RAGIONARE, DISCUTERE,
AGIRE PUBBLICAMENTE, NEGOZIARE... (II)
Per la teoria marginalista
il valore di un bene è soggettivo e la teoria del
valore-lavoro classica, su cui si fondò pure il
marxismo, è profondamente sbagliata. Merlino
concordava, ma non trovò la soluzione
socialista-libertaria. Resta solo l’anarco-capitalismo
per società a basso tasso di coercizione?
Raimondo Cubeddu
Uno dei motivi dell’originalità di Francesco Saverio
Merlino sta nel suo tentativo di edificare il
socialismo su basi diverse dal materialismo storico
e dalla teoria economica classica, la quale, come
noto, si fonda sulla teoria del valore-lavoro, cioè
sull’idea che a parità di lavoro debbano
corrispondere uguali ricompense, mentre il fatto che
questo non avvenga è attribuito all’esistenza di
qualcuno che si appropria del cosiddetto plusvalore,
cioè di quanto il lavoro ha prodotto. La teoria
economico-politica classica, scriveva Merlino,
accomunava il liberalismo al marxismo e mentre essa,
nella sua versione liberale, aveva messo capo “alla
dittatura della borghesia”, nella versione di Marx
“giungeva alla dittatura del proletariato e al
riformismo socialdemocratico”.
Le sue critiche a questa impostazione teorica
rimasero le stesse, a partire dalle opere del 1893
per arrivare agli ultimi scritti pubblicati postumi
dal compianto Venturini nel 1948, e sono anche alla
base delle critiche che muoveva ai teorici di quello
che, con una certa frettolosità e genericità, viene
definito laissez-faire. Questi ultimi, in
particolare Spencer, Bastiat e De Molinari, erano
antistatalisti in quanto sostenevano che a regolare
la società dovesse essere unicamente il meccanismo
del mercato, il quale avrebbe naturalmente portato
all’armonizzazione degli interessi individuali, e ad
essi Merlino ribatteva che, se noi eliminiamo lo
Stato e lasciamo agire solo le forze del mercato,
queste avrebbero fatto sì che all’oppressione
politica della borghesia si sostituisse
l’oppressione economica della borghesia, che
sostanzialmente era la stessa cosa.
Questa attenzione ai problemi di economia politica
veniva a Merlino da una vasta e diretta conoscenza
delle opere più importanti in materia ed egli, cosa
rara in altri autori, si confrontava direttamente
con i classici e con le più importanti teorie a lui
coeve, ed è anche per questo che riteneva fosse un
errore sostanziale cercare di edificare il
socialismo sul materialismo storico e sul
valore-lavoro. Aveva insomma capito che questa è una
concezione che non può reggere e che, come è
successo ai marxisti, se si cerca di edificare una
società su di essi la conseguenza sarà che, anziché
diminuire, la coercizione sociale aumenterà e la
quantità di beni prodotti, anziché aumentare,
diminuirà, come in effetti è successo.
A partire da queste considerazioni abbozzò il
tentativo di fondare il socialismo sulle teorie
dell’economia politica “marginalista”, cioè sulle
teorie di Carl Menger o di von Wieser, derivate dal
neoempirismo logico elaborato dal famoso Circolo di
Vienna.
E’ questo, secondo me, il progetto che sta alla base
de L’utopia collettivista, in cui non a caso è
contenuta una lunghissima citazione di von Wieser a
proposito di quale potrebbe essere una teoria
marginalista del valore in un’economia socialista.
Questo tentativo attraversa buona parte dell’opera
di Merlino ed anche nell’inedito degli anni ’20, poi
pubblicato da Venturini, egli riprende alcune delle
teorie della conoscenza su cui il marginalismo si
fonda. In questo scritto, in cui non vengono più
richiamate direttamente né la scuola austriaca né il
marginalismo, Merlino si pone infatti il problema
come la mente umana organizzi le sensazioni che ci
vengono dal mondo fenomenico e ritiene che esse
siano ordinate e dominate “da idee e tendenze
generali che ne determinano le associazioni e
trasformazioni successive, secondo la legge del
minimo sforzo e del risparmio di forza ed energia,
per mezzo della memoria, o meglio delle memorie e
ritentività che fissano nella nostra mente immagini
di sensazioni e percezioni ed emozioni facilmente
risvegliabili ad ogni nuova sensazione o emozione e
raggruppate in modo da assimilare ed assorbire le
nuove, salvo rimanerne modificate”. Potrebbe
sembrare una frase tratta da The sense of the order
di Friedrich von Hayek, non a caso formatosi alla
scuola di Menger, ed è da questa concezione, che
rimane sempre in Merlino, che deriva la concezione
fondamentale dei marginalisti, cioè che il valore
dei beni non sia oggettivo, ma dipenda da
un’attribuzione soggettiva. Il valore di un bene,
quindi, muterebbe a seconda dei tempi e dei contesti
culturali in cui un individuo si trova ad esistere.
Se volessimo fare filosofia, dalla considerazione
che gli individui attribuiscono alle cose dei valori
diversi in tempi diversi potremmo anche trarre la
conclusione che essa dimostra come sia assai
difficile arrivare a una società pienamente
anarchica nel senso collettivista ed infatti io
ipotizzo che sia stata proprio la conoscenza degli
autori austriaci ad indurre Merlino a distaccarsi da
quella che è l’impostazione anarchica tradizionale,
la quale, tutto sommato, era fondata su una
concezione sostanzialmente derivante dall’economia
politica classica, l’unica in grado di reggere una
ipotesi collettivistica. In questo processo,
tuttavia, Merlino rimase in mezzo al guado, per
tutta la vita continuò a chiedersi come si sarebbero
potute fondare delle scelte collettive, quindi il
socialismo, a fronte di attribuzioni di valore che
non possono che essere individuali e mutevoli nel
tempo per gli stessi individui, ed è proprio questo
il problema che, secondo me, egli non riuscì mai a
risolvere. Dal punto di vista teorico, infatti, via
via abbandonò tale questione, che però rimase nella
sua riflessione dal punto di vista politico, dando
vita alla sua elaborazione di un socialismo
libertario, o di un socialismo liberale, in cui
rimane significativa la presenza di scelte
collettive.
Proprio il non aver saputo risolvere la questione
teorica di fondo, però, fa sì che anche il
socialismo proposto da Merlino finisca per basarsi
sui presupposti della filosofia politica classica,
la quale sostiene che il miglior regime politico,
quindi anche il socialismo o l’anarchismo, sarà
possibile solo quando tutti gli individui saranno
diventati ugualmente virtuosi, etici. Ma questo,
chiaramente, è impossibile: gli individui non
saranno mai, tutti e contemporaneamente, etici e
virtuosi, tutti con l’idea di uno stesso bene
generale da perseguire e tutti con la volontà di
perseguirlo contemporaneamente, per cui, se
veramente vogliamo avvicinarci ad una società priva
di coercizione, dobbiamo passare per un’altra
strada.
Una strada che, da una parte, mostra come una
società pienamente anarchica sia impossibile,
perché, siccome tutte le condizioni sopra accennate
non possono rispettarsi contemporaneamente, anche se
noi ammettiamo che tutti gli individui siano dotati
della stessa quantità di denaro, d’intelligenza, di
forza fisica e via di seguito, a differenziare gli
individui sarà comunque il fatto che ognuno di loro
avrà sempre una diversa aspettativa rispetto al
tempo, una percezione soggettiva di questo. Ogni
individuo, cioè, non può non chiedersi “Quanto tempo
mi resta da vivere? Certo non lo so, ma in questo
tempo che mi resta da vivere, e che non so, cosa
voglio fare?” Ed è proprio perché voglio fare cose
diverse in relazione al tempo che penso di avere a
disposizione, che attribuirò valore diverso a quei
beni che ritengo in grado di soddisfare quelle
aspettative che voglio realizzare in questo stesso
periodo.
Partendo da tutto ciò cosa avremo? Avremo appunto
che una società anarchica, nel senso di una società
del tutto priva di coercizione, non può esistere
perché questi tempi tendono ad essere sempre diversi
e noi avremo, per usare il linguaggio dei
neoistituzionalisti, dei “costi di transazione”
diversi, cioè dei processi diversi, con costi
diversi, per ottenere un bene. Certo questi “costi
di transazione” si potrebbero ridurre osservando
tutti le stesse regole e via di seguito, ma se gli
individui sono diversi ancora una volta occorre
concludere che queste regole non possono essere
ugualmente rispettate se non attraverso l’aumento
della coercizione, che è l’unica garanzia per avere
dei risultati nei tempi attesi, ma l’aumento della
coercizione a sua volta porta all’inconveniente che
ad aumentare è il costo dell’organizzazione
coercitiva, per cui aumentare l’organizzazione per
diminuire i costi di transazione comporta ancora una
volta un aumento di tali costi, oltreché un aumento
della coercizione.
Merlino si pose questi problemi e, come ho detto, ad
essi non riuscì a dare una soluzione convincente,
anche se è indubbio che il suo tentativo di
incrociare il marginalismo, che è una grande
innovazione della scienza economica, con l’idea di
socialismo è un tentativo interessante anche se poi
non va da nessuna parte.
Certo il suo tentativo è molto meglio di quello che
viene fatto dai cosiddetti liberalsocialisti, che,
rispetto a Merlino, erano dei cialtroni che questi
problemi teorici non se li ponevano, e cercavano di
edificare il liberalsocialismo prendendo l’economia
classica, aggiungendoci un po’ di Mazzini, un po’ di
Croce, ed arrivando a quel risultato insipido che
abbiamo a portata di mano.
Il liberalsocialismo non va da nessuna parte, è,
senza volere dare un dispiacere a nessuno, una sorta
di aborto, tenendo anche in conto che ogni tentativo
di praticarlo ha condotto a società corporative, od
organicistiche, in cui d’individualismo resta molto
poco.
Io credo che, se ci si vuole avvicinare all’idea di
anarchia, ossia a una società in cui ci sia il meno
possibile di coercizione, non resti che prendere in
considerazione un po’ più attentamente quella che è
l’evoluzione della scuola austriaca, cioè il
tentativo teorizzato da Murray Rohtbard, vale a dire
il tentativo dell’anarcocapitalismo, che in parte
riprende le tesi di Spencer, Bastiat o De Molinari,
ma sgombrando il campo da un fraintendimento in cui
anche Merlino era caduto.
Questo fraintendimento vede nel mercato un gioco a
somma zero, cioè un gioco in cui se c’è uno che
guadagna un altro deve perdere. Il mercato, per
questa concezione, è quindi una specie di giungla in
cui chi è più forte riesce a beccare di più, anche
se in realtà i suoi risultati sono estremamente
vari, estremamente casuali.
All’opposto, invece, il mercato non è a somma zero,
in realtà può avere somma positiva o somma negativa,
ed è comunque una situazione che produce qualcosa di
nuovo tramite quel meccanismo che regola la
distribuzione dell’informazione, vale a dire i
prezzi.
In sostanza dobbiamo uscire dall’idea del mercato
come luogo di scambio di beni per pensarlo invece
come il luogo in cui avviene lo scambio di diritti
di proprietà, uso la parola nel senso della
tradizione del property right, e di informazione,
informazione che noi possiamo trasformare in
qualsiasi cosa.
Non si tratta, quindi, di scambiare beni e di
appropriarsi di qualcosa, ma di un processo sociale
e culturale non strettamente individualistico, e
minimamente edonistico, minimamente atomistico, in
cui è possibile scambiare beni, cercando, attraverso
questo meccanismo del mercato inteso come catallassi,
cioè come trasmissione d’informazioni tramite
prezzi, di ridurre quelli che sono i cosiddetti
costi di transazione.
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