Pedagogia della resistenza
Intervista di Filippo Trasatti a Raffaele Mantegazza

da Rivista Anarchica on line

 

Il presupposto dell’educazione libertaria è porre al centro di teorie e pratiche la questione del potere e del suo smascheramento.

 

Raffaele Mantegazza non è un pedagogista come gli altri e per rendersene conto basta ascoltarlo parlare. Qui purtroppo si sente solo in parte la passione con cui affronta le questioni che gli stanno a cuore che, come si vedrà leggendo, possono interessare da vicino anche i lettori di A.
Mantegazza insegna attualmente pedagogia interculturale all’Università di Milano Bicocca. Intorno a lui si è costituito un gruppo di lavoro denominato “pedagogia della resistenza” che fa interventi di formazione dentro e fuori dalla scuola (si può consultare il sito www.pedagogiadellaresistenza.org), cercando di analizzare i dispositivi pedagogici dal punto di vista del dominio sui soggetti e delle potenzialità emancipatorie in essi celate.
Oltre al libro che espone la sua ultima riflessione pedagogica, appunto
Pedagogia della resistenza (Città aperta edizioni, 2003), voglio ricordare almeno per la stessa casa editrice L’odore del fumo (2001) e Filosofia dell’educazione (Bruno Mondadori 1998).

Come hai maturato l’idea di occuparti di pedagogia? Mi sembra che la tua formazione andasse originariamente in un’altra direzione...

Sì e no. Nel senso che è vero che io ho avuto una formazione filosofica, ma è anche vero che il problema della formazione del soggetto, sia in senso teorico sia nelle sue declinazioni pratiche, è sempre stato un fulcro dei miei interessi. Come si forma il soggetto? Quali sono le strategie che presiedono alla sua costituzione? Come avviene la sovrapposizione della categoria di soggetto a quella di individuo? Quali altre possibili identità vengono escluse dalla costituzione del soggetto occidentale? Queste sono domande che mi hanno sempre interessato, fin da studente. Il campo della filosofia dell’educazione, più che quello della pedagogia tout court, ha dato risposte decisive a queste domande; per questo più che di didattica mi interesso di filosofia dell’educazione intesa come scienza utopica che, a partire dall’indagine attorno al campo esperienziale specifico che mette in atto strategie di soggettivizzazione (l’educazione), e attorno alla teleologia specifica di tali strategie, studia, decifra e smaschera i dispositivi materiali e inconsci di una pratica di potere che permette la costituzione di una soggettività funzionale all’ordine sociale sussistente; e che a partire da tale smascheramento cerca di giungere alla definizione di una forma di soggettività aperta ed elastica, che preveda come sua propria dimensione strutturale ed esperienziale il confronto e il conflitto continuo tra le diverse forme di alterità.

 Pervasività del pedagogico

Come diceva il tuo maestro Riccardo Massa, “oggi il pedagogico è dappertutto”: non è ora che la pedagogia esca dai luoghi tradizionali della formazione?

Mi viene quasi da rispondere provocatoriamente che è ora che ci torni; per poi ri-uscirne, ovviamente. Nel senso che mi sembra che questa pervasività del pedagogico sia quanto di più pernicioso esista oggi per colui o colei che si occupa di formazione. Se il pedagogico è ovunque, se tutto è educazione, da un lato si perde la specificità professionale del “fare formazione” – e questo potrebbe anche essere positivo, per carità. Ma dall’altro si smarrisce quella distanza essenziale tra formazione e società, tra formazione e vita, che rende(va) la formazione qualcosa di alternativo e di diverso rispetto a una semplice ed automatica riproduzione dell’assetto sociale sussistente. Se la formazione (o l’educazione, termini che mi ostino ad usare come sinonimi tanto poco sono appassionato al dibattito sulla loro diversa origine semantica) costituisce un suo ambito specifico, allora è forse possibile che essa sia sottratta, sia pure d’un soffio, al cerchio magico dell’esistente. Educare significa allora rendere possibile una determinata esperienza, una esperienza che non è possibile altrove, non si dà automaticamente nel campo della materialità esistenziale. Sono caratteristiche di questa esperienza l’insistenza sulle dimensioni qualitative ed affettive dell’esperire, dimenticate da ogni positivismo radicale e da ogni funzionalismo scientista; la sottolineatura dell’irreversibilità dell’azione umana e della sua effettualità, ovvero della possibilità di modificare gli oggetti e le loro attribuzioni di senso introducendo così nel campo del reale qualcosa di nuovo e di non più eliminabile; l’idea di incontro tra soggettività che si costituiscono solamente all’interno del campo di esperienza di cui stiamo parlando e che a loro volta lo legittimano riconoscendolo e validandolo: a questo proposito ci sembra che sia molto utile rileggere il concetto deweyano di transazione, che a nostro parere sottolinea come l’educazione sia un mondo che, pur affondando le sue radici nella materialità, in sé non esisterebbe se non fosse posto in essere dall’accordo, in ultima analisi arbitrario, tra i soggetti che lo creano. Dunque ben venga l’analisi del pedagogico disperso nella società, purché si riconosca al pedagogico una specificità e una relativa autonomia e le analisi di tale dispersione vadano ad evidenziare i dispositivi pedagogici presenti proprio laddove non ce li si aspetterebbe.

Veniamo al centro della tua riflessione teorica più recente, da una parte la pars destruens della pedagogia dell’annientamento che ha delineato nel tuo libro L’odore del fumo e dall’altra la pars construens, il progetto della pedagogia della resistenza: come nasce, quali sono i punti di riferimento teorici?

Sicuramente alle spalle della pedagogia della resistenza c’è lo straordinario lavoro di smascheramento operato dagli autori della cosiddetta scuola di Francoforte la cui eredità era evidente fin dal titolo, per la verità un po’ presuntuoso, del mio primo libro: Teoria critica della formazione. L’idea era e rimane quella di applicare le categorie della teoria critica della società, formulate soprattutto da Horkheimer e Adorno, alla scienza dell’educazione per smascherare i dispositivi della formazione del soggetto integrato e controllabile. Sì Foucault, dunque, ma soprattutto Adorno; sì pensiero francese ma soprattutto pensiero filosofico hard tedesco; sì strutturalismo (con juicio) ma soprattutto marxismo occidentale. L’interesse per la teologia, soprattutto per la teologia ebraica e per la teologia della liberazione, è venuto dopo ed è venuto proprio tramite Adorno e Benjamin: volevo capire che cosa potesse dire a un laico come me la teologia come pensiero dell’Oltre, di ciò che sta oltre il qui ed ora, di ciò che trascende la nostra condizione di sfruttati e sfruttatori, la nostra miseria quotidiana. È stata una scossa salutare scoprire che la teologia poteva non essere semplicemente uno strumento di giustificazione per l’oppressione e per lo sfruttamento ma anche e soprattutto uno strumento di denuncia e di smascheramento, in particolare rispetto alle ideologie che giustificano lo status quo e che appiattiscono programmaticamente il loro punto di vista sulla non superabilità dell’esistente; di qui è venuto l’interesse per Bloch, di qui la passione sempre crescente per le teologie non cristiane (islamica, buddista, ecc.), di qui l’afflato utopico che spero si respiri nelle pagine di Pedagogia della resistenza. Il filo conduttore di tutto il mio lavoro è stato doppio, lo vedo solamente ora: c’è sempre stata da un lato la denuncia del dominio in tutte le sue forme, il tentativo di andare a braccare il potere laddove non ci si aspettava di vederlo e soprattutto laddove la maschera della bontà lo copriva e lo rendeva invisibile (e dove meglio che nell’educazione, campo privilegiato di applicazione di quello che De André significava con le parole “non ci sono poteri buoni”. Ma dall’altro lato c’è sempre stato l’afflato utopico che non poteva credere che tutto fosse finito, che non ci fosse via d’uscita, che il potere o il dominio avessero progettato e realizzato la perfetta ragnatela inattaccabile che a volte sembra trasparire da certe opere di Foucault. Insomma, lo studio della società completamente amministrata mi faceva sperare che quel “completamente” fosse in realtà un artificio retorico (se no, perché studiarla?) e che vi fosse la possibilità di una via d’uscita. Ora che sto lavorando a un libro sulla pedagogia della morte (in uscita ad ottobre 2004) vedo che anche qui si incrociano le due linee della denuncia di ciò che è diventato il morire nella società tardocapitalistica e della resistenza a tutto ciò in nome di un morire più umano. Come vedi, ancora una volta, smascheramento e utopia.

 

 Educazione forma di potere

Quali sono le condizioni e le strategie di un’educazione libertaria, per come tu la concepisci?

L’educazione è una forma di potere. E teoricamente, affermare che l’educazione ha a che fare con il potere o che essa stessa si costituisce come una pratica di potere non dovrebbe sconvolgere più di tanto chi sia abituato a riflettere su problematiche pedagogiche. Eppure la dimensione del potere sembra essere la più rimossa da parte degli educatori; essi sembrano sempre sottintendere una loro non-partecipazione nei confronti di un potere che si situa sempre “altrove”: nelle mani di Presidi, Provveditori, Ministri, nelle pieghe della burocrazia, sulle scrivanie di coloro che vergano i programmi di studio. Questa sorta di repulsione ad affrontare la questione del “mio” potere, del potere che è in me e che è “me”, del potere che transita attraverso le mie pratiche quotidiane, del potere dell’educazione in quanto tale rende conto, probabilmente, della radicalità della questione stessa che proprio dal versante educativo può essere letta e studiata in modo critico e demistificatorio. Questo è a mio parere il presupposto di ogni educazione libertaria: porre al centro delle sue teorie e delle sue pratiche la questione del potere e dello smascheramento del potere. Anche e soprattutto del potere dell’educatore. Leggere nelle pratiche educative delle pratiche di potere e, ancor più radicalmente, studiare la presenza e la costituzione di un potere che sia essenzialmente educativo, le cui strutture siano per essenza omologhe a quelle dell’educazione, significa contribuire allo smascheramento della cosiddetta “bontà” originaria dell’educazione. Occorre allora smascherare i tratti di un potere eminentemente educativo, che è forse tipico della società del cosiddetto “dopo Auschwitz” (perché proprio ad Auschwitz ha sostenuto il suo “battesimo del fuoco”). Saremo di fronte allora a un potere che non risiede sempre in un Altrove, un potere che forse non si “prende” o si “aliena” o si “trasmette” ma si esercita, non solo da parte dei soggetti ma anche attraverso i soggetti medesimi; un potere di assoggettamento che proprio in quanto prevede il soggetto come telos della sua applicazione (e non semplicemente come sostrato su cui applicarsi o dato naturale da pervertire e condizionare) diventa anima segreta delle pratiche educative; di tutte, ovviamente, anche di quelle che si vogliono come resistenziali nei confronti delle attuali configurazioni del dominio.

 Filippo Trasatti