di Massimo La Torre
Rispetto ad un libro di più di mille pagine com’è
quello di Nico Berti la reazione non può che essere d’ammirazione:
ammirazione per la vastità del campo di ricerca e del sapere snocciolato in
una prosa d’agevole lettura, per la enorme capacità di lavoro, per lo sforzo
di completezza. In effetti, non era stata finora tentata, almeno nell’ambito
culturale di lingua italiana, un’opera di questa mole interamente centrata
sul pensiero libertario. L’informazione di Berti al riguardo è
enciclopedica, la sua prospettiva di studio articolata, il suo interesse
oltreché storico genuinamente teorico. Detto ciò, in queste poche righe non
mi soffermerò sui meriti (indiscutibili) della sua interpretazione dei
"classici" dell’anarchismo (da Godwin a Malatesta) e degli "irregolari" che
possono ascriversi a questo (Merlino, Caffi, Rizzi), anche se forte è la
tentazione di dire qualcosa per esempio sulla configurazione teorica
attribuita a Merlino. Ma mi trattengo, in considerazione non solo dello
spazio che posso utilizzare qui ma anche del fatto che tale configurazione
dipende dalla più generale concettualizzazione dell’anarchismo difesa da
Berti e presentata nel primo capitolo del volume.
La tesi di Berti è che l’anarchismo sia un pensiero ossessionato dalla
storia. Però a contrario, per così dire. "Pur opposti, socialismo e
anarchismo - scrive - partecipano della stessa credenza e vivono dello
stesso mito: la supremazia della storia rispetto alla politica"(p. 23). E
quanto afferma qui Berti è certo, anche se tra il socialismo (inteso come
marxismo) e l’anarchismo v’è un’importante differenza rispetto al loro
atteggiamento rispetto alla storia: il primo (il socialismo) vuole sempre
farsi portare - per così dire - dalla storia, essere in sintonia con questa,
mentre l’anarchismo di sintonia non vuol proprio saperne ed invece è
ostinatamente proteso ad opporsi alla storia. In questo - e ciò è ben
sottolineato da Berti - entrambi sono ossessive filosofie della storia e
dunque risultano disattenti verso la politica come presente né causato da un
passato né condizione già sufficiente del futuro. Per il socialismo il
presente ha significato e rilevanza in quanto pegno di futuro, causa di un
effetto che è un tempo successivo. Per l’anarchismo invece il presente è
marchiato sempre e comunque dal fatto di provenire da un passato, d’avere
avuto una causa che lo ha prodotto. Il socialista può così in parte
riconciliarsi col presente ma solo come attesa di un evento che verrà.
L’anarchico è in perenne lotta col presente perché questo è figlio del
passato. Assistiamo dunque a ciò che Berti chiama "la supremazia della
storia rispetto alla politica". Nell’anarchico tutto ciò ha come conseguenza
- oggigiorno divenuta tragica - del suo compiacersi della propria
marginalità rispetto al suo tempo, nel crogiolarsi nello spazio
dell’esclusione e dell’insignificanza politica. Ché - si badi - essere
rilevante politicamente è esserlo nel presente.
Ora, questa interpretazione, insieme a quell’altra per cui l’anarchismo è ad
un tempo momento estremo del processo di secolarizzazione e nondimeno
reazione a questo e così fusione di etica e politica, questo prisma
interpretativo è acuto, equilibrato, corretto. Esso però vale solo - e qui,
io credo, Berti è meno sorretto dalla sua abituale sensibilità
storico-teorica - per una parte dell’anarchismo, quella romantica, quella
che muove da Bakunin e si afferma con la vulgata di Kropotkin e Malatesta.
Ma - checché ne dica Berti - questo non è tutto l’anarchismo, ne è
l’anarchismo "paradigmatico". Il mito insurrezionale è estraneo ai più
raffinati teorici del pensiero libertario: Godwin, Stirner e Proudhon.
Bakunin vi aggiunge certo la potenza della sua personalità e del suo
carisma, oltreché una buona dose di idealismo fichteano, e ne fa un
programma di "partito". Ma il Russo non dimentica il suo punto di partenza,
e il mito, la storia e la volontà romantica non oscurano in lui le ragioni -
più asciutte - della politica. Le quali in questa linea di pensiero - con
tutte le loro differenze - vanno rinvenute nell’idea di una democrazia
intesa in senso radicale e portata alle sue estreme conseguenze. V’è dunque
- oltre il romanticismo - un’altra radice dell’anarchismo ( ripresa poi tra
gli altri e in maniera particolarmente pregnante da Merlino): io la
chiamerei - rifacendomi ad un recente dibattito filosofico-politico - la
radice del repubblicanismo. Quando Bakunin, contrapponendo la nozione
comunitaria di libertà dell’anarchico a quella insolidale del liberale,
afferma che la libertà di ciascuno non è limitata bensì potenziata e
garantita dalla libertà di tutti non sta che riprendendo un vecchio motivo
conduttore del pensiero "repubblicano": dell’idea di democrazia deliberativa
in cui la libertà non è mera assenza di costrizione ma indipendenza rispetto
all’intera sfera della buona vita , non sicurezza sotto lo scudo di una
legge bensì capacità effettiva di intervenire e produrre la legge. Si
ricordi a questo proposito che in Théorie de la propriété - uno degli
ultimi libri di Proudhon - la nozione di proprietà accettata dal Francese è
molto simile a questa nozione di "indipendenza", un àmbito di autonomia
autogenerato dal soggetto mediante la produzione di titoli giuridici ed il
controllo su di essi.
Oltre al rifiuto della politica (che nel "repubblicanismo" ovviamente non si
ritrova) un altro punto che merita d’essere sottolineato come chiave di
lettura della storia dell’anarchismo, e anche come altra ragione della sua
progressiva ed apparentemente irrimediabile marginalizzazione, è la
strettissima connessione stabilita da questo tra etica e politica. La
separazione di queste due sfere non va letta unicamente come machiavellica
autonomizzazione della politica e legittimazione della Ragion di Stato, come
trionfo dei mezzi (la razionalità strumentale) sui fini (la razionalità
secondo il valore). La separazione di etica e politica, che - come dice
acutamente Berti- rappresenta una mutazione epocale la quale è condizione
necessaria della stessa "concepibilità" dell’anarchismo (ponendo all’ordine
del giorno il problema della giustificazione del potere politico in epoca
pre-moderna data in buona sostanza per scontata), tale separazione è anche
una mossa che permette la pluralità degli stili di vita all’interno di una
medesima comunità politica. Ora, questo problema non sembra essere
chiaramente avvertito dall’anarchico per il quale infatti la società
anarchica è una società di anarchici, non avvertendo tra l’altro che una
società anarchica come società di anarchici è una nozione per un verso
politicamente irrilevante - giacché dà per risolti in via di principio i
problemi della coordinazione politica delle condotte spostando la questione
sul piano etico - e per altro verso è contraddittoria - giacché presuppone
che non vi siano contrasti reali sulla conformazione dello stile di vita
dominante dando per definita una volta per tutte i contenuti dell’autonomia
dei soggetti -. Ma per l’anarchismo movimento romantico la virtù come
intenzione pura è più importante della condotta esterna. Non l’intero
l’anarchismo tuttavia passa attraverso la cruna dell’ago di una siffatta
riduzione dell’etica alla politica. Non tutto l’anarchismo è in questo senso
"religioso".
Bene, è da qui (repubblicanismo più separazione di etica e politica) che si
può riscrivere in parte la storia del pensiero anarchico ed anche ravvivarne
il significato "pubblico". Infine, sia detto en passant, con il libro di
Berti si conclude in certa misura una linea assai proficua di studi storici.
Dopo questa summa è un altro il còmpito che ci si può aspettare
dall’intellettuale libertario: quello di darci risposte normative, di
offrirci un modello teorico dell’anarchismo all’altezza della sua fama
storica. Elogia Berti "la libertà anarchica che fa coincidere la libertà
dell’uno con la libertà di tutti" (p. 19). Benissimo, ma che vuol dire? Come
si fa operativamente a conciliare la libertà di ciascuno con quella di tutti
gli altri? Con che princìpi? Quali sono i criteri normativi che rendono
possibile quella conciliazione o - usando la formula forte di Berti -
coincidenza? Non basta certo affermarla a parole la coincidenza, non basta
il gesto romantico, per renderla possibile. Ma qui non è più alla storia ma
alla filosofia che dovrà farsi ricorso.
Massimo La Torre