L’autogestione: oltre la procedura e l’ideologia

 

Che cos’è l’anarchia? Senza pensarci su e senza aver meditato bene la cosa, d’istinto potrebbe venir da rispondere: “L’anarchia è un tipo di società gestita dagli anarchici”.

Nulla di più lontano dalla verità. Oltre ad essere incongruente rispetto al senso e al contenuto, sarebbe pure una risposta contraddittoria rispetto ai presupposti fondanti. L’anarchia, infatti, non può essere gestita da nessuno in particolare, né da qualcuno individualmente, né da una minoranza, né da una classe o categoria sociale. Per definizione in essa nessuno, né individuo né gruppo, può gestire il resto della società. Mentre vi deve accadere che tutta la società nel suo insieme, nella valorizzazione e nel rispetto di ogni diversità, riesca a gestirsi concordemente, rifiutando ogni forma di comando, di stratificazione gerarchica, di prevaricazione, di privilegio. Gli anarchici, data l’identità specifica che li distingue, non possono che essere una componente in seno alla società stessa. Se si trovassero a gestirla essi soli non potrebbero farlo che imponendosi su tutti gli altri, venendo quindi meno al compito ed agli scopi per cui hanno scelto di esser tali.

In linea puramente teorica si potrebbe anche verificare che un assetto sociale sia composto da soli anarchici. Conseguentemente, siccome non ci sarebbe nessun altro la gestione sarebbe una loro esclusiva. Ma attenzione! anche in questo caso la qualità anarchica della gestione non dipenderebbe dalla presenza di soli anarchici. Se anche uno solo non lo fosse, allora ritornerebbe chiaro che ci sarebbe una situazione politicamente anarchica perché gestita in modo anarchico, non certo perché gestita da anarchici. Siccome però un’evenienza simile è sicuramente improbabile se non all’interno di comunità create ad hoc, quindi cellule sociali esclusive e straordinarie, non può essere considerata che da un punto di vista meramente teorico.

Una risposta senz’altro più rispondente alla verità sarebbe: “L’anarchia è un tipo di società gestita anarchicamente”. Dove però è fondamentale chiarire il senso di quel anarchicamente, perché non è affatto né ovvio né scontato.

Una gestione coerentemente anarchica non è definita, né ha senso definirla, in modo rigido una volta per tutte, considerandola magari riproducibile pari pari in tutte le situazioni. Una prima caratteristica fondamentale è proprio la sua duttilità operativa. Questa insita elasticità, funzionale a renderla attuabile, non si sposa però affatto con altrettanta malleabilità per quanto riguarda la coerenza coi principi, rispetto ai quali invece è inflessibile. L’anarchismo invero si definisce come insieme di valori e principi fondanti, irrinunciabili se se ne vuol mantenere intatto il senso, mentre per divenire praticabile lascia spazio ad una sperimentazione permanente. Data la complessità esistente in ogni ambito del reale sarebbe impensabile, se non addirittura assurdo, concepire una sola possibilità di soluzione, al massimo due. Ciò che conta veramente è che l’arco delle possibilità ipotizzate e da sperimentare sia pienamente cogente all’interno dei presupposti fondanti.

L’anarchismo definisce le possibilità della sua gestione politica secondo assunti che esprimono dei valori di fondo collegati ai fondamenti del sapere, i quali hanno una vera e propria valenza paradigmatica, sono cioè forniti di un valore esemplare e capaci di stabilire una linea di riferimento irrinunciabile. Esprime la contrapposizione più netta al principio del dominio e alle stratificazioni gerarchiche, mentre pone in modo inequivocabile i principi dell’uguaglianza e della decisionalità orizzontale. Le relazioni si devono organizzare su basi di parità e reciprocità, facendo in modo che non possa sussistere nessuna forma di governo e di comando dall’alto, ma tutto si svolga attraverso decisioni concordate e consensuali attraverso forme di autogoverno. In altre parole, invece di strutture minoritarie che decidono per tutti, strutture plurali estese a tutti per decidere tutti insieme. Una specie di koinarchia, stato condiviso dove si prendono concordemente decisioni comuni.

Conseguente col suo significato etimologico (an/archos: senza arconte, senza reggitore, o capo, o comandante), la proposta politica di gestione anarchica getta le basi per la più completa autonomia (auto/nomos: far le regole da sé, senza che vengano fatte da altri per me), si fonda così sull’autogestione (governo autonomo), contrapponendosi ad ogni forma di eterogestione (governo esterno, di altri che si impone su di me). Non stabilisce a priori né lo spazio né le modalità specifiche dell’autogoverno, mentre ne identifica il senso e il metodo. Ogni comunità, federata alle altre nel riconoscimento di una reciproca autonomia, definisce autonomamente i modi dell’esercizio del proprio autogoverno, che per esser tale non può contenere gerarchie di potere e incarichi di comando. È una visione reticolare non centralista, ma acentrica o, al limite, policentrica, dove eventuali centri non hanno funzione di comando, ma di coordinamento federativo. Ecco gettate le basi di un metodo del tutto alternativo a quelli finora imposti, che per essere attuato e funzionare necessita dell’affossamento o del superamento dei metodi di potere vigenti, in quanto del tutto incompatibili.

Naturalmente si può benissimo verificare che dei non anarchici, teoricamente anche in assenza di anarchici, spontaneamente abbraccino un simile metodo, dal momento che si fonda su pratiche di libertà e, soprattutto dove c’è necessità di creare situazioni solidali, se fatto con consapevolezza comporta efficienza e vantaggi organizzativi.

Gli anarchici allora non sono indispensabili? In realtà solo all’apparenza o ad uno sguardo superficiale. Sono infatti gli unici a concepire, a pensare, a vivere ed a proporre questa metodologia come mezzo di trasformazione rivoluzionaria. Per tutti gli altri o può esser utile per una fase concepita come transitoria, oppure addirittura è osteggiata perché ritenuto impraticabile. Per tutti gli altri, in un modo o nell’altro, la società si può trasformare solo prendendo in mano le leve del potere, o attraverso mezzi di infiltrazione socialdemocratica o con la sovversione insurrezionale. Chi vuole prendere il potere, se e quando ci riesce se lo tiene ben stretto, per cui non può né vuole usare mezzi e strumenti adatti ad eliminarlo. E l’autogestione ha lo scopo precipuo di sovvertire, annullare e sostituire ogni forma di comando e di potere gerarchico.

La presenza degli anarchici allora è importantissima per garantire che le esperienze autogestionarie non rientrino, o vengano riassorbite, o mistificate, o nullificate. Senza di essi quasi sicuramente sono destinate ad esser messe da parte e a far si che si ricompongano forme di imposizione e di comando che l’esperienza di autogoverno transitoria aveva momentaneamente superato. Per gli anarchici l’istituzione di forme di autogoverno non è un fatto transitorio o strumentale, bensì è il mezzo principe per scavalcare gli attuali assetti politici e trasformare la logica del potere, oggi fondata su istituzioni fatte per comandare e imporsi. Domani sarà l’espressione di una volontà collettiva condivisa che usufruirà della partecipazione volontaria di ogni componente la società.

Su queste considerazioni di partenza si innesta un problema politico di grande rilevanza. Dato che è altamente improbabile che si verifichino situazioni in cui tutti siano anarchici, bisogna tener conto in modo appropriato che gli anarchici, volenti o nolenti, dovranno sempre confrontarsi con altri che la pensano diversamente da loro, fino a dover definire e condividere con essi modi e scelte di costruzione sociale. Sul piano teorico non esiste alcuna difficoltà, dal momento che uno dei fondamenti della visione libertaria non è solo l’accettazione ma anche la valorizzazione di chi la pensa in modo differente, proprio per salvaguardare la libera espressione di tutti. Ma sul piano pratico la cosa diventa più che complessa estremamente complicata, soprattutto quando altri vogliono imporre punti di vista e modi autoritari.

Per comprendere la portata di questa dimensione, mi sembra indispensabile chiarire prima un punto che ritengo fondante e irrinunciabile. Agli anarchici interessa sopra ogni altra cosa mettere in moto dei processi di autogestione autentica, che siano in grado di coinvolgere la società nel suo complesso e nella sua interezza, senza che si determinino strutture gerarchiche e posizioni di comando più o meno mascherate. Che ciò avvenga con loro o senza di loro è molto meno rilevante anche se nei fatti, come abbiamo visto, riveste un’importanza non indifferente. Per loro è molto meno importante il problema, generalmente molto sentito invece dai partiti e dalle lobbies, dell’affiliazione, cioè dell’ingrossamento delle proprie fila, anche se giustamente con la propaganda tendono a far si che aumenti il numero degli aderenti alle loro proposte e alle loro idee. Ma ciò che loro veramente interessa è che nei fatti si realizzi in modo cogente e coerente una pratica autogestionaria diffusa e partecipata, al punto da ritenerlo l’obbiettivo fondamentale verso cui tendere senza risparmio ogni energia disponibile.

Ho sottolineato questo aspetto perché ritengo che nelle scelte gli intenti siano elementi basilari ai fini delle realizzazioni conseguenti. E l’intento prioritario non può che essere la volontà che la società si trasformi in senso libertario, molto di più di quello di diventare una grossa organizzazione che riversi la propria forza sull’insieme del resto sociale. È intuitivo che quest’ultima priorità appartiene più all’ordine della gestione di un potere di tipo impositivo che a quello dell’estinzione o superamento dello stesso. Resta ferma la considerazione che un numero maggiore di anarchici rappresenta di per sé un’autentica garanzia della coerenza autogestionaria, ma dentro una logica di dilatazione e assunzione collettiva della stessa non di gestione politica.

Diventa dunque ineludibile aver ben chiaro che bisogna lavorare e accordarsi con tutti coloro che sono interessati a sperimentare forme di partecipazione autodiretta, anche se da costoro non viene vista come momento di trasformazione rivoluzionaria, o è vissuta tatticamente come fatto episodico. Ciò potrebbe rientrare in una logica di alleanze politiche. Ma preferisco pensare che non si debba agire in tal senso, dal momento che tradizionalmente quando si parla di alleanze politiche si intende la stipulazione di accordi tra dirigenze. È notorio che gli anarchici non hanno dirigenze che stabiliscano la linea perché ne rifiutano il principio, come pure non riconoscono la responsabilità collettiva o di partito. Come potrebbero dunque fare alleanze?

Si possono invece definire e praticare collaborazioni legate al che cosa fare di volta in volta e come farlo. Il compito degli anarchici è quello di operare in modo tale che gli individui, tutti gli individui, si accordino consensualmente su un piano di mutua solidarietà col massimo della lealtà e della trasparenza. Ciò che conta è che eventuali accordi non avvengano sottobanco o attraverso contrattazioni con elite dirigenziali sganciate dalla loro base. Dove ci sono deleghe non debbono esserci senza mandato revocabile, in modo che nessuno possa prendere decisioni al posto di nessun altro senza il suo consenso. Tutto si deve svolgere alla luce del sole, in modo che ogni componente ed ogni partecipante alla sperimentazione sia consapevolmente coinvolto ed abbia la possibilità di intervenire nelle decisioni. Bisogna trasmettere la convinzione che la cosa può funzionare soltanto se si riesce a creare uno spirito diffuso di fratellanza e di solidarietà reciproca, capace di scalzare le ragioni che in genere portano ad imporre dirigenze gerarchiche e strutture di comando.

Così più che alleanze tra elites partitiche, che sono sempre l’anticamera di accordi di potere, bisogna trovar la strada di perseguire il mutuo accordo e la collaborazione con tutti, stimolando il dibattito sui modi diversi di pensare e valorizzando i punti di convergenza e le tensioni comuni, ma soprattutto accettando la diversità dove si manifestano delle divergenze, all’interno di uno spirito concorde secondo cui nessuna componente travalichi le altre né agisca per imporre il proprio punto di vista. Non c’è nulla di male, per esempio, se si sperimentano modi e forme differenti anche per realizzare la stessa cosa. Il confronto nella pratica sarà maestro per far capire quale sia il modo migliore. Non abbiamo forse sempre sostenuto che la diversità è ricchezza?

La problematica autogestionaria non si esaurisce però nell’identificazione delle sue modalità di attuazione. Anche se sono essenziali, perché il metodo in politica è sostanza, non esauriscono in alcun modo la realizzazione del senso che sottende alla scelta dell’autogoverno, cioè la costruzione di stati di libertà e l’eliminazione della logica e delle strutture del dominio in qualsiasi forma possano manifestarsi. C’è infatti a monte un pericolo, insito in tutte le edificazioni delle strutture della politica. Ed è che si abbia una visione applicativa eminentemente procedurale, cioè la convinzione che sia la procedura in sé la chiave che esaurisce in toto lo scopo della costruzione. Non dimentichiamoci che i mezzi debbono essere confacenti e cogenti coi fini, come pure che i fini hanno bisogno di mezzi adeguati per diventare atto attuato.

Agli anarchici non può interessare l’autogestione in quanto tale, indipendentemente dalle decisioni che può mettere in campo. Sarebbe un errore imperdonabile. Essi la propongono perché hanno capito che è l’unico metodo coerente per mettere in piedi relazioni sociali e decisionali rispettose della più completa libertà sia collettiva sia individuale, capace di eliminare soprusi e sopraffazioni all’interno del corpo sociale. Allo stesso tempo non si accontentano, non possono accontentarsi, perché si preoccupano anche di ciò che può venir deciso. Sopra ogni altra cosa vogliono, anzi esigono, l’anarchia. E sanno che l’autogestione non è che il primo momento, indispensabile ed ineliminabile, per renderla operativa. Ma da sola è monca, del tutto insufficiente a rendere operante gli assunti, gli scopi e il senso che definiscono nella sua interezza uno stato diffuso e condiviso riconoscibile nei principi anarchici.

Le decisioni non sono mai neutre, impongono delle scelte e scegliendo fanno prendere parte. Ci sono decisioni eticamente deprecabili ed altre al contrario moralmente giuste, alcune che rispettano le persone ed altre che le umiliano. Dipende sempre dai criteri e dalla visione con cui si giudica e quindi si sceglie. È il tipo di decisione presa, oltre al modo, a definire e chiarire se si è stati coerenti oppure no. Per questo, se si dà importanza solo all’aspetto delle procedure, paradossalmente può anche accadere che, pur in seguito a pratiche autogestionarie perfettamente congruenti nel metodo, si prendano decisioni che invece non lo sono affatto rispetto ai fini ed ai valori di riferimento. Con l’accordo e il consenso del corpo sociale si può per esempio deliberare di restringere le libertà personali per ragioni di sicurezza, oppure si possono scegliere concordemente misure e pratiche inquinanti che deturpano l’ambiente. Gli esempi potrebbero essere molti. In ognuno di questi casi la procedura decisionale rientrerebbe perfettamente nelle modalità autogestionarie, mentre ne deriverebbero scelte che sono in conflitto con gli assunti di principio per cui è stata messa in atto.

Come per tutte le cose, bisogna avere una visione che tenga conto della complessità del reale di riferimento. La procedura è solo una delle componenti dell’insieme che deve dare senso alla realizzazione. Se viene vista a sé stante, sganciata dagli scopi per cui viene proposta, facilmente travalica e tradisce il senso originario, il quale, per rimanere presente e diventare fatto compiuto, ha bisogno di consapevolezza e coscienza dell’agire. Bisogna perciò che la società nel suo complesso tenga sempre ben presente che l’autogestione è soprattutto il mezzo fondamentale per la realizzazione di una società diversa, alternativa a quella che conosciamo e subiamo e fondata sulla solidarietà e la reciprocità delle relazioni umane, che vuole realizzare l’uguaglianza sociale e la valorizzazione delle differenze, che vuole al contempo ristabilire un equilibrio integrato con l’ambiente, perché si fonda sul ripudio di ogni forma di dominio e predominio, rispetto sia a tutti gli esseri umani, sia a tutti gli altri esseri viventi, sia al contesto ambientale in cui vive ed opera.

In definitiva, se e quando sarà realizzata, l’anarchia non potrà che rappresentare il più completo superamento dell’approccio culturale antropocentrico, tuttora dominante, che abusivamente vede l’uomo come il legittimo padrone di tutto ciò che la natura mette a disposizione, pretendendo di conseguenza di poterne fare man bassa a suo piacimento ed a sua totale discrezione. Col sistema capitalista imperante, fra l’altro, vige l’aggravante che non è neppure l’umanità in quanto specie ad usufruire dei presunti benefici di questo sistematico arbitrario depredamento delle fonti naturali. È altresì una minoranza di individui interni alla specie ad avvantaggiarsene a scapito di tutti gli altri, autogiustificandosi con dottrine di egoismo individualistico negatrici di ogni solidarietà sociale e di ogni rispetto e riconoscenza verso i propri simili.

Con l’anarchia, se avrà possibilità di affermarsi, torneremo ad essere pienamente parte integrante degli equilibri naturali ecosistemici, all’interno dei quali esistono funzioni differenziate funzionali al mantenimento del sistema, mentre non esistono, né possono esistervi, gerarchie e strutture di comando, processi proprietari di accumulazione capitalistica, speculazioni finanziarie a vantaggio di ingordigie individualistiche. In un ecosistema l’uso necessario dell’energia è autogestito da tutte le sue componenti, seguendo una logica di distribuzione spontanea secondo cui tutti si prendono la parte di quantità indispensabile alla sopravvivenza. Ogni componente ha bisogno di essere integrata e di far parte dell’equilibrio comune, mantenendo il quale ne beneficiano tutti.

Armati di intelligenza saggezza e umiltà, col disincanto necessario dovremmo riuscire a guardare l’”anarchia” degli ecosistemi naturali e riflettervi su. Ci accorgeremmo che funzionano per processi di integrazione spontanea, senza imposizioni di sorta. Forse allora riusciremmo a immaginare e mettere in atto modi di autogestione collettiva che ci permetterebbero di stare bene convivendo concordemente nella solidarietà e nella reciprocità, non desiderando più il massacro sistematico e continuo di tutto e di tutti, ma cominciando a desiderare di essere parte integrante del mondo e dell’universo, senza volerli più né conquistare né dominare.

Andrea Papi