LA PANTERA: IL MOVIMENTO DELL'89"

Tra falchi e falcucci

 

Sembrava ormai che qualsiasi manovra antipopolare potesse essere digerita con la massima facilità: il taglio della scala mobile, gli aumenti indiscriminati, la crescita enorme della disoccupazione arrivata a toccare i tre milioni e mezzo di persone di cui il 70% sotto i trent'anni, il ricorso selvaggio alla cassa integrazione, erano «passati» sinora nel modo più indolore. Ma proponendo la Finanziaria il governo ha forse sbagliato i suoi conti. Se il movimento nato in ottobre crescerà, sarà difficile spremere dalle tasche dei lavoratori gli 8.000 miliardi previsti.

Tutto è incomincialo da semplici questioni riguardanti la fatiscenza cronica delle strutture scolastiche: un liceo che scende in piazza per poter utilizzare qualche aula in più, un altro che reclama maggiore igiene e forme più appropriate di derattizzazione, il tutto condito da qualche discorso sulla «riqualificazione della professionalità» e sul rinnovo della didattica.

I giornali, a cominciare dal «Manifesto», hanno rispolverato l'immagine dei «paninari» che della politica «se ne fregano», cercando dl renderla emblematica di una nuova forma di «partecipazione» asettica, pensata e voluta in funzione della pace sociale e della meritocrazia. Ma la «politica», cacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra. Le piccole delegazioni di giovani compunti ed ossequiosi accompagnati dalle rispettive mamme hanno ceduto il passo alle manifestazioni: unta dopo l'altra le piazze di Torino, Milano, Firenze, Palermo, Napoli, Roma si sono riempite. Sono volate le prime uova marce, il dibattito s'è intensificato; dalle timide richieste iniziali s'è passati a rivendicazioni sempre più ampie. Anche se lentamente, riemerge una ritrovata capacità di auto‑organizzazione rimasta sopita da tempo. Da dentro l'edificio scolastico fanno di nuovo capolino le annose problematiche legate alla «questione giovanile», il dubbio e la volontà di capire. Lo spettro della contestazione, trionfalisticamente data per morta attraversa di nuovo il centro delle metropoli, ritornano alla ribalta la voglia di lottare, lo scontro con le istituzioni. i gruppi organizzati: quelli che esprimono un'esigenza rivoluzionaria così come quelli che si pongono in un'ottica di mediazione.

La storia si ripete. La FGCI, come negli scorsi decenni, anche questa volta tenta di «veicolare» gli studenti. E lo fa can una pratica «sotterranea», parallela anche se contrapposta a quella della «Autonomia Operaia». Tutte e due queste formazioni infatti, sebbene con scopi differenti (la prima tende a frenare l'incisività delle mobilitazioni, la seconda a condurle ad una logica velleitaria ed estremizzata dello scontro) sono di fatto funzionali al sistema perché rischiano di portare il movimento degli studenti ad una morte repentina. Due organizzazioni preziose l'una all'altra: la FGCI si «ingrassa» fomentando la paura dell'«Autonomia», che a sua volta accentra ed appiattisce il dibattito politico facendo riferimento alle prevaricazioni della struttura giovanile comunista, come se tutto si risolvesse scacciandola dalle assisi studentesche.

Assistiamo allora ad un coro unanime, sulla stampa ed alla televisione, di plauso ed approvazione per questi «ragazzi dell'85» che a giudicate dai mass media parlano solo per bocca dei «figiciotti», giovani con «la testa a posto» e responsabili che si limitano «realisticamente» a rivendicare cose possibili Invece di «chiedere l'impossibile». Si moltiplicano le «tiratine d'orecchie» ai «birichini» dell'Autonomia.

Indubbiamente la FGCI vorrebbe che questo movimento esprimesse contenuti prettamente riformisti, che si limitasse a battersi per «risolvere» alcuni problemi inerenti il solo mondo della scuola, come il miglioramento delle strutture ed un vago «diritto allo studio» riempito non si capisce bene di quali contenuti. Da buona appendice di quella forza istituzionale che è il PCI, tutta interna alla logica degli equilibrismi politici, la FGCI fa sapere che non è contraria alle tasse (anche se «questa volta s'è esagerato») se queste «servono veramente a migliorare le condizioni generali». Cavalcare il movimento, quindi: ma siccome non s'accettano più al suo interno partiti e partitini bisogna fare finta di non esserlo, anche se occorre far passare comunque, prevaricando, le «parole d'ordine» prestabilite. L'ipocrisia la fa da padrona ed esempi di penosa dequalificatone si susseguono gli uni sugli altri

A Milano uno studente della FGCI, che evidentemente era già stato redarguito da qualche funzionario di partito, perché la sua «cellula» non aveva deposto l'effigie di Che Guevara si scusa così con un giornalista della RAI che gli chiede malizioso che significato abbia quel volto in una manifestazione «apolitica». «È uno striscione vecchio e non abbiamo fatto in tempo a prepararne un altro». Dopo pochi giorni, a Roma, durante la manifestazione del 16 novembre, noti picchiatori fascisti fanno mostra di sé gridando: «Falcucci,  Falcucci, siamo stufatucci», mentre tentano di aggregarsi senza successo alla coda del corteo insieme ad un gruppo di fanatici dei «Duran Duran» ed a qualche studente sprovveduto.

Una visione molto più ampia

Se da una parte non si fa altro che esaltare la presunta «apoliticità» del movimento, dall'altra lo si critica col paternalismo dei «reduci», che non intravedono nel cammino sin qui percorso sufficienti «garanzie», abituati come sono ad identificare la «tensione rivoluzionaria» con i simboli usuali e le frasi fatte di questa o quella «linea» prestabilita. Se è pur vero che la maggioranza di coloro che scendono in piazza si sta affacciando per la prima volta sul fronte delle lotte, s'avverte ugualmente una sfiducia strisciante rispetto all'istituto della delega ed ai rappresentanti «ufficiali» della politica e con questi presupposti tutto è possibile. Gli studenti sono spinti da un sano impulso congenito a cercare da soli la propria strada, a muoversi con le proprie gambe, a decidere in prima persona quando e come far salire i livelli di «maturazione».

Si «cresce» rapidamente: la manifestazione nazionale di Roma (16 novembre) ha rappresentato, ad esempio, un salto di qualità molto evidente. l'atmosfera non era più soltanto «festaiola», si respirava nell'aria una spinta propulsiva maggiore. Comincia a farsi strada forse una visione molto più ampia della posta in gioco. Ciò non toglie che potrebbe trattarsi soltanto di un «fuoco di paglia», soggetto a spegnersi al più presto. Ci sono però gli ingredienti necessari perché possa operarsi quel «salto di qualità» che sappia porsi all'ordine del giorno una nuova concezione del processo d'apprendimento inteso come fare creativo ed autogestito, al di là della succube ricezione di nozioni e metodologie, come base per una nuova visione del mondo e dell'esistenza

La logica degli schieramenti non appartiene a questo movimento. Si sente che è vissuta controvoglia, che se ne rifiuta l'imposizione: in piazza saltava agli occhi la disponibilità al dialogo, l'apertura verso qualsiasi tematica venisse proposta al confronto. Grande anche l'interesse verso le idee anarchiche: in molti si sono mostrati favorevoli a quanto scritto sui volantini distribuiti dai nostri compagni ai quali spesso veniva chiesta l'ubicazione delle nostre sedi e notizie sulle attività libertarie. Tutto ciò nonostante i tentativi di divisione portati avanti da tempo. A Roma, in particolare, si cerca in tutti i modi di separare gli studenti medi dagli universitari, il cui livello di mobilitazione ha toccato punte significative (basti pensare all'assemblea permanente dei fuori sede che si protrae da settimane nella «casa dello studente» ormai semi occupata)

La grande partecipazione del 16 novembre ha fatto dimenticare l'apatia che negli ultimi anni pareva aver preso il sopravvento fra i «medi» nonostante l'ininterrotto scrosciare della pioggia. In più l'assenza dei simboli d'organizzazione rimandava in sottordine per un attimo tutto il lavoro sotterraneo che impegna le varie dirigenze di partiti e partitini: non c'è stato striscione che volesse prevaricare su un altro, era indifferente stare davanti o dietro, Unico ricordo di una logica ormai vecchia ma sempre presente, lo scontro per la testa del corteo. Sul piano delle scorrettezze la Federazione Giovanile Comunista è maestra ed ha fatto sì, sorretta anche da Democrazia Proletaria, che questa scadenza venisse recepita come «calata dall'alto» da quel di Milano, senza la benché minima discussone sui tempi e sui contenuti con gli altri settori del movimento del resto d'Italia. D'altronde gli autonomi padovani e romani, ribattezzatisi per l'occasione «studenti ripetenti», hanno mostrato subito di raccogliere la sfida tentando invano di aggiudicarsi l'ambito «posto d'onore», come se questo fosse determinante ai fini della protesta o ne caratterizzasse l'espressione. Ciò per loro era fondamentale e al fine di preparare quest'obiettivo hanno lavorato assiduamente nei collettivi e nelle assemblee precedenti, infischiandosene del fatto che tutti gli altri, compresi i nostri compagni presenti in quasi tutte le facoltà, ma soprattutto gli stessi comitati universitari nella loro completezza, si fossero espressi costantemente perché s'evitassero scontri di qualsiasi genere e si desse vita invece, una volta tanto, ad una pratica politica più consona ad un movimento in fase di sviluppo prendendo le distanze nei fatti da simili meschinità con un ben diverso segnale d'apertura.

Lo scontro per lo scontro

Ma la pratica quotidiana dei militanti della «Autonomia Operaia» ripropone giocoforza, contrariamente a quanto spesso affermato, il primato dell'ideologia sulle necessità reali. Ripropone l'ideologia stessa in un'ottica di alienazione, secondo la ben nota concezione dell'avanguardia che concede o meno l'imprimatur alle lotte, agendo dall'esterno dei movimenti reali ma volendone a tutti i costi determinare l'opinione, pur non condividendone le pratiche. È la logica del  «rivoluzionario di professione», che pretende di decidere sempre e comunque il corso degli avvenimenti, senza far nulla per avvicinarsi alle dinamiche espresse dalle «masse» o per capirne il senso, secondo una prassi veramente dequalificante del «lavoro politico», ove ci si limita ad inseguire elementi di autogratificazione.

In passato, gli «strateghi» della cosiddetta «Autonomia» si sono lasciati andare a «contorsionismi» d'ogni genere per non perdere il «treno» del grande movimento assembleare e di base espressosi nel '77, ove era evidente un netto rifiuto del «dirigismo». Sono riusciti quindi ad usare la tensione espressa dal basso come un ariete per demolire i gruppi concorrenti, criticandone le forzature ideologiche e la struttura verticistica, denunciando strumentalmente l'inutilità delle stesse organizzazioni specifiche, e propagandando ovunque la creazione di «comitati autonomi», collegati però a doppio filo, secondo i dettami del più manicheo leninismo, a sovrastrutture più o meno nascoste tese ad impostarne la linea politica. Riuscirono così a penetrare in molte situazioni con l'intento di egemonizzarle. Secondo il più dozzinale massimalismo, la critica dell'ideologismo (modo fuorviante e totalizzante d'intendere l'ideologia) s'è fatta critica delle idee e strozzatura della discussione. S'è riportata in auge la condanna delle diversità a favore dell'uniformità e dell'appiattimento teorico tramite metodi dettati dall'insofferenza verso ogni particolarità, nel nome d'una malintesa «coscienza proletaria» pretesa come avulsa dal dibattito sulle metodologie stesse, sull'etica della libertà e sulle concezioni di fondo rispetto a ciò che s'intende per trasformazione sociale, sull'accettazione o sul rifiuto dei fantomatici modelli di «stato proletario» proposti, estranea quindi all'antitesi libertarismo-autoritarismo. Un vero e proprio ricatto ideologico in omaggio agli stilemi: presa del potere, dittatura, preminenza dell'economico, del «militare» e della «linea di condotta comunista» sul gradualismo, sulla rivendicazione e sul bisogno. Da questo l'attivismo «tout court» finalizzato spesso ad un impegno acritico, spinto fino ad estreme conseguenze, estraneo ad ogni forma non velleitaria di ripensamento che potesse mettere in forse il dominio da esercitarsi in ogni caso sul sociale per mezzo di continue forzature operate da un gruppo omogeneo selezionato, «dirigente» di nome e di fatto, autonominatosi tale e fruitore di una delega in bianco fonitagli in nome della necessità di salvaguardare la «coscienza di classe». Del resto dello spirito del movimento del '77 non era rimasto in queste prassi altro che un'ombra vaga, innesto impossibile sulla pianta di un vetero operaismo dai contorni assai dottrinari. Tale genere di «autonomia operaia» non s'è dimostrata altro che riproposizione riveduta e corretta della «autonomia del politico», secondo il tradizionale assunto machiavellico (la ragione è di chi vince) per il quale «il fine giustifica i mezzi».

II mito dello «scontro per lo scontro», l'avanguardismo come pratica delle prevaricazioni soggettiva («chi non è con noi è contro di noi») nelle assemblee ai cui deliberati venivano sovrapposte all'atto pratico scelte di «partito», il vaglio ideologico dei «bisogni», i dettami di una strategia precostituita e la definizione aprioristica e dozzinale dei «soggetti sociali», determinarono la caduta del movimento, venuta a seguito di una pratica indiscriminata di appiattimento generale del confronto. Il resto lo fece il terrorismo, ulteriore «fuga in avanti» in risposta alla crisi di legittimità delle «avanguardie» nel tessuto sociale in un disperato quanto inutile tentativo di rivalsa: vero rullo compressore che favorì enormemente il chiudersi della tenaglia repressiva dello stato, fiancheggiati dall'opera svolta dalla sinistra istituzionale tutta tesa, pur seguendo diverse direttive, a negare spazio a qualsiasi forma di lotta non compatibile con la logica di cogestione dell'esistente e di totale annientamento e criminalizzazione di ogni espressione autogestionaria in antitesi con quella «politica dei sacrifici» che, promulgata proprio negli ultimi anni '70, divise il fronte degli sfruttati in «garantiti» e «non garantiti».

Questi i canoni della sconfitta d'un progetto che fu egemone e che trascinò con sé, tramite l'autonomia, qualsiasi altra tesi, impedendone l'affermazione. Occorre oggi recepire le tendenze in atto al di là dei luoghi comuni di quel «residualismo» dozzinale e massimalista che ancora nutre velleità dirigistiche e strumentali, tanto da porsi con spirito elitario in termini colpevolisti verso un sociale definito frettolosamente come «impolitico».

Sarebbe troppo facile ed altrettanto erroneo definire quella che è stata essenzialmente una crisi delle organizzazioni leniniste e dei loro programmi come crisi del tessuto rivoluzionario in senso lato, anche se queste rimangono ancora legate al passato, attribuendo le ragioni della sconfitta solamente alla «repressione», al defilarsi opportunistico, alla rinnovata egemonia del «privato» e del «consumismo», all'azione deleteria del riformismo, il «gran corruttore» delle aspirazioni di cambiamento espresse (seppure in modo confuso) da larghi strati della società nella seconda metà degli anni '70. In realtà la dinamica è molta più vasta: tutti hanno contribuito all'affermazione di una sorta di «conformismo di sinistra» che ha fatto maturare, di contro, un ritorno al «qualunquismo» in uno scontro culturale che ha visto declinare l'antagonismo fra le fasce giovanili, asfissiate da una pratica della politica vissuta come «bisogno», avulso dalla propria realtà, inserita nel «bisogno» indotto dello spettacolo.

Ogni commento è superfluo

Anche in questi giorni le assemblee universitarie sono state, ancora una volta, usate come una passerella, un palcoscenico sul quale si sono succeduti, uno dopo l'altro, alla ribalta, tanti «attori» che proponevano il loro «numero» noncuranti della risposta della «platea», spinti più dal gusto di «sentirsi parlare» che dalla volontà di dare un contenuto positivo e concreto al messaggio da comunicare agli altri. E infatti quale discorso propositivo poteva uscire dagli interventi dei rappresentanti della «Autonomia» romana e padovana quando tutti ricalcavano lo stesso «copione» deciso e concordato precedentemente? Quale arricchimento al dibattito potevano portare quelle «orazioni» mirate ad imporre, con una pratica meschina, un'unica linea di condotta (la loro)?

Nessun intervento, in un incontro nazionale tenutosi dopo otto anni di quasi totale silenzio. ha fatto riferimento alla stona delle lotte passate proponendo un qualsivoglia momento riflessivo, anzi si è stroncato sul nascere ogni minimo accenno diretto ad una rianalisi critica. Non ha nessun significato invocare la decisionalità delle assemblee, tanto più se queste vengono gestite, come è successa il 10 novembre a Roma. con forzature tali da far passare sulla testa di presenti e non presenti gli «usi e costumi» di poche persone che pretendono di essere rappresentative della totalità delle realtà esistenti in tutt'Italia, mentre hanno alle spalle solo se stessi ed il loro «peso politico». Nonostante tutto il parlarsi addosso sul fatto di stimolare la crescita degli studenti, di far avanzare gli obiettivi della lotta, è prevalsa la logica del restare all'interno degli atenei invece di andare direttamente a contattare i medi e conseguentemente gli altri settori sociali ugualmente colpiti dalla «Finanziaria».

Ugualmente, grazie alla stessa pratica politica, l'Autonomia tenta di gestire le proteste di piazza alle quali si presenta puntualmente con la tenace intenzione di gestirle in tutto e per tutto; riappare di nuovo l'ombra del mito dell'«insurrezione tout court» ed il ricordo di manifestazioni vissute come «roulette russe» di cui non si poteva mai prevedere l'esito finale. Il velleitarismo stronca sul nascere anche la proponibilità di obiettivi radicali ma praticabili, anziché preparargli il terreno: paradossalmente non si parla ancora di occultazioni o blocchi della didattica.

Nonostante tale quadro, appare evidente una attualità delle tematiche libertarie all'interno del movimento che si è espressa in modo evidente per il rifiuto della delega, l'azione diretta, l'autodeterminazione, l'indipendenza e la libertà d'azione di ogni singola situazione. Ma queste tesi, di cui s'è finalmente capita l'enorme portata, vengono stravolte e gestite in modo autoritario da tutte quelle organizzazioni che sotto una facciata «movimentista» trascinano la loro esistenza riproponendo forme politiche obsolete, snaturate da chi, come «Democrazia Proletaria», sempre meno presente a livello di massa, soprattutto nel Centro Sud d'Italia, non trova altro spazio che quello di un accodamento filoistituzionale di basso cabotaggio interno ad una logica di lottizzazione. Giunge voce, ad esempio, che a Palermo, il 15 del mese scorso, s'è tenuta una riunione sui «problemi degli studenti» alla facoltà di Giurisprudenza in cui, davanti a circa 100 persone, si è esibita una presidenza composta da rappresentanti di DP, FGCI, «Comunione e Liberazione» e FUAN. Ogni commento è superfluo.

La parabola discendente delle formazioni giovanili cattoliche di stampa confessionale, oggi in difficoltà di fronte alla radicalizzazione della protesta, è parallela allo scivolamento inarrestabile della estrema sinistra istituzionalizzata, destinata a condividere sotto molti aspetti la sorte del Partito Comunista. Per non parlare poi del Partito Radicale, sempre più impantanato nei meandri del «palazzo» insieme ai colleghi socialisti.

L'onda lunga del movimento

La geografia della presenza anarchica all'interno del movimento degli studenti attraversa tutta la penisola (e le isole). Ne sono piccola ma significativa testimonianza i resoconti/commenti che appaiono m queste pagine: niente di definitivo, sia chiaro, solo un contributo per meglio conoscere e comprendere la realtà in movimento di questo inaspettato movimento.

Una cosa è certa. Ci troviamo di fronte alle squallide politiche di quei partiti/partitini/gruppi politici che cercano di trarre vantaggio dalle richieste di riconversione etica della politica, espresse in particolare dai settori giovanili, stravolgendone però le istanze e disattendendone le aspettative Senza codismi né complessi d'inferiorità, anzi in sintonia con l'onda lunga di questo movimento (rifiuto della delega, pluralismo, rigetto dell'avanguardismo e del settarismo), possiamo/dobbiamo uscire con decisione alla scoperto, con la nostra presenza critica e le nostre idee-forza.

Stefano Fabbri d'Errico