Il disonore dell’uomo è il Potere. Il quale si configura immediatamente nella società umana, universalmente e da sempre fondata e fissa sul binomio: padroni e servi – sfruttati e sfruttatori.
Elsa Morante,
Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe e senza partito),
1970 (o ’71).
di sergio falcone
“Il mondo per me non ha più un senso”, ripeteva la Morante negli ultimi anni. Un dialogo con lei, in quei momenti, era difficile; anche per gli amici. Anna Banti diceva che, al tentativo di conversazione per telefono, avvertiva dall’altra parte solo un pianto ininterrotto. Vi sono luoghi e situazioni – le cliniche, per esempio – che non destano altro che disperazione. Ad Elsa Morante sembrava di essere uscita dal proprio mondo, di averlo perduto; forse per sempre. Pochi amici intimi approdarono a quella stanza: Natalia Ginzburg, qualche familiare, la fedele Lucia. Si alternavano le infermiere, tra cui l’assistente Patrizia Santini e spesso i suoi amici, Carlo Cecchi, Goffredo Fofi, Alfonso Berardinelli.
Elsa Morante era ricoverata nella sezione neurochirugica di Villa Margherita, a Roma. La paziente si era anche rotta il femore per la seconda volta. Era seguito un tentativo di suicidio. Dice il saggista Goffredo Fofi: “Dopo il suo ultimo ricovero in clinica, Elsa era rimasta appena un giorno e mezzo nella sua casa di via dell’Oca a Roma. Più grave era la confusione, più grande la disperazione. Ma la disperazione della paziente costituiva un ostacolo alla cura, una sorta di ‘resistenza’ che la stessa paziente opponeva alle cure mediche. Ma stava già male mentre scriveva Aracoeli. La Morante era abituata a fare tre, quattro stesure di un suo libro. Questa volta non era arrivata alla seconda poiché le tremava troppo la mano”.
Già dagli anni settanta (La Storia è uscita nel 1974), eravamo abituati a vedere la vita della Morante come una successione discontinua di stati frammentari, con questo solo di comune: la direzione verso la morte. Ma perché questa profonda disperazione individuale? La risposta a questo interrogativo è dell’italianista e critico letterario Alfonso Berardinelli, grande amico della scrittrice: “Ogni sforzo per analizzare la vita privata della Morante attraverso dei dati esterni è inutile. Tutto quello che apparteneva alla sfera intima della Morante si ritrovava all’interno di Aracoeli. Tutte le vicende degli ultimi suoi anni erano scritte nel libro”.
Che la Morante fosse un campione di tolleranza, soprattutto con i cronisti indiscreti (e pettegoli) che l’assediavano, non si poteva proprio dire. Le pareva una profanazione di cattivo gusto il tentativo di inquisire e giudicare, in un’esistenza. Dall’ultimo suo romanzo, Aracoeli, giunge quasi un divieto: “Da vedere non c’è niente” e “non c’è niente da capire”. E’ arrivato il momento di porsi la domanda: la disperazione ha un senso? Per quanto riguarda la disperazione nella cultura contemporanea, più specificatamente nella narratrice Morante, essa si ricollega in parte alle disillusioni di origine storica o ideologica (… quanti compagni del ’68 tra le persone a lei care!); ma soprattutto questa perdita di speranza era legata ai fatti concreti della vita, agli affetti o memorie (spesso tragiche) di alcuni intellettuali suoi amici: Saba (morto disperato), Penna (morto nell’indigenza), Pasolini (morto ammazzato). Ma anche a vicende meno note come il suicidio dell’amico pittore Bill Morrow; un caso di suicidio di cui era quasi una testimone. Era proprio lei, infatti, a sostenere che il suicidio è il peggiore dei delitti, perché non comporta pentimento. Quindi, un processo continuo di identificazione ed introiezione. Infine, con l’immobilità fisica, con le complicazioni cerebrali, i pochi tentativi di risollevarsi finivano per alienare ancor di più la persona da se stessa. Non poteva più scrivere, né agire come una persona viva. Inutile dire come una tale rigida restrizione nei movimenti non solo le impoveriva la vita, ma rendeva sempre più grave la sua dipendenza dagli altri.
E’ possibile formulare delle ipotesi sulla personalità psichica della Morante e tentare una psicoanalisi della sua vita affettiva? E’ la domanda posta ad Alfonso Berardinelli. E la sua risposta: “Ancora una volta devi trovare le ragioni dell’ultima Morante in Aracoeli. E’ un processo di sdoppiamento e di diversificazione che la stessa Morante tende a spiegare: ‘Arrivo a consumare intere giornate in dibattiti a più voci… Dico a più voci, sebbene, in realtà, la voce fosse una sola: la mia… la mia propria voce che parla. E, in certi casi, varia timbri e toni: e si raddoppia, e si moltiplica e disputa e si affolla’”.
In un incontro tra amici, in compagnia del musicologo Paolo Terni e di Ida Einaudi, figlia dell’editore Giulio Einaudi, Elsa Morante parlava dei ricordi che le aveva suggerito la partita di football del ragazzo Useppe ne La Storia. Sembrava il resoconto di un sogno. Elsa raccontava di sé bambina e adolescente: una progressione di episodi felici, e rideva. Diceva che Useppe de La Storia era quasi suo figlio, e ricordava come, per narrare una partita a pallone del ragazzo, era andata ad osservare la frequenza del riso nei bambini che si rincorrono. La solennità dei giochi infantili!... “Da bambina vivevo in un quartiere della periferia romana (Testaccio), con dei campi da gioco, non molto lontano. Nei giorni di festa, i ragazzi infilavano la maglia e correvano ad improvvisare due porte per giocare a pallone. La mattina, il pomeriggio, tiravano calci al loro bel pallone e segnavano dei goals. Nella mia stanza udivo il rumore del pallone che rimbalzava e la gioia mi riempiva il cuore. Tornavano a casa affamati, rossi in volto e senza fiato”.
Ma, subito dopo, l’onda grigia e acre del rimpianto travolgeva la sua mente: “Qual è la persona che hai amato di più?”, le chiedevano. Risposta: “Moravia. Perché è innocente. Da giovane, mi piaceva credere che l’infanzia, l’innocenza dell’infanzia non sarebbe cambiata mai. Invece, tutto è cambiato e adesso né di quell’immagine, né di me stessa resta più nulla di com’era un tempo”.
Elsa nella casa di via dell’Oca: vetrine di legno chiaro, poltrone di canapa, tappeti di spago, i libri nascosti nel sottotetto. Parlava di gatti, della sua Marzolina. Armonizzava la gioia con una disperata meraviglia. Raccontava di sé bambina e adolescente, una progressione di episodi felici, e rideva: un riferimento costante all’epoca in cui tutto era ancora da decidere. Nutriva una speranza così grande per un ragazzo suo coetaneo ch’era sproporzionata per il suo piccolo cuore. Perfino il linguaggio era troppo ridotto per potersi esprimere. Si faceva bella, poiché le era più caro della vita, ma il ragazzo aveva un viso duro e un pudore selvaggio che a lei pareva disinteresse.
Il resoconto d’un sogno! Tutta l’opera della Morante pare essere sotto l’effetto onirico. Un sogno autobiografico. Un sogno riferito da un io recitante, protagonista e interprete.
La prima impressione che sapeva suscitare era d’irrealtà, di freddo, di timore. Poiché, se qualcuno la incontrava mediante i canali ufficiali, lei manifestava un timore quasi patologico. Allora i suoi tratti si irrigidivano e conservavano a lungo un’espressione di sofferenza e di stupore.
Considerava Useppe de La Storia il proprio figlio. A se stessa, più che ai lettori, affidava quel personaggio suscettibile di ulteriori destini nella vita nascosta di ciascuno di loro. Verso la fine del romanzo, prega: “Che mi si lasci, dunque, restare ancora per un poco in compagnia del mio pischelluccio, prima di tornarmene sola al secolo degli altri”.
E’ compito arduo, dunque, formulare delle ipotesi sulla personalità psichica della Morante e tentare una psicoanalisi della sua vita affettiva. Parole, pause della voce, qualità del silenzio, linguaggio indicavano in lei un processo continuo di depersonalizzazione a tutto vantaggio dell’opera, del romanzo. Peccato che la letteratura possa esprimersi solo mediante la scrittura e non mediante la parola gestuale, il linguaggio pittorico dei sogni, delle visioni, che hanno particolarità idiomatiche speciali, se contrapposte alla lingua dei “linguisti”. Così, il linguaggio della Morante è costituito da un’eterogeneità del significante per cui sarebbe da preferire il termine di “discorso” o “flusso” psichico. Scoperto, il meccanismo psichico dell’identificazione nel racconto di Elisa in Menzogna e sortilegio: “Finito è d’ora innanzi il mio privilegio d’assistere, sola spettatrice, a una commedia di spiriti. Non udirete più da me la voce molteplice della dormiente. Una lucida insonnia s’impadronisce di me, e io, nella camera taciturna e spopolata, altro non potrò interrogare d’ora innanzi che la mia vera memoria”.
E’ solo una traccia di quell’”ansia espressiva abnorme" di cui parla Pasolini riguardo all’autentica freudiana Elsa Morante, che raggiunge profondità di scrittura grazie agli “abissi” dell’inconscio.