In una società in cui
il commercio è parte preponderante delle relazioni, spesso le azioni
compiute dai singoli sono dettate dagli interessi che altri vi
ripongono.
Più le merci sono inutili e più è richiesta la loro promozione, e nella
società occidentale contemporanea la stragrande quantità di oggetti e di
servizi in commercio non è necessaria.
Anche un piccolo artigiano ha interesse a vendere la sua merce. Se egli
è consapevole che il suo lavoro è importante per la comunità in cui vive
non ha necessità di promuovere il suo prodotto; le persone andranno
direttamente da lui, senza bisogno di essere stimolate, in quanto il suo
lavoro è utile.
Il modello sociale contemporaneo è lontano da questo. Da una parte
preleva risorse naturali e sociali e dall’altra immette nel mercato e
stimola al consumo di una quantità enorme di merci spesso inutili.
Il modello è governato da una continua proposizione di merci, come se
attraverso di esse si possa acquisire una nuova condizione di vita
inspiegabilmente migliore della precedente.
La felicità è una questione individuale ma la condizione per esser
felici dovrebbe essere la rimozione delle comuni ragioni di infelicità.
E troppi sono i motivi per constatare che insieme non vi sono ragioni di
felicità. Troppi gli interessi che impongono altre priorità, troppa
l’attenzione alle merci, troppo scarso l’impegno nella ricerca di un
benessere individuale e collettivo.
Per lasciare libero lo spazio alla concretezza delle merci, l’attenzione
è indirizzata su valori alienati, estranei alla comune soddisfazione.
Forse è opportuno ritrovare il senso della propria esistenza in
comportamenti di cui conosciamo il significato e la finalità,
nell’adoprarsi con mezzi che siano omogenei al fine, nel recuperare un
senso della società in cui ciascuno non sia rappresentazione di
interessi o di ruolo, ma di utilità, per quello che sa effettivamente
fare, di cultura, di tecnica, di esperienza, di creatività.
Forse è opportuno consumare meno merci, per produrre meno merci, per
lavorare di meno; perché ad ogni azione inutile, ogni merce inutile,
corrisponde, da qualche parte, miseria e devastazione.
Queste riflessioni si rivolgono a coloro che, nei paesi ricchi, possono
dire di non conoscere la povertà. Coloro i quali hanno a disposizione
una notevole quantità denaro (enorme rispetto ai 4/5 del mondo,
infinitesimale rispetto ai veri ricchi) che spesso non risulta
sufficiente per l’andamento del quotidiano, proprio in ragione dello
sperpero di merci a cui partecipano.
Essi sono, anche inconsapevolmente, le colonne di sostegno del mercato,
coloro che acquisiscono maggiori quantità di merci, quelli che
manifestano maggiori necessità.
Essi possono, con i loro comportamenti, contribuire a rallentare questo
aberrante meccanismo produttore di infelicità, limitandone il potere,
riducendone l’ambito operativo, sottoponendolo a visione critica.
Sfilandosi da esso, uscendo dalle sue consuetudini. Seppure
impercettibilmente, seppure con piccole azioni, ognuno di essi,
attraverso il proprio comportamento, attraverso la limitazione delle
inutilità, può ridurre la potenza del modello.
Comprando meno merci, dedicando più tempo al mantenimento degli oggetti,
alla preparazione del cibo, se possibile alla sua produzione, muovendosi
di meno.
Piccole azioni che non risolvono completamente i nodi del problema ma
che aiutano a ritrovare una consapevolezza sulla base della quale
conservare la propria autonomia culturale e permettere una pratica meno
infelice per noi dei paesi ricchi e per gli altri poveri e dei paesi
poveri.
Riflessioni che possono essere utili per cambiare atteggiamenti e
abitudini di cui si sono sottovalutati i negativi effetti ambientali e
sociali.
Molti sono i sostenitori inconsapevoli di un modello ingiusto,
incongruo, inefficiente che ogni giorno produce milioni di vittime, che
ogni giorno annulla cultura e valori di intere comunità e ogni giorno
porta violenza sugli oppositori, su coloro che esprimono un giudizio
critico.
Sostenitori per pregiudizio o per pigrizia più che per convinzione.
Ma per coloro i quali non ritengono la sofferenza degli altri un
indispensabile corollario del proprio benessere allora per costoro è
possibile che sia stata solo una svista il fatto di aderire
indiscriminatamente a questo modello.
Spesso non si considera quanto attraverso le nostre azioni, quelle
quotidiane, quelle consuete, abitudinarie, apparentemente innocue si
sostengano interessi precisi, nocivi per l’ambiente e l’umanità. E ciò
avviene principalmente perché le scelte quotidiane sono poste come non
scelte, ovvero come soluzioni normali senza alternative, perché sono
sottovalutate nella loro importanza. I consumatori, così come possono
creare un mercato lo possono distruggere. Ma questo i consumatori
sembrano non saperlo.
Non è necessario rimandare la ricerca e il raggiungimento del benessere
ad un mondo tutto da realizzare, diverso, successivo. Un mondo cambiato
dall’acquisizione del potere, dalla vittoria elettorale, dalla
rivoluzione sociale.
Un altro mondo è possibile anche oggi, anche comportandosi in maniera
diversa, dando così continuità tra l’oggi e il domani, lavorando così
nel presente, per il presente e non solo per il futuro.
Un altro mondo già esiste nell’infinita diversità degli uomini,
nell’enorme capacità mostrata da parte di popoli e individui di
mantenere la propria cultura, la propria autonomia dal modello vigente.
Molti sono i popoli che vivono al di fuori di esso, allontanati o non
raggiunti, ma molte sono le comunità e gli individui che consapevolmente
hanno preso le distanza da un modello fagocitatore e vivono secondo
criteri più appropriati al proprio piacere, al benessere dalla comunità,
alla gravità dei problemi ambientali e sociali del pianeta.
E un altro mondo già esiste in queste persone che per scelta e con
lucidità hanno intrapreso esistenze “demercificate” e stanno costruendo
relazioni sociali, produttive, di scambio fondate sulla maggiore qualità
ambientale, culturale e sociale.
Il modello che viene praticato nei paesi occidentali tende costantemente
a indurre la convinzione che questo criterio garantisce l’eliminazione
della fatica: ma, accanto a strumenti che oggettivamente e utilmente
eliminano la fatica (la lavatrice, p.es) ne introduce una mole enorme
che solo apparentemente produce questo risultato (v. scopa elettrica,
premiagrumi elettrico casalingo ecc.), ma che risultano appaiati nella
presentazione delle meraviglie della tecnica. Il preteso riscatto dalla
fatica, ognuno di noi può dirlo, non ci ha riscattati dalla stanchezza.
Ognuna delle riflessioni che seguiranno suggerisce una piccola
variazione dei comportamenti e implica una “piccola fatica” nel compiere
azioni che abitualmente attuiamo e nel definire comportamenti diversi
dagli abituali.
È il recupero di questa piccola fatica che riduce il campo del mercato
sostituendo le merci prefabbricate con la nostra diretta attività
autogestita e non retribuita.
Questa piccola fatica (v.s.) diviene il parametro di giudizio della
convenienza a compiere azioni e ci aiuta a discernere tra i bisogni
effettivi e quelli indotti tra i piaceri veri e quelli fittizi.
Essa diviene metro temporale su cui misurare quanto è possibile fare in
una giornata e quindi selezionare le azioni e porre loro dei limiti,
limiti che il solo consumo pone molto lontano.
Ma questa piccola fatica (v.s.) è anche lo strumento per mantenere la
propria autonomia culturale e tecnica sia a livello individuale che di
comunità ed è dunque mezzo per mantenere ciò che già c’è e per
contribuire nel presente ad un possibile altro mondo.
Sbucciarsi le patate
Prendere le patate, pelarle, lavarle, tagliarle, asciugarle,
cuocerle. Un’azione semplice. Che occupa poco tempo. Un momento in cui
le mani agiscono, si riconoscono le parti buone e quelle cattive, si
seleziona, se ne comprende e valuta l’appropriatezza rispetto a quello
che serve.
La conoscenza avrà ripercussioni sul nostro acquisto al mercato dove
selezioneremo le patate che ci soddisfano maggiormente e avrà
ripercussioni sul nostro cucinare scegliendo il tipo di patata
appropriato ai cibi.
Un’azione, sbucciare le patate, che mette a frutto la nostra capacità
creativa nella modalità, nella forma, nelle dimensioni del taglio.
Un’azione che è tecnica e quindi culturale e che lascia il tempo di
pensare: sgombera uno spazio temporale dal consumo e dalla produzione di
lavoro e ci abitua a produrre per noi direttamente.
La sostanza del cucinare è la capacità, creativa e tecnica, di
predisporre autonomamente prodotti direttamente gestiti e consumati.
I cibi prepuliti, precotti, eliminano tutto questo. Riducono il tempo di
preparazione per lasciare tempo solo alla produzione o al consumo di
merci e di servizi.
Un atto piccolo, sbucciare le patate, preparare il proprio cibo, casomai
insieme con altri, per fare prima, per dividerlo, per risparmiare.
È difficile da fare? Poco moderno?
Eppure…
Un sorso d’acqua
Gran parte delle città del nord del mondo è fornita di una rete di
distribuzione dell’acqua potabile.
Negli anni passati ciascun cittadino ha sostenuto, civilmente ed
economicamente, il peso della creazione di questo servizio che consente
alla quasi totalità degli abitanti di questi paesi di avere a
disposizione acqua potabile a basso costo nelle proprie abitazioni.
Un diritto, più che un servizio, che conduceva fuori la società dalla
sudditanza ai venditori di acque e al controllo da parte di pochi di un
bene appartenente a tutti.
Eppure in pochi anni, volontariamente, i cittadini hanno preferito
l’acqua minerale in bottiglia a quella del rubinetto. File al mercato,
grandi pesi da portare, molti soldi da pagare, limitatezza delle
risorsa, rifiuti incontrollati, aumento del traffico di veicoli
commerciali, aumento del numero di incidenti stradali, accumulo di
profitti, privatizzazione dei beni comuni, nuova sudditanza nei
confronti di chi gestisce le acque. Nulla di tutto ciò pare interessare
l’acquirente delle acque minerali, che guarda con disprezzo scorrere
l’acqua dal rubinetto perché ha “un sapore non buono”.
L’acqua, dall’essere risorsa e bene comune inalienabile degli uomini,
torna ad essere terreno di appropriazione, diventa merce, rappresenta il
segnale di un interesse del mercato verso il controllo delle risorse
primarie, quelle comuni, che comporta di fatto la limitazione
dell’autonomia degli individui e delle comunità.
Sarebbe dunque giusto esigerne la buona qualità, insieme con la
consapevolezza che la gestione di questa risorsa primaria è anche
affidata a noi, alla nostra maniera di consumarne e di utilizzarne:
riducendone gli sprechi, aumentandone il recupero, utilizzandola
appropriatamente.
Un atto piccolo: non comprare l’acqua minerale, ma ambientalmente e
socialmente importante.
È difficile da fare? Imbarazza?
Eppure…
Una vecchia
automobile
Già questo: mantenere la vecchia automobile.
Poi vecchia quanto? Un po’. Un po’ di più di quanto il piacere di avere
un nuovo modello ci imporebbe. Basterebbe questo per uscire da una
dipendenza.
Con la nostra vecchia auto risparmieremmo dei soldi, potremmo lavorare
di meno, potremmo fare lavorare di più i meccanici, ripartire quindi la
ricchezza nel tessuto sociale, sottraendola alla concentrazione del
grande monopolio industriale.
L’industria delle automobili ha due obiettivi: vendere nuove auto e fare
consumare benzina. Per raggiungere il primo obiettivo sostiene sia la
dipendenza del modello insediativo dalla mobilità privata su gomma, che
facendo percorrere più chilometri consuma le auto, sia il ricorso
all’introduzione sul mercato di modelli sempre nuovi, accattivanti, che
inducano all’acquisto. Per il secondo obiettivo produce macchine che
consumano molta benzina, aumentando (inutilmente, visti i limiti di
velocità imposti e la ragionevolezza dell’uomo) le prestazioni in
velocità e in potenza e aumentando la grandezza e il peso del veicolo.
Per sostenere questi obiettivi organizza campagne di promozione enormi
che suggeriscono modelli di vita: è possibile che ci siano alcuni che
hanno fatto più figli solo per comprare automobili più grandi?
Per l’industria dell’auto il risultato è soddisfacente, tanto che nei
paesi ricchi il capitolo di spesa afferente le auto è il secondo dopo
l’alimentazione come incidenza sul bilancio della famiglia media; e non
per un anno, ma per una vita.
Ripetendo con insistenza che dall’industria dell’auto dipendeva la sorte
dell’occupazione di interi paesi, hanno indotto a credere che l’esborso
di denaro che veniva regolarmente richiesto ai consumatori fosse anche
una sorta di partecipazione solidale alle sorti dei lavoratori.
Ma oggi non vi è relazione tra merce e occupazione: pochi occupati
possono fare molte merci e oggi non possiamo vantarci di non avere
disoccupati nonostante siamo abboffati di auto. Comunque in Italia vi
sono più forestali che addetti al settore auto, eppure nessuno ci ha mai
invitato a piantare alberi per mantenere gli occupati.
Mantenersi la macchina vecchia, ridurre i chilometri percorsi.
È difficile farlo? È una libidine irrinunciabile?
Eppure…
Il mercato dei figli
I figli sono merce. Sono merce in gran parte del mondo perché
vendibili e acquisibili, ma sono merce nei paesi ricchi perché ampliano
il mercato e le sue potenzialità.
Ridurre il numero degli individui implica di fatto ridurre il numero dei
consumatori, e questo diviene preoccupante per il mercato quando si
raggiunge il massimo degli acquisti possibile pro-capite.
Ma i figli, nei paesi ricchi, sono una delle condizioni di massima
concentrazione della domanda di merci: crescono, e quindi anno per anno
cambiano abitudini e quindi prodotti necessari, sono sottoposti in modo
massiccio alle pressioni delle mode e della pubblicità, e quindi
spessissimo diventano veicoli tenaci della richiesta di prodotti di
consumo.
La pubblicità stimola oggi più delle chiese e degli stati alla
procreazione. Maggiore è il numero di figli e maggiore è il mercato,
maggiore il numero dei figli e più forte è uno stato, più grande una
chiesa, più potente un esercito. In questo si rilegge la brama
quantitativa che è alla base della nostra società: di più è meglio che
di meno.
Non è vero.
Tenere i figli fuori dal mercato, pensare al pianeta come una
collettività unica, diversa ma con alcuni grandi problemi comuni.
È difficile farlo? Avere tanti figli è troppo appagante? Com-prare merci
per i propri figli e fare dei propri figli una merce è soddisfacente?
Sentirsi genitori solo dei propri figli carnali è indiscutibile?
Eppure…
Un mondo che non c’è
I settimanali, le riviste di moda, di costume, di critica, i
rotocalchi, sono pieni di immagini di uomini e di donne che non
corrispondono certo ai cittadini del mondo, ma neppure a quelli dei
paesi ricchi.
In una piazza, in un bar, in una stazione, al nord, al sud, non ci sono
gli uomini e le donne presenti nelle riviste, non ci sono le loro
espressioni, i loro usi, i loro problemi. Quello che c’è dentro quelle
pagine non c’è fuori, e quello che c’è fuori non c’è dentro.
Fuori di quelle pagine altra è la bellezza, altre le attività, altra la
ricchezza, altri i problemi, altro il fascino.
Un mondo che non c’è ben separato da quello esistente e di cui si
testimonia la possibile realtà attraverso le immagini costruite negli
studi fotografici.
La concretezza paradossale è data dalla tendenza da parte degli
individui di apparire come quelle immagini e di uniformarsi ad esse.
Sono infatti immagini a cui tendere, che servono a commercializzare
merci.
Gran parte dei rotocalchi è fatta di pubblicità, a cui viene assegnata
la pagina di destra, quella maggiormente visibile, supportata da
articoli di costume che non fanno che confermare il messaggio indotto
dalla pubblicità.
Dicono questi settimanali ben oltre quello che sostengono a parole,
dicono quanto essi siano strumento di supporto al mondo delle merci.
Dicono quando mostrano, dicono quando regalano oggetti inutili, dicono
quando vendono la pubblicità.
Non comprarle, non comprarne tante, leggerle usate riduce il consumo di
carta, non alimenta il mondo delle merci, riduce. Si possono selezionare
altre riviste, senza pubblicità, o si possono stimolare gli editori a
una maggiore attenzione.
È difficile da fare? È un passatempo irrinunciabile?
Eppure…
Un panino da casa
Un panino fatto giorni prima (fatto mesi prima?), con prosciutto o
formaggio addizionato, conservato, farcito con crema di ignoto, immerso
in un gas, chiuso in un contenitore di plastica etichettato, presentato
come per alimenti, riscaldato da un forno a microonde.
Decine di milioni di panini così invadono le stazioni ferroviarie, gli
aeroporti, alcuni grandi nodi dove si concentrano grandi quantità di
potenziali fruitori distratti, indaffarati, affamati, rapidi.
Anni addietro nei treni passavano venditori abusivi di panini. Panini di
giornata, con formaggio o salame, avvolti in carta. Furono nel tempo
guardati, panini e venditori, come segno di sottosviluppo. Non
garantivano la qualità. Erano plebei. Certamente la sera riciclavano il
formaggio non venduto. Ora la qualità industriale è garantita.
Comprate le concessioni, perseguiti in termini di legge gli abusivi
(nelle stazioni hanno tolto anche le fontanelle per evitare di ridurre
il mercato delle acque minerali), vinta la concorrenza di piccoli bar ed
alimentari, l’alimentazione nel mondo del viaggio è in mano a pochi
gestori.
Ma l’alimentazione esterna alla residenza è in gran parte gestione e
quindi proprietà di pochi, che garantiscono igiene ed efficienza ma non
la qualità, né relativamente ai cibi né per quanto riguarda gli effetti
che questi possono comportare.
Non andare nelle grandi catene di ristorazione, preferire il piccolo
artigiano.
Portarsi un panino da casa con la frittata (che ha un peso ambientale
minore del prosciutto) o con gli avanzi del giorno prima.
Portarsi l’acqua da casa, così da fare intendere che togliere le
fontanelle non vuol dire aumentare automaticamente il mercato.
È difficile farlo? È troppo imbarazzante?
Eppure…
Una vacanza a casa
Le vacanze: altro modo di consumare merci, merci naturali.
Le vacanze vendono luoghi, paesaggi, ambienti intatti, società ospitali.
Vendono i luoghi trasformandoli in quello a cui servono: infrastrutture,
alberghi, autoveicoli, banche, impianti di risalita, piste da sci,
pontili, ombrelloni, bar, ristoranti, windsurf, moto d’acqua, piscine,
gatti delle nevi, negozi, trampolini, piste su ghiaccio, residenze.
Ogni volta che un luogo diviene turistico si trasforma, perde la sua
naturalità, che è quello che lo ha reso di interesse, e viene adattato
all’immagine standard del turismo globale.
Ogni volta che una persona va da turista in un luogo conferma la
necessità di quelle infrastrutture.
Per il proprio piacere destruttura, danneggia ambiti pregiati, aumenta
la dipendenza di quei luoghi da fattori esterni alla sua caratteristica,
esporta un modello la cui limitatezza è evidente anche nei paesi più
ricchi.
Attua una razzia.
E più il soggiorno è breve, più è attuato in strutture organizzate ed
aliene dal contesto, più è lontano e maggiore è il peso ambientale e
sociale della sua presenza.
Ci si muove sempre di più. Sempre più breve la permanenza, sempre più
lungo il tempo della percorrenza.
Allungare le vacanze, stare nei luoghi più a lungo, conoscerli,
partecipare ad essi, contribuire alla comunità.
Non andare in paesi lontani, in luoghi incontaminati, in strutture
organizzate, per poco tempo.
È difficile farlo? È troppo angosciante lo stare?
Eppure…
Immersi negli oggetti
Un indiano Lakota non possedeva più di 200 oggetti, inclusi gli
attrezzi, componenti dell’abitazione, armi e vestiti.
Noi viviamo immersi negli oggetti. Alcuni di questi hanno una funzione,
altri sono assolutamente inutili.
Il decimo orologio, il ventesimo accendino, la centesima penna a sfera,
il quarto cellulare, la terza televisione, il diciottesimo
elettrodomestico, le bomboniere, i pensierini affettuosi, i ricordi di
viaggio, i soprammobili, i servizi da caffè, le attrezzature per i
numerosi sport, le riviste, gli impianti per la musica, le radio, i
computer, gli attrezzi per i mille passatempi, etc.
Tutti oggetti che noi compriamo, ci facciamo regalare, ci regalano,
mossi dal piacere di un attimo, dallo sfizio, del gusto irrefrenabile
del bambino viziato che vuole un gioco nuovo, lo usa pochi minuti e ne
cerca subito un altro.
A questi si aggiungono le promozioni commerciali, le “merci gratis”:
giornali, riviste, hamburger, salvagenti, pareo, cd, film, libri,
formaggini, etc.
Le case diventano sempre più piccole e il numero degli oggetti diventa
sempre maggiore, in una sorta di parossismo collettivo.
Scegliere quegli oggetti che effettivamente rappresentano qualche cosa,
che ci possono accompagnare nel ricordo o nel piacere, in un numero
limitato. Lasciare le offerte e i regali. Andare nei luoghi per vedere,
capire, sentire ma non comprare.
È difficile farlo? Non vi sono antidoti al morbo dell’acquisto?
Eppure…
Uno strumento appropriato
Il grande sviluppo delle tecniche è sicuramente uno dei dati
caratterizzanti il nostro tempo.
Gran parte delle innovazioni sono dettate dalle caratteristiche del
mercato e dalla necessità di immettervi nuove merci competitive, gran
parte di queste merci è predisposta per il consumo individuale. Telefoni
cellulari, che nelle successive evoluzioni divengono anche telecamere,
registratori, strumenti di scrittura, computer che trasmettono musica e
immagini; computer e televisioni sempre più connessi in una unica rete,
sistemi per ascoltare la musica sempre più sofisticati, elettrodomestici
elettronici, etc. sono alcuni esempi di un apparato in cui la tecnologia
è lo strumento principale per fare vendere la merce.
Il computer con cui si scrive ha una potenza pari o forse minore a
quella che fu necessaria per mandare nello spazio i primi satelliti,
eppure per gran parte dell’uso che se ne fa essi sono solo macchine da
scrivere, calcolatrici o motori per videogiochi.
Coglie serio il dubbio che lo strumento sia leggermente
sovradimensionato rispetto a quello a cui realmente serve.
Un autoveicolo di cinquemila di cilindrata che supera i 270 chilometri
all’ora e raggiunge i 100 km in tre secondi non è appropriato alla
nostra necessità di movimento urbano, dove la media è 15km all’ora; una
grande automobile fuoristrada, lunga più di cinque metri, con delle
ruote alte un metro e spesse quaranta centimetri, pesante una tonnellata
e mezza e con una portata di quasi una tonnellata non è appropriata per
andare a comprare una spesa di venti chili; uno spremiagrumi elettrico
di acciaio e plastica che consuma un kw, che ha bisogno di essere
montato e smontato, pulito e ripulito prima e dopo l’uso, non è
appropriato a spremere un limone.
Forse non è necessario cambiare il nostro computer, l’automobile, il
cellulare, il lettore ogni tre anni per comprare il modello più recente,
più potente, con maggiore adattabilità perché già quello che abbiamo non
lo usiamo completamente.
Non solo la tecnologia è una merce ma i prodotti non sono appropriati.
Rallentiamo la sostituzione. Manteniamo gli strumenti che possediamo,
facciamoli invecchiare, innoviamoli in ritardo. Rallentando non
diverremo noi stessi promotori del processo. Il mercato è sensibile e
rallenta l’innovazione delle merci se non incontra un adeguato
riscontro.
È difficile farlo? Non possiamo aspettare un po’ e vedere se possiamo
farne a meno?
Eppure…
Un bicchiere di plastica
Un oggetto semplice, apparentemente inoffensivo ma che lentamente sta
sostituendosi ai bicchieri di vetro.
È più comodo, ovvero evita al gestore del bar di utilizzare la
lavastoviglie, al barista di pulire i bicchieri. È più comodo, ovvero
evita a casa di lavare i bicchieri, si mantiene la cucina più ordinata e
si rigoverna con facilità.
Ma quanti miliardi l’anno di bicchieri di plastica si consumano? Quante
migliaia di tonnellate di plastica vanno a discarica dopo un uso di
qualche secondo: un sorso d’acqua, al massimo un pasto.
E quant’è il costo ambientale del processo produttivo e dello
smaltimento del rifiuto?
Quanti operai ci vogliono per produrre questi miliardi di bicchieri?
Pochi, pochissimi, enormemente meno di quelli necessari a fare
altrettanti bicchieri in vetro.
E quanti baristi in meno servono visto che non hanno nulla da lavare?
Tanti, tantissimi.
Ed allora questo oggetto semplice, apparentemente inoffensivo, comporta
in realtà significativi effetti negativi nell’ambiente e nella società.
Ed allora che cosa ci vuole a sciacquare un bicchiere di vetro, usandolo
per una decina di anni, e dov’è la difficoltà a chiedere al bar una
tazzina di ceramica, che si usa per decenni, sapendo che si sta agendo
per salvare il posto di lavoro forse proprio all’infastidito barista?
Che cosa ci vuole a non consumare nei luoghi dove si serve solo nella
plastica o in contenitori monouso?
È difficile farlo? È troppo impegnativo?
Eppure...
Un gran caldo
Tra auto di cilindrata sempre più elevata e facendo sempre più
chilometri, utilizzando una quantità di energia di origine fossile
enorme e scaricando inquinanti a tutto spiano, ansimiamo dal caldo.
È possibile che non si riesca a collegare l’uso degli autoveicoli e
dell’energia fossile al riscaldamento del pianeta?
Una volta fatta questa connessione, fulminati dalla consapevolezza,
dovremmo scendere dalle nostre auto e abbandonatole dove sono, muoverci
a piedi, in bicicletta, sui pattini, a cavallo.
Ma ciò non avviene. Persone del tutto normali, pur consapevoli del
problema, nel momento in cui scelgono il loro autoveicolo guardano la
forma, la velocità, il prezzo, gli accessori, la dimensione.
Gli autoveicoli con i loro motori a scoppio ma anche, seppur in maniera
molto minore, con le lamiere, sono dei riscaldamenti mobili.
Eppure persone ragionevoli comprano autoveicoli di cilindrata sempre
maggiore, eppure persone ragionevoli ogni anno fanno migliaia di ore in
fila in macchina per andare a lavoro o peggio per andare in vacanza,
senza un dubbio, senza un’idea di mezzo alternativo, eppure persone
ragionevoli consumano energia elettrica come se la sua produzione non
avesse alcun effetto nell’ambiente e poi sulla loro salute.
Fare meno chilometri con le auto, scegliere le cilindrate piccole a
maggiore efficienza, andare più piano (per consumare meno), andare a
piedi per piccoli percorsi, ridurre l’uso degli elettrodomestici.
È difficile farlo? Siamo troppo dipendenti?
Eppure…
La conoscenza indotta
Il televisore è una macchina fantastica. Attraverso di esso si vedono
cose mai viste, ci si può rilassare, distrarre.
Meravigliosa e incantatrice, la televisione ci mostra il mondo e ce lo
racconta senza che noi ci si debba muovere dalla nostra poltrona; in
realtà altera la nostra conoscenza e la nostra capacità di relazione,
modificandoci la cultura e i criteri di osservazione, presentandoci
contesti ignoti e con i quali non possiamo relazionarci.
Definisce la nostra cultura impregnandola di fattori estranei e
arbitrari, non connessi alla nostra esistenza se non attraverso la sua
mediazione.
Passivi, persi in una quantità di immagini paurosamente grande,
delocalizzati, ci componiamo una conoscenza del mondo attuata con una
specie di “settimo senso”: una visione molto più ridotta come estensione
ottica dell’immagine oggettiva, ma incui ci immedesimiamo di più che in
qualunque situazione oggettiva che comprenda tutti gli altri nostri
sensi.
Alienati, in sintesi. Inquinati di immagini.
E proprio per questo la meraviglia e lo stupore, qualità elette
dell’uomo di fronte al mondo, sono quasi esclusivamente utilizzati dalla
televisione per veicolare merci e per sostenere e normalizzare un
modello insostenibile.
È possibile immaginare che non si comprino i prodotti pubblicizzati?
È possibile immaginare che non si guardino programmi e reti che si
comportano in maniera ambientalmente e socialmente scorretta, sostenendo
o facendosi sostenere da merci e da comportamenti aberranti e dannosi?
È difficile farlo? Siamo troppo assuefatti?
Eppure…
Un vestito usato
Il livello di spreco di un popolo si può desumere da quanto le merci
che esso butta sono ancora interessanti per altri.
In gran parte del mondo una moltitudine di persone setaccia le
discariche alla ricerca di cibo e merci utilizzabili.
Anche noi bisogna incominciare a cercare nelle nostre discariche. In
primo luogo in quelle di casa, evitando di buttare materiali ancora
utilizzabili e prima ancora di acquisire merci che già sappiamo non
utilizzeremo a lungo. In secondo luogo mettendoci nella condizione di
essere disponibili all’uso di merci che altri hanno buttato ma che
rispondono alle nostre esigenze.
Queste non saranno forse esattamente uguali a quelle che avremmo
comprato ma adattarle alle nostre esigenze ed adattare le nostre
esigenze ad esse fa parte di una intelligenza operativa che ha
caratterizzato da sempre l’agire umano.
Armadi, specchi, automobili, libri, riviste, vestiti.
Nei numerosi mercatini domenicali affluiscono vestiti usati dei paesi
più ricchi di noi e di persone maggiormente avvezze allo spreco.
Maglioni, camice, calzoni nuovi o praticamente nuovi colpevoli di avere,
al massimo, piccole macchie asportabili, scuciture ricucibili, bottoni
mancanti sostituibili, minuscoli buchi rammendabili. Spesso merce di
grande qualità che mantiene immutata la sua efficienza ma è considerata
importabile.
Forse è opportuno tralasciare i mercati dei prodotti della nuova moda
(chi sa perché la moda cambia di stagione in stagione?) e recuperare
almeno parzialmente mercati meno frenetici connotati da quella capacita
di adattare e di adattarsi che rende minimo lo spreco.
Mantenere i proprio vestiti a lungo, comprare anche vestiti usati e
usare le merci smesse da altri.
È difficile farlo? È troppo da poveracci?
Eppure…
Condizionarsi l’aria
L’aria è il primo bene comune degli uomini, indispensabile e
uniformemente diffuso su tutto il pianeta.
La disabitudine della nostra civiltà a provvedere con mezzi semplici
alle diverse condizioni poste all’uomo dal clima (scegliere abiti più
idonei, isolare adeguatamente le abitazioni, adattare i tempi del lavoro
alle condizioni esterne) e l’affidamento sempre più esteso alla
tecnologia per la risoluzione dei problemi, hanno fatto sì che anche
l’aria, in qualche modo, sia divenuta merce: riscaldata, raffreddata,
depurata, in una parola: condizionata.
Le temperature sono aumentate mediamente di pochissimo, un pochissimo
sufficiente ad alterare i sistemi naturali ma non ancora a danneggiare
gli uomini, specialmente quelli residenti nelle zone temperate.
L’aumento della temperatura ha fatto sì che in alcuni giorni dell’anno
essa sia pesante da sostenere. Ma questo disagio, in realtà riferito a
un periodo brevissimo, ha indotto la collettività a ritenere che l’unica
soluzione sia l’installazione di impianti di condizionamento, che però
procedono a funzionare con il calendario, e non con il termometro. E si
assiste all’assurdo per cui, per entrare in un supermercato o in un
negozio, bisogna coprirsi, mentre fuori c’è una temperatura
invidiabilmente mite.
La presenza diffusa di questi impianti fa sì che intere zone, luoghi e
strade prima vissute regolarmente, si siano trasformate in fornaci
insopportabili grazie alle emissioni dei condizionatori, che,
notoriamente, freddano dentro e scaldano fuori. Per di più la fornace è
rumorosissima e niente affatto discreta visivamente.
La risposta ad un esteso disagio, ma ridotto nel tempo, invece di
portare ad una riduzione dei movimenti e quindi del lavoro e dei
consumi, invece di essere volta alla messa in opera di sistemi passivi,
ambedue soluzioni che riducono le emissioni e il riscaldamento globale,
per difendersi in quei pochi giorni, è di acquisire apparecchi di
condizionamento.
Milioni. Decine di milioni.
Ciascuno di questi rinfresca l’aria interna ma sputa fuori calore:
consuma energia e aumenta l’effetto serra, cioè il maggiore responsabile
dei disagi climatici.
Una risposta imbecille. Senza scusanti.
Rappresentazione del benessere fittizio individuale e menefreghista che
questo mercato produce.
Chiudere gli impianti di aria condizionata, ingegnarsi, per esempio, con
tende, vegetazione, aumento della coibentazione di pareti e superfici
vetrate per eliminare questa nuova e indotta sudditanza.
È difficile farlo? Non riusciamo più ad adattarci al variare delle
condizioni ambientali?
Eppure…
Un amico coltivatore
Quando si mangia un pomodoro fa piacere sapere che esso è stato
coltivato senza l’uso di sostanze chimiche dannose alla nostra salute,
vicino al luogo dove noi lo consumiamo, senza quindi essere trasportato
con grande consumo di energia, che è stato coltivato senza sfruttare
nessuno, che è stato colto al tempo giusto senza “svernare” nelle celle
frigorifere o negli impianti di maturazione a gas.
Fa piacere sapere che non è stato pompato di acqua e di ormoni, che è
cresciuto nel luogo adatto alla sua crescita usando l’energia del sole,
non forzato da serre né da impianti per l’anticipazione della
maturazione. Fa piacere mangiare un pomodoro nel tempo dei pomodori e fa
piacere mangiare un pomodoro che è stato coltivato con cura sapendo che
chi lo mangerà avrà piacere a mangiarlo perché riconoscerà la qualità
del lavoro svolto ed il piacere che un pomodoro, quel pomodoro, sa dare
alla nostra esistenza.
La merce pomodoro industrializzato questo non lo potrà mai garantire.
Essa al massimo ci assicurerà di non avvelenarci immediatamente ma non
chenon abbia usato nei processi produttivi sostanze che con il tempo ci
danneggeranno. Tutto il resto è estraneo al pomodoro industrializzato.
Allora per noi è importante connettersi a chi direttamente produce per
noi con la qualità che richiediamo e che solo conoscendoci egli potrà
garantirci.
Un amico che fa i pomodori.
Cercarli, sostenere le piccole produzioni. Fuori dal mercato
industrializzato, costruendo relazione dirette.
È difficile farlo? Non abbiamo più il piacere di quel pomodoro?
Eppure…
Soldi da soldi
C’è chi fa soldi sui soldi.
In una società di merci il denaro assume un’importanza smisurata. Il
denaro stesso diventa una merce e il guadagno maggiore è il guadagno sul
denaro.
Perché investire nelle borse e cercare di arricchirsi con esse? Non da
un senso di irrequietezza l’eventuale aumento dei capitali? Non ci viene
in mente che proprio a quei soldi possano corrispondere prelievi
indiscriminati di risorse, speculazioni scorrette con popolazioni, ed
impoverimenti di qualcun altro?
Per aumentare il totale del mercato hanno privatizzato e quindi immesso
nel mercato elettricità, acque, gas, petrolio, foreste, pascoli,
proprietà comuni, tutti beni dell’umanità prima che di chiunque altro e
solo attraverso di essi la quantità delle transazioni è aumentata. E poi
è aumentata fittiziamente sull’aumento ottenuto.
Attraverso questo meccanismo si sono arricchiti i ricchi e impoveriti i
poveri, si sono svendute le risorse naturali e culturali, si è speculato
sul benessere immettendo sul mercato quelli che erano servizi comuni.
Che ha a che fare con questo mondo un impiegato, un artigiano, un
piccolo imprenditore? Non lo governa, sa solo quello che alcuni vogliono
che si sappia e, attenzione, quando vogliono che si sappia. Che abbiamo
a che fare con questo mondo che si astrae dalle necessità e dal piacere
degli uomini per traslare ogni interesse su un oggetto convenzionale
come il denaro e che pone a ragione fondante di ogni decisione la
capacità di produrre denaro?
Ma sono i ricchi a possedere il denaro e a produrre denaro con il
denaro, e applicare questo unico parametro è una iattura per tutta
l’umanità.
Ridurre il gioco sul denaro. Non utilizzare le carte di credito, ridurre
i servizi bancari, controllare dove vanno a finire i nostri soldi (per
esempio sarebbe bello che non finanziassero le armi e le guerre), porre
i risparmi in banca etica o in cooperative sociali, non speculare in
borsa.
È difficile farlo? Il nostro patrimonio finanziario ne trarrebbe
nocumento?
Eppure…
La panacea delle norme
Nello scombinamento prodotto dalla grandezza e dalla penetrazione del
mercato unico e dalla stravolgente quantità e tipologia di merci, di
azioni, di servizi in vendita, le norme divengono una panacea.
Si regolamenta tutto e gli utilizzatori sono garantiti dall’applicazione
delle norme.
Ma le norme possono essere sbagliate. In particolare quelle che
riguardano le merci sono sbagliate in quanto definite appositamente per
garantire gli interessi delle grandi compagnie.
Così, ad esempio, in campo alimentare il fatto che i cetriolini in
salamoia debbano tutti essere dritti e simili per peso e forma per
rispondere alle norme di qualità europee ha tolto di mezzo i produttori
non industrializzati che nonriescono a garantire quel livello di
uguaglianza tra i cetrioli. Così il gelato artigianale, o il salame
tagliato a mano, o il famoso lardo di Colonnata (per cui è stata
cambiata la norma) sono tutte merci fuori legge.
Le norme che afferiscono le merci hanno favorito e favoriscono una
visione del mondo, industrializzata e omogenea, che elimina le tecniche
locali e la cultura produttiva sostituendo tutto con prodotti uguali,
asettici, ma non per questo salubri. In questo vengono favorite le
grandi produzioni e il modello praticato dalla concentrazione della
produzione e dalla distribuzione capillare dello stesso tipo di
prodotto.
Questo apparato normativo non garantisce i cittadini. Bisogna dunque
controllare al di là delle norme ed essere critici, diffidando,
comprendendo le motivazioni da cui le scelte normative sono derivate,
cercando di sostenere le merci che mantengono caratteri ambientali e
sociali corretti.
È difficile farlo? È un’ulteriore fatica?
Eppure…
Il mito del progresso
Nella nostra cultura contemporanea il mito del progresso esercita una
grande capacità di attrazione.
Forse l’impulso dato dai movimenti sociali nati nell’ottocento verso una
fiducia nelle armi del progresso per il miglioramento delle condizioni
dell’uomo (fiducia che a tratti si è radicalizzata in fede), forse il
retaggio dell’illuminismo che costruisce pragmaticamente l’affidamento
alla scienza e alla tecnologia per costruire un futuro migliore per
l’uomo, sono i motivi che hanno fatto sì che la nostra società
costruisse la sua immagine proiettata nel futuro: tutto ciò che è nuovo
è automaticamente buono, tutto ciò che è moderno è di fatto migliore e
preferibile all’antico.
Questo dogma, mai palesemente espresso ma del tutto implicito nel
costume sociale, fa sì che il mercato, che è l’espressione principale
della nostra società, si avvalga di continui e imprescindibili richiami
al “nuovo”, al “moderno”, al “tecnologicamente avanzato” per
incrementare le vendite e i consumi.
Il futuro, identificato con il progresso, viene anticipato anche come
immagine di riferimento, e la maggior parte delle persone sembra
adeguarsi a questa proiezione, cercando di somigliare a quella immagine,
come se essa fosse l’ineluttabile condizione del futuro. L’ade-guamento
passa, ovviamente, per l’acquisizione di merci che di quella proiezione
sono i tratti identificanti. Sicché ci si sente moderni e anticipatori
del futuro se si possiede l’ultimo modello tecnologico di una certa
cosa. Sentirsi così equivale a sentirsi “adeguati”. L’immagine del
nostro futuro viene costruita nei laboratori della pubblicità.
Naturalmente non ci viene detto, per esempio, che l’ultimo modello di
televisore in realtà è già ampiamente superato dalla tecnologia, e che
non ci daranno in pasto l’ultimo modello finché tutti non avremo
acquistato quello già vecchio.
Potrebbe essere più interessante costruirci da soli la “nostra” immagine
del futuro, scoprire che potrebbe non somigliare per niente a quella
della pubblicità, scoprire che potrebbe essere infinitamente più bella e
affascinante.
Rifiutare di assomigliare agli androidi della pubblicità, sottrarsi alla
mercificazione, sottrarsi ai comportamenti teleguidati, scegliere
un’altra via in cui riconoscersi e riconoscere gli altri, esercitarsi ad
inventare quello che potremmo essere.
È difficile farlo? È talmente gratificante sentirsi adeguati al mondo
che ci propongono? È quello il mondo futuro che vorremmo?
Eppure…
Eppure…
sembrano atti alla nostra portata. E lo sono. Piccole azioni quasi
quotidiane che potrebbero modificare le relazioni tra il sistema delle
merci e gli utilizzatori e quindi modificare il mercato con tutte le
implicazioni ambientali e sociali che ciò comporterebbe.
Il sistema di mercato è il tallone d’Achille della nostra società, il
punto di maggiore vulnerabilità. Se i criteri che ci vengono proposti
come modelli sociali ci appaiono insostenibili, è necessario pensare che
la loro modificazione non è necessariamente affidata ad una titanica
ricostituzione di un modello diverso, ma potrebbe essere validamente e
concretamente avviata dall’acquisizione di comportamenti diversi dai
previsti, e che vadano ad incidere proprio sul lato “debole” della
struttura: il mercato. E riappropriarsi così della dignità delle proprie
scelte e della libertà di compierle.
Per un gruppo di persone di un villaggio africano basta una capra per
modificare integralmente la propria esistenza, e non per un tempo
determinato ma per sempre. Forse per noi, abitanti dei paesi ricchi, non
basta così poco, ma sicuramente abbiamo anche noi la nostra “capra” che
modifica il grande sistema in cui siamo inseriti e che oggi appare a
molti unico, insuperabile e come tale fagocitatore e senza alternative.
Oppure si ritiene che comunque ce la caveremo, che la specie umana,
grazie alla tecnologia, riuscirà a trovare soluzioni atte a farci
continuare questo cammino basato sullo sfruttamento insensato di uomini
e natura, per permettere a pochi privilegiati di continuare il proprio
standard di vita?
È possibile. Ma è proprio questo cammino, indipendentemente dalle sue
possibilità, che si vuole evitare di percorrere, costituendo oggi, e non
in un imprecisato e sempre posticipato futuro, le condizioni per
permettere la vita (e non solo la nascita) delle persone.
E per fare questo non è possibile delegare ad altri o al futuro il
compito ma bisogna divenire parte attiva attraverso il nostro corretto
agire.
Vogliamo credere che si sia in molti a pensare che questo “modo” non è
possibile, che non è giusto, che non può essere condiviso. Per questo
abbiamo voluto con semplicità riflettere criticamente sulla possibilità,
attraverso comportamenti più attenti, di non essere strumenti di
sostegno ad un modello che porta nel mondo miseria, sopraffazione, danni
all’ambiente, alle comunità e alla salute.
Perché non dovremmo esser attenti? Attenti come lo siamo stati per
millenni ai segnali della natura, attenti agli altri uomini, attenti ai
luoghi. Perché oggi dovremmo deporre questa capacità di discernimento ed
attenzione sulla quale abbiamo sviluppato la nostra intelligenza e la
nostra tecnica? Porre attenzione alle cose che si fanno, capirne il
senso, considerarne gli effetti, l’efficienza, la correttezza.
La correttezza rispetto ad alcuni criteri sulla base dei quali
discernere quello che è congruo fare e quello che può essere evitato.
Criteri sulla base dei quali è possibile esprimere un giudizio sui
comportamenti.
Allora, ogni qual volta ci viene presentata una merce, sia essa nuova o
innovativa, sia essa necessaria o utile, le domande che bisogna porci
sono: qual è il suo impatto nell’ambiente?
Riduce l’urto imposto alla natura e al territorio rispetto alla
soluzione precedentemente adottata? Quanto la sua fabbricazione, il suo
uso, la sua dismissione migliora le condizioni dell’ambiente rispetto a
quelle attuali?
quante persone fa lavorare?
Si è ricorso a processi industrializzati a basso uso di manodopera? Se è
una merce prodotta in grandissime quantità, quale è stata l’incidenza
del lavoro umano e quanto sarebbe stato possibile trovare soluzioni
alternative?
quanti sono i beneficiari economici?
I profitti della produzione, distribuzione e commercializzazione sono
concentrati in pochi soggetti o sono distribuiti equamente nella
comunità?
Quanto esprime la cultura di una comunità?
Quanta tecnica specifica è conservata nella merce? Quanto l’oggetto
contribuisce a far permanere la conoscenza tecnica nella comunità e la
sua autonomia produttiva?
Ben sapendo che i problemi maggiori del nostro pianeta sono collegati ad
un ambiente depredato, alterato e distrutto, alla mancanza di lavoro,
alla concentrazione dei profitti, al depauperamento culturale ed
asservimento delle comunità, se una merce ha un peso ambientale elevato,
se la sua produzione fa lavorare poche persone, se aumenta la
concentrazione dei profitti, se non esprime la cultura e la capacità
propria di una comunità non è una merce che ci possa interessare.
Essa è una merce che fa male, fa male ad altri uomini, induce povertà e
asservimento, fa male all’ambiente, distruggendo gli ecosistemi, e
proprio per questo non va utilizzata.
E proprio in questo non utilizzo è anche richiesto il nostro
discernimento.
Un altro modo è possibile.
Questo opuscolo
è stato prodotto da
Antiglo -
antiglo@email.it
Le
attività svolte da @ntiglo si propongono di contribuire alla
diffusione di alcuni temi, secondo noi importanti per
l’elaborazione di un modello critico nei confronti dell’attuale
momento storico, temi che, seppure fortemente presenti in vasti
ambiti della coscienza critica internazionale e vivamente
trattati e dibattuti, non sono ancora patrimonio esteso della
comunità.
La forma che abbiamo scelto di seguire nell’esporre queste
tematiche tende a sottolineare l’importanza del comportamento
individuale all’interno di una dinamica più generale che mira ad
opporsi ad un “modello globale” di società quale è quello che ci
viene proposto o imposto, convinti che il carico di iniquità,
pericolosità e arbitrio che implica per gli uomini e l’ambiente
non può trovarci in nessun modo concordi.
Azioni e comportamenti che suggeriamo sono caratterizzati dal
desiderio condiviso di non subire un modello ingiusto e di
ricercare soluzioni praticabili oggi, in presenza del modello,
senza rimandare il buon vivere a momenti futuri. Per quanto
possibile. Senza forzare le convinzioni ma con la forza delle
convinzioni, senza uso della violenza, senza martiri né martirii.
Fin quando sussiste anche una minima possibilità di operare sul
convincimento.
I materiali di @ntiglo sono fuori dal mercato. Sono, fin quando
rimangono copie, gratuiti, sono scaricabili dal sito, sono
riutilizzabili fin quando si vuole con la sola richiesta di
citare la fonte e gentilmente comunicare dove si sono
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Testi di Adriano Paolella e Zelinda Carloni
Grafica di Paola Venturini |
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