviano. Non disponiamo di evidenze circa l’influenza di un pensatore come Sorel; la mancanza di riferimenti in La Protesta non significa che la sua opera, diretta o indirettamente, non fosse conosciuta per lcuni degli anarchici (35). Quello che può supporsi è che le filosofie antipositi-viste europee arrivarono a Lima durante quella decade, avendo influenza sulle mode intellettuali di quella provincia culturale.
  4. La rivoluzione messicana, coi suoi messaggi di riforma agraria, rivendicazione del contadino indigeno, nazionalismo e nativismo, e la partecipazione in essa di anarchici, colpì anche agli anarchici peruviani, offrendo per la prima volta un modello di ispirazione non europeo.
  1. La Prima Guerra Mondiale, quell’espressione di “barbarie” con guanti bianchi, accelerò il processo di delusione con la civiltà europea moderna, fomentando in America Latina la ricerca di un’alternativa propria che si nutra di valori e concetti americani, o almeno sviluppati in un’interazione con la realtà americana. Fino alla sua riformulazione per lo stalinismo, la guerra spazzo col determinismo positivista nel campo rivoluzionario, rompendo anche la supposta correlazione tra progresso materiale e morale.

L’anarchismo andinizzato, e la sua espressione pratica nel Comitato Pro-Diritto Indigena Tahuantinsuyo (36) durante le grandi ribellioni indigene della decade del’ 20, possono considerarsi come una delle fonti ispiratrici di Mariátegui ed Haya de la Torre nelle sue ricerche di sintesi originali tra teorie rivoluzionarie, di origine europea, e la realtà sociale e culturale del Perù ed Indoamérica, pensate da esse. La. sintesi creata per Mariátegui tra marxismo ed indigenismo, e lo spirito indigenista delle” 7 ensayos”, possono essere considerati come un prolungamento, più elaborato, brillante e con maggiore solidità teorica, del viraggio concettuale iniziato dagli anarchici.

Tra 1912 e 1915 si andò gestando in La Protesta un nuovo discorso rivoluzionario. Per la prima volta (37), rivoluzionari portatori di teorie universaliste di origine europea ricorsero alla memoria collettivo indigena, ai suoi miti, adattandosi a quello che percepivano come la realtà andina in tutte le sue dimensioni, obiettive e soggettive, modificando per quell’i suoi concetti v premesse, e creando una nuova utopia andina.

Nell’incontro tra l’anarchismo limegno ed il mondo andino sono due gli individui. Abbiamo analizzato come l’incontro colpì ad uno di essi, provocando un significativo cambiamento nel suo atteggiamento, nella sua percezione dell’altro, fino a dovere introdurre cambiamenti nella sua ideologia. Gli anarchici di La Protesta sono stati i protagonisti di questa piccola storia.

Un altro studio, probabilmente più interessante e difficile, si potrebbe fare analizzando l’incontro dalla prospettiva degli indios; potrebbe tentarsi anche un paragone critico tra quello che gli anarchici consideravano che erano i miti e la coscienza collettiva degli indios, e quello che realmente questi pensavano. Ma, quelle sarebbero già altre storie.

Note

  1. Kapsoli Wilfredo, Ayllus del Sol – Anarquismo y utopía andina, Lima, ed. Tarea, 1984.
  2. Sommamente illustrativo è il testo di una conferenza di Angelina Arratia pronunciato in 1920 e riprodotta per Kapsoli in Ayllus del Sol…, pp. 194-196.
  3. Ci sono una lunga lista di lavori e libri su González Prada. Per questo articolo, i dati biografici sono stati estratti principalmente del prologo di Bruno Podestá al suo Pensamiento políticode González Prada , Lima, GREDES,1988, e del prologo di Luis Alberto Sánchez (chi si è occupato estesamente della vita di GonzálezPrada nel suo Don Manuel e in altre opere) a Horas de Lucha, Lima, PEISA, 1989.
  4. Basadre analizzò psicologica e sociologicamente il fenomeno di González Prada nel suo famoso Perù: Problema y Posibilidad , Lima, 1931, pp. 166-170. Lì lo caratterizza come un discendente di un’aristocrazia decadente, borghese, risentito fino a trasformarsi in un “apostata” che vive in un continuo “suicidio” di classe il cui massima espressione fu il suo passo all’anarchismo.
  5. . La essitosa rivoluzione del leggendario caudillo Nicolás di Pierola, in 1895, culminò con l’incorporazione del suo partito all’istitulizzazione”civilista”, quello che permise una breve era di normalizzazione considerata come l’auge della “Repubblica Aristocratica.” I medi latifondisti, commercianti e “dottori” provinciali che appoggiarono a Pierola e costituirono l’opposizione alla vecchia oligarchia limegna, furono, nella sua maggioranza, assorbiti e passarono a fare parte della nuova aristocrazia ampliata. Essi furono chi si convertirono negli agenti del potere dello stato e dell’incorporazione al mercato internazionale nelle province andine, e di essi sorsero alcuni dei capi che si lanciarono ad appoggiare il suo potere impadronendosi di terre di indigene, trasformandosi così in grandi proprietari terrieri.
  6. “Non formano il Perù i raggruppamenti di criollos e stranieri che abitano la fascia di terra situata tra il Pacifico e le Ande: la nazione è formata per le moltitudini di indios disseminati nella banda orientale della cordigliera”; discorso pronunciato in 1888 nel teatro Politeama di Lima, e compreso in Páginas Libres.
  7. “Nuestros Indios”, in Horas de Lucha, pp. 205-221. In una nota segnala Luis Alberto Sánchez: “A partire da questo articolo di Prada circa l’indio, cambia radicalmente il progetto questa questione nella letteratura sociologica peruviana… La prova impresse un violento viraggio ai lavori indigenisti e è l’ispiratore diretto dei lavori di Pedro Zulen, Víctor Haya de la Torre, José Carlos Mariátegui, José Uriel García e Luis E. Valcárcel.” Senza deperimento dell’importanza del saggio e il suo planteamiento, c’è qualcosa di esagerazione in considerare la cosa ispiratrice diretto di tutti gli autori menzionati, specialmente se notiamo che appena l’articolo di González Prada fu pubblicato per la prima volta, postumamente, in 1924. Zulen decederebbe più tardi scarsi mesi; Valcárcel era già da vari anni di studi del tema indigeno.
  8. Nel giornale Los Parias, No. 47, 1909, citato da Kapsoli in Ayllus del Sol…, p. 174.
  9. García Salvatecci, in El anarquismo frente al marxismo y el Perú (Lima, Mosca Azul Ed.,1972), fa appoggio nella relazione tra la nascita dell’anarchismo nel Perù e la bancarotta del vecchio Perù aristocratico messa di manifesto nella guerra col Cile. Di lì: ”C’è sfiducia nella cosa peruviana, alimentata per una visione pessimistica della nostra storia. Si postula una rottura col passato.” Francisco Mostajo segnalò già nella sua tesi di dottorato presentata ed edita in 1913, Alcuni idee sulla questione operaia, (Contrato de enganche) (Arequipa, Tip. Quiroz) la problematica speciale della questione operaio nel Perù, derivata della questione indigena e l’incomprensione di questa da parte degli anarchici. In quello contesto si riferisce a “gli agitatori di idee libertarie che appaiono nel mezzo nazionale sradicati, pp. 8-9.
  10. La Protesta, N°. 11, diciembre 1911.
  1. García Salvatecci, El anarquismo frente…, pp. 114115.
  2. “Nuestros indios, in Horas de Lucha, pp. 216-7 y p. 220.
  3. Il termine fu coniato per la prima volta per Jorge Basadre, e dopo ripreso per Manuel Burga ed Alberto Flores Galindo. Si riferisce al periodo che incomincia col governo di Nicolás di Pierola in 1895 e culmina in 1919 con Leguía. È l’epoca nel che “l’oligarchia proprietario terriero, commerciale e finanziatrice esercitò direttamente il potere politico… Per appartenere alla classe dominante di fianco al potere economico si esigeva l’assunzione di un certo stile di vita e fare parte di una determinata struttura di parentela.” Burga-fiori Gafndo, Apogeo e crisi della República Aristocrática, Lima, Eds. Rikchay Perú, 1991, p. 7.
  4. La ribellione di Rumi Maqui e le relazioni tra Gutiérrez Cuevas e Billinghurst sono state analizzate da José Tamayo Herrera nella sua Historia social e indigenismo en el Altiplano , Lima, Edizione. Treintaitrés, 1982, pp. 202-217. Sulla ribellione stessa esistono diverse versioni e varie discuti non chiarite. In un certo momento i ribelli pubblicarono appelli alla restaurazione del Tahuantinsuyo. La ribellione fu rapida e facilmente soffocata, benché le reazioni dei distinti gruppi sociali fu tale che fece trascendere molto il movimento oltre le sue grandezze originali, creando si unisca vera leggenda. Circa il leggendario Rumi Maqui, scrive Fiori Gafndo: “Se il personaggio non esisteva, era necessario inventarlo”, in Cercando un Inca: Buscando un Inca: Identidad y utopia en los Andes, Lima, 3a. ed., Editorial Horizonte, 1988, p. 307.
  5. Gli aspetti sindacalista di La Protesta furono coperti per Pietà Uguale nel suo Anarquismo y sindicalismo en el Perú, Lima, Eds.Rikchay Perú, 1978. Sullo sviluppo del movimento operaio, vedere il lavoro di Dennis Sulmont, Il movimento operaio nel Perù, 1900-1956, Lima, Pontificia Università Cattolica del Perù,1975. El movimiento obrero en el Perú, 1900-1956, Lima, Pontificia Universidad Católica del Perú, 1975.
  6. La Protesta, N°. 12, gennaio 1912.
  7. La Protesta, N°. 13, febbraio 1912.
  8. Felipe di Osma – delegato, Relazione sugli scioperi del nord, Lima,1912.
  1. La Protesta, Nà. 15, aprile e maggio 1912.
  2. 20. Idem., nota firmata POKEL.
  3. Su Reinaga, scrive Demetrio Ramos Rau in Mensaje de Trujillo – del anarquismo al aprismo , Lima, Istituto Nor-peruviano di sviluppo economico sociale, 1987, pp. 60-64.
  4. Il termine “utopia andina” è utilizzata in distinti contesti e con accezioni variabili. Chi più l’ha analizzato da un punto di vista storico è Alberto Flores Galindo, nel suo libro Buscando un Inca …; lì lo definisce: “L’utopia andina è i progetti, in plurale, che pretendevano affrontare questa realtà, tentativi di navigare contro la corrente per piegare tanto alla dipendenza come alla frammentazione. Cercare un’alternativa nell’incontro tra la memoria e la cosa immaginaria: il giro della società incaica ed il ritorno dell’inca. Trovare nella riedificazione del passato la soluzione ai problemi di identità”, p. 19.
  5. Kapsoli menziona a Herminio Cisneros come delegato per Huaraz dell’Associazione Pro – Indigena, in El pensamiento de la Asociación Pro-Indígena, Cusco, Centro Bartolomé de Las Casas, 1980, p. 11.
  6. La Protesta, Nà. 23, giugno 1913.
  7. Idem.
  8. La Protesta, N°. 19 e 20, gennaio ed aprile.1913, rispettivamente.
  9. La Protesta, Nà. 30, maggio 1914.
  10. Scrive Tamayo Herrera: “I prolegonomi dell’insurrezione sembra che possano salire ad agosto e settembre di 1915, perché già in agosto Bernandino Ariani Echeñique aveva accusato il leader indio José María Turpo di preparare una ribellione anarchica…”, in Historia social e indigenismo en el Altiplano, p. 209.
  11. Blanchard segnala che, durante 1913 e 1914, si nota un incremento nelle attività sindacali tra i lavoratori delle piantagioni nelle regioni vicine a Lima, in parte dovuto all’influenza di agitatori anarchici; in The Origins of ha Peruvian Labor Movement – 1883-1919, p. 130.
  12. El Comercio, 19 ottobre 1914, ed. Della sera.
  13. La Protesta, Nà.. 36, 24 ottobre 1914.
  14. Discorso del l°. maggio di 1912, in La Protesta, N°. 15.
  15. Los Parias, Nà. 23, 1906, citato d_Kapsoli in Ayllus del Sol…, p. 175.
  16. García Salvatecci interpreta questa affermazione come un mero avviamento retorico, in El anarquismo frente… , p.117. Dal nostro punto di vista, un’affermazione tale verrebbe ad essere il culmine del processo di evoluzione ideologica che abbiamo presentato.
  17. Guillermo Rouillon, nella creazione eroica di José Carlos Mariátegui – La edad de piedra, Lima, Ed. Arica,1975, pp. 208-211 , situa la scoperta di Sorel da parte di Mariátegui per l’anno 1918, e menziona all’intellettuale socialista Víctor Maúrtua ed immigranti italiani di simpatie ánarco-sindacalista come chi l’introdussero alle opere di Sorel.
  18. La partecipazione anarchica nel comitato ed i vincoli, durante gli anni 20, coi movimenti milenristi e restaurazioni sono stati dettagliati daKapsoli. Il comitato “Tahuantinsuyo” non pretendeva ufficialmente quegli obiettivi e nei suoi principi fino a fu appoggiato formalmente per il regime di Leguía che tentò auspicare un indigenismo filogovernativo come attrezzo nella sua lotta per rompere il potere dell’oligarchia civilista. In 1923, quando il carattere rivoluzionario del comitato diventò evidente e le ribellioni indigene proliferarono, Leguía dichiarò la sua dissoluzione e cominciò a perseguire i suoi attivisti. Fino ad allora, gli anarchici che agirono nel quadei del comitato dovettero dissimulare la sua ideologia di fronte al regime ed assumere posizioni restauracionistas nell’agitazione; questo ultimo sarebbe stato impossibile senza il previo viraggio concettuale che abbiamo segnalato.
  19. 37. Bisogna chiarire che, sebbene si tratta della prima volta che questo succede in un movimento rivoluzionario con ideologia universale, già il generale Andrés Cáceres, organizzando le guerriglie di resistenza all’occupazione cilena, si diresse all’immaginario indigeno, insieme a promesse di devoluzione di terre, per ottenere l’appoggio dei contadini indigeni per chi, secondo gli aneddoti dell’epoca, la guerra non significava più che una lotta tra “il generale Cile” e “il generale Perù.”

Traduzione: ”La Protesta”

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