Il Grande Controllo
di Andrea Papi

da Rivista Anarchica on line

 

E se (per assurdo) Bin Laden fosse stato, volutamente, lasciato fuggire?

 

La nazione musulmana deve combattere per la propria religione e rifiutare le trattative di pace in Medio Oriente… Il suono raggelante della voce di Bin Laden, nel messaggio registrato in cassetta e trasmesso dalla televisione araba Al Jazira alla fine dell’anno scorso, scandisce con determinazione le agghiaccianti parole che incitano tutti i musulmani del mondo alla sacra jihad, la santa guerra universale, nel nome ed in onore di Allah, contro gli infedeli, i crociati dell’occidente, considerati i nemici storici del sacro verbo del profeta di Dio Maometto. Un messaggio inequivocabile, foriero di morti e distruzioni, che per l’ennesima volta, con maggior decisione, sancisce e decreta la dichiarazione di guerra totale all’Occidente, lanciata con grandissima e sorprendente spettacolarità mediatica l’11 settembre 2001.
E se Bin Laden fosse stato lasciato fuggire? Se per calcolo, come successe alla fine della guerra contro l’Iraq del 1991 (quando le truppe USA vittoriose, sorprendendo il mondo intero, ricevettero da Bush padre l’ordine di non abbattere il tiranno ormai irrimediabilmente sconfitto) né lui né il Mullah Omar appositamente non fossero stati catturati alla fine della guerra in Afghanistan di due anni fa? So che non è vero. Anzi, meglio, presumo di sapere che non è vero. E presumo di sapere che effettivamente il pericolo numero uno al mondo sia riuscito a farla franca con le proprie forze e continui a dirigere la terrificante guerra di religione contro tutti noi, considerati indiscriminatamente figli del satana occidentale e, senz’appello, meritevoli di morte. Ma proviamo (per assurdo?) a supporre ciò che non è. Che cioè Bin Laden sia stato lasciato libero di muoversi, continuando a spargere morte ogni volta che gli riesce, perché la sua misteriosa presenza in qualche modo ritorna utile ai suoi nemici, costretti «masochisticamente» a difendersi senza sosta contro questo nemico invincibile, capace di colpire sadicamente quando vuole e come più gli piace.
Di fronte a questa supposizione per assurdo, la prima domanda che viene spontanea è perché mai una simile eventualità sarebbe potuta avvenire. Quali interessi avrebbero gli americani, ma anche tutti gli stati dell’Occidente del benessere, a lasciar libero di muoversi e di continuare a seminare morte un tal nemico dichiarato?

 Potenti strutture di controllo

Per rispondere bisogna guardare con occhio disincantato ciò che ci sta succedendo attorno. Il mondo occidentalizzato sta predisponendo eccezionali misure di sicurezza con lo scopo dichiarato di prevenire e contenere al massimo attacchi terroristici continuamente minacciati. Usufruendo di tecnologie altamente sofisticate e quotidianamente sempre più aggiornate, gli apparati di potere stanno mettendo in opera un’ampia rete di potenti strutture di controllo, con competente accuratezza in grado di sorvegliare e schedare in archivi tenuti segreti i cittadini, a questo punto considerati veri e propri sudditi mentre si dichiara il contrario, per riuscire a tenerli costantemente d’occhio. Un’opera gigantesca, in tendenza ogni giorno più capace di assicurare ai detentori del dominio un controllo effettivo, attento e meticoloso, su ogni essere umano ad essi sottoposto. Anche se in forma diversa da quella ipotizzata nel romanzo 1984, si sta realizzando una diffusa atmosfera dal gelido sapore orwelliano, dove al posto del Grande Fratello ci stanno anonime eminenze grigie, molto potenti e discrete, che a poco a poco s’impadroniscono della conoscenza della nostra intimità e della sacrosanta segretezza della nostra vita, agendo nell’ombra e, a differenza del Grande Fratello, guardandosi bene dal farcelo sapere. Si sentono legittimati perché hanno la scusa che debbono salvaguardare la nostra sicurezza.
In sostanza la campagna antiterrorista in atto che investe l’intero globo e che, intendiamoci bene, usufruisce di un reale ed operante terrorismo sorto spontaneamente e terribilmente pericoloso ed assassino, da questo riesce a trarre un enorme beneficio perché ha un’ottima scusa per mettere in opera l’aumento di invadenza coattiva e repressiva da parte dei poteri costituiti. È l’ambivalenza del potere, la dimostrazione della sua elasticità, della sua duttile capacità di mostrarsi vittima e al tempo stesso di imporsi come carnefice. Da una parte mostra la maschera di chi è colpito, di chi è bersaglio del male e dell’ingiustizia, dall’altra prende in mano gli attacchi che subisce, generati dalla sua stessa arroganza, e li usa e li trasforma in occasione di attacco di risposta, di reazione organizzata in grado di invertire a proprio vantaggio ciò che tendenzialmente sorge per contestarlo e per metterlo in ginocchio. Nell’attaccarlo bisognerebbe perciò sempre tener conto di questa sua capacità di recupero e di trasformazione vantaggiosa per sé.
Dietro questo agire che si sta diffondendo soffusamente con grande determinazione, ci sta una filosofia della gestione del potere che, nel tempo, dietro le quinte dei palazzi, ha acquistato sempre maggior forza. Corrisponde al bisogno, che nella pratica si traduce in volontà di, di tenere sotto controllo i cittadini, indistintamente tutti i cittadini che non rivestono incarichi di responsabilità istituzionale vicini a chi decide, perché il potere ha di essi un’enorme paura. Al di là delle dichiarazioni formali ed ufficiali gli apparati di comando in realtà non si fidano di nessuno. Non vivono affatto l’idilliaca sintonia simbiotica con la società che gestiscono come vorrebbero farci credere. Soprattutto ad ogni angolo di strada temono continuamente la disobbedienza alle loro prescrizioni, la resistenza alle loro imposizioni, la rivolta contro il loro operato. Così sotto sotto, ma neanche poi tanto, c’è la determinazione di trasformare il territorio in un’enorme caserma democratica, dove, più che dagli agenti in divisa, l’esercizio di controllo sbirresco viene esercitato da macchinari discreti, mentre alla luce del sole viene mascherato da sorrisi convenienti e da una conclamata disponibilità a proteggerci, quindi desideroso e bisognoso del consenso dei controllati. Di qui la necessità sentita di aumentare senza sosta a dismisura la rete e gli strumenti di controllo, nell’illusione paranoica di prevenire, di riuscire ad impedire che in qualsiasi modo, coi fatti e con la parola, i sottoposti si possano ribellare.

 Paura della ribellione

Sappiamo che il potere incute paura ai soggetti e nello stesso tempo ne ha paura, perché è costretto ad imporsi con la forza e la forza non è mai sicura di ottenere l’obbedienza, potendo molte volte provocare la ribellione (1). Già negli anni quaranta del secolo scorso il sociologo Guglielmo Ferrero, con la sua teoria de i geni invisibili della città, aveva identificato con grande chiarezza come la paura della potenziale ribellione dei suoi sottoposti sia una delle molle fondamentali che detta le azioni del potere per imporsi. Per esorcizzarla e per il perseguimento dei loro scopi i suoi detentori sono sempre disposti a mettere in atto qualsiasi cosa, per nefanda che possa essere, indipendentemente che venga attuata in modo chiaro alla luce del sole, o al contrario nell’ombra, all’occorrenza negata e mascherata. Ciò che per lor signori effettivamente conta più d’ogni altra cosa è il mantenimento del potere stesso che detengono, al limite cercando d’ampliarlo, ma mai, per nessuna ragione, accettando di lasciarlo diminuire, a meno che non vi siano costretti da eventi incalzanti ed obbliganti.
Il perdurare della costante minaccia terroristica offre inoltre anche un’altra ghiotta opportunità di esercizio del dominio. Non dimentichiamoci che oggi le politiche dominanti non si svolgono più in ristretti ambiti territoriali nazionali, mentre si estendono all’intero globo, galvanizzate dagli interessi indiscussi di un’unica superpotenza, gli USA, attorno alla quale ruotano le altre potenze dell’Occidente, appunto globalizzato. Per mantenere questa supremazia c’è la continua necessità di aggiornare la capacità d’influenza, d’imporre le proprie scelte, di non subire pressioni ma di esercitarle. E per queste funzioni, quando gli strumenti tradizionali della politica risultano inefficaci, la guerra è uno strumento principe. Solo che in questo contesto, che si pretende ed ha bisogno di apparire democratico e aperto, non si possono condurre campagne belliche senza mettere in campo ragioni e giustificazioni che diano legittimità alle aggressioni armate. Lo richiedono il livello e la qualità delle relazioni internazionali. Allora la difesa, anche necessariamente preventiva e di attacco, contro un nemico così mortale, infido, diabolico e terrificante come il terrorismo, offre la giustificazione per eccellenza al fine di sferrare devastanti aggressioni belliche, per imporre l’influenza politica, militare ed economica necessaria all’omeostasi del sistema di potere in atto.
Viene spontaneo chiedersi quale sia il sistema di potere in atto. Cercherò di chiarire cosa intendo.
Uso la parola sistema nel suo significato più classico, cioè connessione di elementi in un tutto organico. Ed oggi nel mondo c’è, unico operativo a livello globale, un sistema dominante. La sua caratteristica si esplica attraverso il controllo dei sistemi economici e delle transazioni finanziarie, delle gerarchie politiche, degli apparati militari e della tecnologia informatica, mediatica, robotica e scientifica. Ha come finalità il dominio su tutto ed il controllo indiscusso su ciò che domina. La sua filosofia si fonda sul paradigma che la specie umana è la più intelligente e la più potente, almeno sulla superficie del globo terrestre, per cui i suoi dirigenti si ritengono in diritto ed hanno scelto di assoggettare ai propri bisogni ogni altra specie vivente e di annettersi tutte le risorse naturali, preoccupandosi soltanto dei livelli, calcolati con l’utile economico, di benessere momentaneo che riescono a raggiungere.

 Struttura reticolare

Non ha un centro decisionale, un comando centralizzato, una cupola centrale come si direbbe in linguaggio mafioso, da cui diramare decisioni e scelte ai terminali dei molti raggi a lui sottoposti. Ha invece una struttura reticolare, sebbene la sua rete non sia affatto ecosistemica, cioè fondata su una distribuzione paritaria ed integrata delle competenze e delle energie. Da questo punto di vista, classico gerarchico, è infatti policentrico, anche se all’interno delle sue svariate ramificazioni agiscono vere e proprie potentissime gerarchie di potere e d’affari, non sempre istituzionalizzate. Il complesso della rete (multinazionali, strutture bancarie, finanziarie, burocrazie politiche, partitiche ed a volte anche sindacali, organismi amministrativi ed economici, apparati informatici, mediatici e militari, ecc.), è sovrastato da un insieme, compatto ed intrecciato allo stesso tempo, di enormi interessi, economici e di potere, che fanno si che ogni componente dell’intreccio sia indissolubilmente legato ad essa e da essa dipenda, in modo tale che le decisioni, singole o comuni, siano sempre funzionali all’insieme stesso della rete.
Il sistema dominante non è caratterizzato, né per principio vi si lega, da nessun sistema politico specifico. Per il raggiungimento dei suoi scopi gli è indifferente che a governare uno stato si trovi al potere una democrazia, una dittatura di destra o di sinistra, un regime teocratico. Gli importa invece che, qualsiasi sia la forma di guida politica istituzionale, questa risulti funzionale ed omologata al raggiungimento degli obbiettivi del controllo di dominio che intende continuare a tenere saldamente nelle proprie mani. Ogni volta che uno stato od un’organizzazione, qualsiasi siano le ragioni che li spingono, in qualche modo oppongono resistenza o si dimostrano non funzionali, mettendo in pericolo la supremazia del suo controllo, si adopera in ogni maniera per renderlo inoperante e, al limite se gli riesce, per annientarlo.
Pur nascendo e proliferando all’interno del mondo e della cultura occidentali, dove a tutt’oggi trova il suo punto di forza, il sistema dominante è trasversale ed agisce a livello globale sull’intero pianeta, perché la sua natura totalitaristica (tendente cioè ad occupare il tutto) lo porta a gestire la globalità terrestre. Gli affari e l’esercizio del dominio non hanno nazione né territorio specifico, mentre hanno bisogno di esercitarsi sia sull’una che sull’altro.
Non è un sostituto dello stato e dei governi nazionali, non tende cioè ad essere lo stato e il governo del mondo che deve e vuole soppiantarli. Non gl’interessa né gli serve. Ciò che invece gli è utile e funzionale è la capacità d’influenzare, condizionare ed omologare la politica e l’economia degli stati e dei governi già esistenti, rendendoli ostaggi della propria politica, pragmatica e non istituzionale, fondata sui propri interessi e sulle proprie scelte trasversali. Se non ci riesce tende ad abbatterli, o attraverso campagne militari condotte da governi e stati perfettamente omologati, o attraverso ricatti e sanzioni economiche di respiro internazionale, capaci di mettere in ginocchio interi paesi ed intere popolazioni.

 Metamorfosi strutturali

Il sistema dominante tende ad essere assoluto, non ammette cioè di subire limitazioni, restrizioni, o condizioni alle proprie scelte ed alle proprie attribuzioni. Qualsiasi cosa o entità rappresenti un pericolo al suo operato ed alla sua influenza deve essere resa inoperante o, se del caso, annientata. In questo senso è rigido, mentre risulta estremamente elastico e duttile quando ritiene gli convenga. Cioè, ai fini del raggiungimento dei propri scopi di dominio e di controllo, è disponibile a mutare scelte, ad adattare i propri metodi, a mettere in atto metamorfosi strutturali; ma solo nel caso che gli ritorni utile e funzionale. Ciò gli è possibile perché non è sorretto da spinte ideali, da moralistici imperativi categorici, da assunti ideologici, da filosofiche o religiose visioni del mondo. Tutto va bene, purché risulti funzionale ai suoi interessi ed ai suoi scopi. In questo senso e per questi obbiettivi è essenzialmente ed estremamente pragmatico ed indifferente a finalità e finalismi ideologici, morali, religiosi, o filosofici che di volta in volta gli possono essere attribuiti. Se li ritiene utili e funzionali ai propri obbiettivi li incamera, altrimenti li respinge.
Per le ragioni sopra esposte, il sistema dominante è del tutto conservatore, è cioè intrinsecamente bisognoso di conservarsi così com’è, impenetrabile ad ogni modificazione di senso. Anzi tende a rafforzare il proprio stato ed il proprio assetto all’ennesima potenza, mai ad indebolirlo o a regredire. Ecco perché non è disponibile, anzi è completamente indisponibile, ad essere messo in crisi o in discussione. Non ne ha né la capacità, né la volontà, né tantomeno la tendenza. Proprio qui sta la sua sostanziale rigidità, per cui è del tutto impermeabile ad ogni trasformazione strutturale, ad ogni possibilità di riforma che ne metta in crisi il senso fondativo: la finalità del dominio su tutto ed il controllo indiscusso su ciò che domina.
Cosa fare allora per combattere un tal sistema di potere? Per chi ha a cuore le sorti umane e del pianeta ed anela a forme realizzate di libertà, giustizia, uguaglianza sociale e solidarietà tra le genti, bisognerebbe senz’altro trovare la maniera di bloccarlo, in modo da sostituirvi forme di convivenza sociale libertarie, autogestionarie e non fondate sull’utile finanziario e sul dominio. Anche chi usa il terrorismo, qualsiasi sia la matrice ideologica e le motivazioni per cui lo fa, lo usa dichiaratamente per annientare il sistema di potere vigente. Ma sicuramente, se non in illusori rarissimi casi, non lo fa per realizzare società libertarie, bensì illudendosi di sostituirvisi al comando, portando cioè avanti una lotta per la presa di quel potere che ora sostiene di combattere.
Parliamo di terrorismo riferendoci a tutti quei fenomeni e quegli atti che usano la violenza delle armi protetti dall’anonimato e dall’oscurità dell’imprevedibilità, colpendo senza preoccuparsi di seminare morte, quasi sempre indiscriminatamente, perché all’obbiettivo prescelto si può sacrificare qualsiasi vita. Il terrorismo si chiama così proprio perché è fondato sul presupposto di spargere e seminare innanzitutto terrore: l’avversario va annichilito ed inchiodato alla propria paura e se per farlo si debbono sacrificare persone a caso lo si fa senza scrupoli, perché lo scopo principale rimane quello di dare un saggio concreto e indelebile della propria potenza, della propria forza, della propria determinazione a colpire.

 Rifiutare le logiche di guerra

Ma chi lo usa e chi lo teorizza commettono la leggerezza di non pensare, o di tralasciare di sapere, che bombe e terrorismo sono le armi privilegiate del sistema di potere che pretendono di combattere. Usarli, ed usarli sistematicamente, vuol dire in sostanza fare la guerra agli specialisti ed ai padroni della guerra. Vuol dire scendere sul loro terreno e misurarsi sul loro stesso piano, assumendone in pieno la qualità e il senso. Perché la guerra, la violenza che annichilisce, l’uso indiscriminato delle armi, l’assassinio senz’appello quale condanna giustizialista non legalizzata, sono l’elemento naturale del dominio e del sistema di potere contro i quali ci si rivolta. Quando vince, chi vince attraverso l’uso di sistemi e mezzi fondati sul terrore, vince perché ha annientato l’avversario, eliminandolo o rendendolo impotente, assoggettandolo alla supremazia della propria forza e del proprio volere. Per mantenere la supremazia conquistata, al di là della volontà, si trova allora costretto a continuare a dimostrare la propria capacità di mantenere l’uso della forza. Gli assoggettati non cambiano opinione, cambiano solo padrone, per cui devono avere la certezza che la nuova forza cui devono obbedire è in grado di proteggerli e di costringerli, altrimenti si rivoltano e cercano il riscatto alla loro condizione.
La libertà e la giustizia non si conquistano con le aggressioni armate, bensì rifiutando la logica e la supremazia della guerra, eliminando le strutture del potere d’imposizione e l’ingiustizia che questo genera, andando oltre la guerra, qualsiasi guerra, le sue logiche e il suo senso, fondati su chi conquista la vittoria e chi la subisce perché costretto. Dove ci sono libertà e giustizia non ci sono costrizioni di sorta, non ci sono più forti che s’impongono sui più deboli. Certo! Dalle prepotenze ci si difende in modo anche deciso, ma non si eliminano né terrorizzando né imponendo la propria forza aggressiva, bensì offrendo ed organizzando situazioni ed opportunità contrarie ad ogni tipo d’imposizione.

 Andrea Papi

1. Guglielmo Ferrero, Potere, Sugarco Edizioni, Milano 1981, cap. V, pag. 26.