Omosessualità
al confino
Dalla comunicazione di Lorenzo Benadusi
alla Giornata di Studi su “Il confino di polizia 1926-1943: la
repressione del dissenso sociale e politico nell’Italia fascista”,
organizzata dalla Biblioteca F. Serantini, in collaborazione con ANPI
Pisa e la Biblioteca della Casa della Donna di Pisa (Domus mazziniana,
31 gennaio 2004).
Il regime fascista durante il Ventennio si dedicò minuziosamente al tentativo di trasformare radicalmente le coscienze degli italiani, realizzando una sorta di “rivoluzione antropologica capace di rigenerare la nazione”. L’inevitabile conseguenza di questo progetto fu l’assoluta repressione di ogni e qualsiasi forma di dissenso, sociale e politico. Già nel 1923 Mussolini esprimeva con estrema chiarezza questa posizione fascista:
La politicità integrale dell’esistenza, con l’intervento diretto anche
nella sfera privata da parte di uno Stato che si voleva etico, doveva
permettere al fascismo di trasformare processi mentali, stati d’animo,
azioni, pensieri, stili di vita, comportamenti affettivi e sessuali, per
uniformarli alle direttive del regime.
Il modello di mascolinità proposto dal fascismo permeò la cultura comune, e
divenne un vero e proprio quadro di riferimento mentale e normativo: i
confini “leciti” della condotta sessuale e dell’identità di genere – sia
maschile che femminile – vennero tracciati in maniera netta e perentoria (2).
Quanto più rigida diventava la definizione di norme e modelli di
comportamento, tanto più – inevitabilmente – si allargavano le categorie
della “devianza” e si inaspriva la persecuzione repressiva contro chi, non
rispettando le regole, metteva in luce le contraddizioni della società.
Tutti coloro che rifiutavano o intaccavano a qualsiasi titolo i “valori”
dell’ideologia fascista venivano visti come ostacoli al mantenimento
dell’ordine sociale e politico che il regime si impegnava ad istituire; gli
elementi di criticità, quindi, dovevano essere esclusi dal mondo dei
“normali”, emarginati attraverso una delle tante “istituzioni totalizzanti”.
Carcere, manicomio, confino, istituto correzionale assumevano quindi una
doppia valenza: pedagogica, attraverso la radicale trasformazione della
personalità degli internati; repressiva, con l’isolamento degli individui
che socialmente e politicamente “indesiderati” o non abbastanza integrati
nella comunità.
L’omosessuale, pericoloso perturbatore dell’ordine nazionale, con la sua
stessa esistenza metteva in discussione i valori fondamentali della nuova
morale fascista; ledeva il prestigio nazionale con atti universalmente
considerati perversi; rischiava di corrompere tutti coloro che potevano
avvicinarlo; metteva a rischio l’avvenire della patria favorendo
comportamenti che, limitando la crescita demografica, indebolivano la
potenza della nazione; minava, insomma, la coesione interna del paese con la
confusione dei ruoli sessuali.
Un’azione troppo vistosa contro gli omosessuali dediti al “turpe vizio”,
però, rischiava di sortire un effetto negativo, dando visibilità a una piaga
sociale lesiva dell’onore e del prestigio della nazione. I mezzi impiegati
per la repressione dell’omosessualità, quindi, furono più spesso la censura,
la prigionia, l’emarginazione o la negazione stessa dell’omosessualità. La
“tolleranza repressiva” (3)
del fascismo italiano verso gli omosessuali mirò a colpire sistematicamente
ogni “anomalia” sessuale, cercando però di non suscitare scandali.
In base alla legge di Pubblica Sicurezza del 6 novembre 1926 n°1848 e al
Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 18 giugno 1931 n. 773, la Polizia
acquisì, in pratica, la facoltà di emarginare dalla società coloro che
costituivano motivo di scandalo per il regime, tramite provvedimenti
amministrativi di diffida, ammonizione o confino. Proprio il confino divenne
allora lo strumento privilegiato dal fascismo reprimere silenziosamente
l’omosessualità, proprio perché riusciva a colpire, con estrema facilità,
tutti “coloro che per il sistema di vita disordinata od immorale si mettono
fuori dal campo etico segnato dalla Legge senza però lederla direttamente,
od anche scalfendola”.
Oltre all’esclusione dalla convivenza civile attraverso il confino, il
regime usò anche altre forme, più sottili e pervasive, in questa guerra di
basso profilo contro l’omosessualità. Attraverso la satira, la diffamazione,
il controllo del parroco, del commissario di polizia, dei parenti e dei
vicini si cercò di ottenere una repressione sociale totale, volta a isolare
coloro che venivano considerati i “traditori della stirpe” (4).
La ricostruzione delle vicende degli ammoniti, dei diffidati e dei confinati
deve perciò essere affiancata allo studio di altre forme di persecuzione
basate sulla morte civile, sulla derisione pubblica, sulla perdita del
lavoro, sul diniego e sull’oltraggio, sulla violenza fisica.
Lo studio delle carte relative agli omosessuali mandati al confino permette
di partire dalla repressione dell’omosessualità per cercare di mettere in
luce i vari meccanismi della propaganda e della repressione utilizzati per
creare un’identità maschile conforme ai presupposti dell’ideologia fascista.
Diventa così possibile evidenziare quanto l’atteggiamento fascista nei
confronti degli omosessuali fosse retaggio di una lunga tradizione
precedente, e quanto a sua volta il fascismo favorì la sopravvivenza di uno
stereotipo capace di confluire – senza grossi cambiamenti – nella successiva
cultura repubblicana (5).
S. V.
Note: