Mercato, proprietà, anarchia
di Pietro Adamo
Alle critiche di Carlo Oliva sullo scorso numero, Pietro Adamo replica spiegando perché, a suo avviso, l’anarchismo non possa non essere "liberale".
Negli ultimi tempi mi capita spesso di essere
corteggiato. Non solo per le mie (palesemente straordinarie) virtù
psicofisiche: mi capita di essere corteggiato perché dichiaratamente
anarchico. L’esperienza è nuova. Da destra e da sinistra, da laici e meno
laici, da accademici e movimenti undeground, mi giungono segnali di
stima e di apprezzamento. Viviamo in tempi di sdoganamento (perlomeno
culturale). La caduta dei regimi del socialismo reale ha apparentemente
potenziato tutte le tradizioni a sinistra marginalizzate e criminalizzate
nel corso del secolo. Mi pare di assistere a una specie di corsa
all’anarchia (e all’altro esempio di purezza quasi "incontaminata" a
sinistra, il socialismo libertario): le riviste del liberismo ultrà, i
quotidiani moderati, gli organi degli ex partiti della sinistra marxista, i
movimenti ecologisti e affini, gli ex campioni pentiti della "rivoluzione
comunista", fanno quasi a gara per appropriarsi di qualche pezzo del
pensiero anarchico, reclamandone l’affinità con i propri paradigmi.
Il buon Carlo Oliva, colonna di "A" da molti anni, mi accusa però di
compiere un’operazione di sdoganamento di segno inverso, ovvero di tentare -
alla pari con D’Alema & Co. - di legittimare una particolare filosofia
politica- nel mio caso l’anarchismo - con il ricorso al tema dell’ "eredità
liberale". In parte ha ragione. Ma prima di avventurarmi in una risposta
specifica agli addebiti del compagno Oliva, che grosso modo mi imputa, con
la mia apologia dell’ethos liberale, di fare il gioco dei
berlusconiani, voglio precisare il senso del lessico che ho usato e delle
relazioni dell’anarchismo con termini (civiltà liberale, mercato, proprietà
privata) che sembrano suscitare in alcuni un’avversione viscerale
incontrollata.
Se si parla in pubblico di "civiltà" o ethos liberale si può essere
certi di evocare una precisa serie di immagini: il neoliberismo rampante, le
imprese del duo Reagan/Thatcher, i licenziamenti di massa nelle industrie
del Nord del mondo, i bambini dell’estremo Oriente intenti a cucire Nikes
per un tozzo di pane, e così via. Ma dal mio punto di vista il termine ha
tutt’altra accezione. Per "ethos liberale" io intendo la lotta
condotta nel corso dell’età moderna e contemporanea contro le nozioni di
assolutismo, autocrazia, gerarchia, privilegio, in nome degli ideali
collegati alla libertà individuale e ai diritti umani. Certo, si è trattato
di uno sforzo prodotto in buona parte da quei ceti e quei gruppi sociali che
lottavano per la propria autoaffermazione (i "borghesi", direbbe
probabilmente Carlo), ma interpretare in un ristretto senso classista il
fenomeno significherebbe trascurarne proprio l’istanza centrale, la ricerca
della liberazione individuale e collettiva. Nel travaglio della
modernizzazione i gruppi subalterni si sono spesso impadroniti delle parole
d’ordine delle libertà "liberali", riplasmandole secondo fini ed esigenze
proprie. In molti momenti (rivoluzionari o meno) si colgono slittamenti di
discorso che puntano ad ampliare la sfera delle libertà, universalizzandone
i fondamenti ispiratori e applicandoli a ogni ambito dell’azione umana. E
protagonisti di questo "slittamento" sono spesso uomini e donne appartenenti
ai ceti più infimi, che rivendicano non solo la libertà di religione o di
stampa, ma quella di associazione, quella sessuale, quella economica, sino a
postulare un generale ridisegnamento della società sulla base del principio
della libera sperimentazione
Contro il totalitarismo
Di questo ethos è figlio l’anarchismo. Anzi, per certi versi, solo
l’anarchismo ha dato dignità sistematica di pensiero a queste tendenze della
civiltà liberale. E se il liberalismo è divenuto, nel corso dei secoli,
essenzialmente una giustificazione dello status quo, ciò non ne pregiudica
affatto le potenzialità rivoluzionarie. "Nell’epoca eroica della filosofia
liberale, che si estese gradualmente sulla religione, la scienza, l’economia
e la politica, dal Cinquecento al Settecento, i liberali stavano dicendo più
o meno ciò che dico io", ha ammesso Paul Goodman, lamentando la successiva
"catastrofe" della tradizione: "Ed è per questo", ha concluso, "che oggi,
dopo l’Ottocento, alcuni di noi liberali hanno scelto di definirsi
anarchici".1
Entro questo ethos troviamo però sia il mercato sia la proprietà
privata. Ora, per capire come questi due "orrori" siano non solo integrabili
in una società libertaria, ma non possano non costituirne parte essenziale,
è necessario a mio parere uno sguardo all’esperienza del Novecento che non
si fermi agli effetti pratici recenti del neoliberismo. Il fenomeno del
totalitarismo, sia nei suoi aspetti di determinazione della vita quotidiana,
come nei casi classici del fascismo e del comunismo, sia in quella tendenza
all’irregimentazione culturale del dissenso che abbiamo imparato a
distinguere nel concreto funzionamento delle società occidentali del tardo
ventesimo secolo, ci ha insegnato alcune lezioni cui non possiamo
rinunciare, ovvero che in un qualsiasi sistema sociale la misura della
libertà è proporzionale alla facoltà di scelta, e che l’accentramento delle
funzioni economiche e politiche restringe necessariamente questa misura. Il
processo opposto, che incarna al meglio il progetto libertario, è costruito
sulla tesi di un generale decentramento di queste stesse opzioni. Ma, se non
si ipotizza una qualche forma di unità centrale che pianifichi e disponga
dell’allocazione delle risorse, cosa che probabilmente riprodurrebbe la
logica totalitaria, non ci resta che - se sposiamo sino in fondo le
implicazioni del principio della libera sperimentazione - affidarci al
libero e spontaneo gioco delle interazioni tra comunità e comunità e tra
individuo e individuo. Io chiamo "mercato" il quadro entro cui si situa
questa rete di rapporti, un quadro che a mio parere dovrebbe essere
caratterizzato dalla più o meno intuitiva correlazione tra domanda/offerta e
libero adattamento delle risorse umane.
La differenza tra il "libero mercato" capitalistico del tardo ventesimo
secolo e questa ipotetica "società di mercato" libertaria sta proprio nella
cornice di sfondo: laddove il "mercato" berlusconiano è concepito, un po’
religiosamente, all’interno di una fede assoluta nelle sue capacità di
autoregolarsi per vie esclusivamente economiche (intese nel ristretto senso
di "finanziarie"), il "mercato" libertario dovrebbe essere inteso come uno
dei prodotti di una logica e di un immaginario sganciati dal nesso
economia/dominio, ovvero come il risultato di un libero gioco nel quale
entrino anche considerazioni culturali e sociali, che potrebbero prendere
l’aspetto di decisioni individuali e di decisioni collettive, comunitarie e
transcomunitarie. Sia ben chiaro: non sto dicendo che alla comunità
(qualsiasi forma essa assuma nel concreto) spetti il controllo della vita
economica, ma che la comunità e l’individuo dovrebbero essere in grado di
partecipare al complesso delle interazioni socioeconomiche ciascuno
apportando i suoi specifici valori, etici, sessuali, religiosi o altro, in
un "libero gioco" che presupponga la costante ricerca di un punto di
equilibrio, raggiungibile però solo in via (consapevolmente) provvisoria.
All’interno di questo "mercato" libertario, la proprietà assume a mio parere
una funzione importante. Troppo spesso si crede che lo slogan proudhoniano
"la proprietà è un furto" corrisponda all’apologia anarchica del comunismo
(come mi pare pensi il mio interlocutore Oliva). Di fatto Proudhon chiude il
suo libello del 1840 con un violentissimo attacco al comunismo, che accusa
di violare "l’autonomia della coscienza e l’eguaglianza". Il suo ideale è
fondato prima "sull’eguaglianza delle condizioni, cioè dei mezzi, non
sull’eguaglianza del benessere, la quale a parità di mezzi dev’essere opera
del lavoratore", e poi - sorpresa, sorpresa - sul "possesso individuale",
unica "condizione della vita sociale", e infine, sulla "libera associazione,
la libertà, che si limita a mantenere l’eguaglianza nei mezzi di produzione
e l’equivalenza negli scambi", fondamenti della "sola forma di società
possibile". In un trattato più tardo, giunse a ridefinire il ruolo della
proprietà nella società libera come "uno strumento di garanzia, di libertà,
di giustizia e di ordine"2 .
Ho citato proprio Proudhon, noto appunto come inventore del sopra citato
slogan, per dimostrare che le opinioni anarchiche sulla proprietà sono ben
lontane dall’appiattirsi su una sua banale negazione. Se è vero che buona
parte dei libertari del tardo Ottocento ha accettato la logica del
comunismo, è altrettanto vero che altre tendenze del movimento - degnamente
rappresentate dallo stesso Proudhon, per esempio - hanno colto con
perspicacia maggiore il pericolo totalitario insito nell’idea di una società
senza proprietari, in cui l’unico vero "proprietario" sia lo stato, la
comunità o altro ente adeguato.
Mercato e anarchia
E dopo l’esperienza del primo Novecento molti teorici dell’anarchismo
hanno recuperato l’idea del "possesso" come sbarramento alla formazione (o
alla riformazione) dei meccanismi della coercizione statuale, da un lato
inserendola nella cornice della sopra citata "società di mercato" libertaria
fondata sull’interazione individuo/comunità (che per certi versi implica una
costante risindacazione dei diritti di proprietà concreti), dall’altro
valorizzandone le istanze associative legate al suo possibile (e forse
desiderabile) statuto collettivo.
Credo che questo quadro costituisca uno dei punti di riferimento più
significativi di alcune delle più potenti elaborazioni degli esponenti
dell’anarchismo post-classico. Il riferimento può essere immediato nel caso
di Camillo Berneri, autodefinitosi "liberista", che si dichiarò favorevole
alla "libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e
commercio individuali"3 . O nel caso di Colin Ward, la cui
prospettiva gradualista, decentralista e federalista sembra presupporre,
come fondamento della generalizzazione della sperimentazione anarchica, una
"società di mercato" libertaria.
Può essere più sfumato e problematico nel caso di Luce Fabbri, che ha più
volte riaffermato la propria fedeltà al modello socialista nei termini della
"proprietà collettiva dei mezzi di produzione e di scambio"; tuttavia la sua
ripetuta insistenza sull’ "associazione che moltiplica ed estende sino ai
limiti dell’universo conosciuto le possibilità e le irradiazioni dell’azione
individuale", o che "moltiplica all’infinito le proiezioni dello sforzo
individuale", parrebbe anch’essa implicare, con i suoi riferimenti per certi
versi obbligati a un contesto incentrato su un qualche tipo di
scelta/concorrenza tra opzioni differenti, una forma di convivenza non molto
diversa dal "mercato" libertario.
Posso ora rispondere alle critiche del compagno Oliva. Sono sostanzialmente
d’accordo sull’idea che le tradizioni vadano valutate nel loro complesso e
che certamente il mondo del tardocapitalismo contemporaneo deve molto ad una
sostanziale interpretazione moderata e immobilista dei principi del
liberalismo. Ma ciò non significa che tutte le tradizioni vadano messe sullo
stesso piano. Ci sono serie differenze strutturali tra socialismo,
comunismo, anarchismo e liberalismo. La più cogente è che tra esse solo il
comunismo ("reale", ovviamente) sembra implicare strutturalmente - o almeno
questa è la lezione della storia - la caduta nel totalitarismo: "Tante
strade conducono alla dittatura dalla democrazia e nessuna dal liberalismo",
scriveva agli inizi degli anni Trenta Rudolf Rocker, intendendo con
"democrazia" le differenti versioni del principio della volontà generale -
tra le quali la più nota all’epoca era quella comunista)5.
Sì, Carlo ha ragione. Io credo effettivamente che non si dia società libera
senza proprietà privata. Nelle società complesse non tribali, dall’antico
Egitto alla Francia del Re Sole sino all’Unione Sovietica, l’assolutismo
tendente al totalitarismo si è sempre imperniato sulla negazione del diritto
di proprietà dei singoli. Nel caso del fascismo esso era ancora accettato,
anche se in un contesto in cui erano date per scontate le superiori esigenze
della nazione.
Libertà di intrapresa
Insomma, anche se la proprietà privata non pare essere condizione
sufficiente per poter indicare come "libera" una certa società, mi sembra
proprio che ne rappresenti una condizione necessaria Proprietà privata,
quindi, ma non necessariamente individuale. I passi di Camillo Berneri e
Luce Fabbri sopra citati implicano (nel primo pensatore in modo esplicito)
un mondo sociale in cui i meccanismi della produzione siano affidati in
buona parte a cooperative e comunità in concorrenza tra loro sul piano
economico. Questo genere di comunismo volontario in un contesto "aperto" (in
cui cioè non viga alcuna forma di proibizione esplicita della proprietà
individuale) mi pare perfettamente congruente con i principi di una
(possibile) società libertaria.
È vero che l’insistenza anarchica sulla libertà integrale (sfera economica
compresa) induce alcuni a scorgerne un’affinità con i teorici del liberismo
ultrà. Questa affinità c’è e mi pare sia innegabile. Ci sono anche ovvie e
marcate differenze. Come ho scritto sopra, l’ideale "mercato" libertario si
situa in un contesto in cui si incrociano istanze non solo economiche, ma
etiche, politiche, sociali, e cosi via. La libera sperimentazione anarchica
potenzia tutte le sfere in cui l’uomo agisce, non solo quella economica:
proprio dall’interazione di queste sfere dovrebbe risultare una sorta di
limite all’ambito del "mercato". Il motivo per cui il liberismo
berlusconiano è squisitamente conservatore è che si tratta di una "libera
sperimentazione" limitata alla sfera economica: è noto che, in quanto a
famiglia, sesso, religione, eccetera, i forzaitalioti non sono altrettanto
"liberisti". Ma, carissimo Carlo, per gli anarchici la libertà di intrapresa
è, per cosi dire, un principio irrinunciabile, genetico: non possiamo certo
sacrificare la nostra identità più profonda perché una sinistra miope,
statolatra e protezionistica ha permesso alla destra di appropriarsi delle
parole d’ordine della libertà. C’è il rischio di trovarsi a fianco dei
liberisti? Questo rischio lo correremo (non possiamo non farlo), curandoci
di sottolineare, ogni qualvolta ne avremo l’occasione, la differenza tra noi
e loro.
Mi chiedi di scegliere tra gli oppressi e gli oppressori, tra "i padroni e
chi padrone non è". Mi sorprende che tu sia tanto certo di poter
identificare con sicurezza le due categorie. La realtà sociale del mondo
tardocapitalista mi pare un po’ complessa per manicheismi di questo genere.
Sulle grandi corporations e sull’intreccio affari/politica egemone in
questo mondo siamo d’accordo (in negativo, ovvio). Ma su altri soggetti
sociali trovo più difficile pronunciarmi: l’impiegato statale, miglior
simbolo del parassitismo; l’operaio (para)statale, interessato alla
protezione a oltranza dei suoi privilegi (pagati dal resto della
popolazione); all’opposto dello spettro, il piccolo imprenditore "creativo"
(ne esistono, pare); il commerciante oberato dalle tasse; non sono sicuro di
poter dire a quali categorie (se "oppressi" o "oppressori") questi soggetti
appartengano, anche se gli ultimi due sono chiaramente "padroni". E
quand’anche si parlasse di chi vive in situazioni di reale disagio (i
"diseredati"), non sono certo di potere condividere le ricette economiche e
politiche usualmente proposte da loro o dai loro portavoce, che mi paiono
culminare, con la loro insistenza sul protezionismo, in un potenziamento dei
poteri forti associati proprio allo stato e al parastato.
Pietro Adamo
1. P. Goodman, Is Anarchism Distinct from Liberalism?,
ora in Patterns of Anarchy, a cura di L. Krimerman e L. Perry, Anchor
Books, New York 1966, pp. 55-56.
2. P.J. Proudhon, Che cos’è la proprietà?, tr. it. Laterza, Bari
1978, pp. 268, 286, 290, 292; La dimensione libertaria di P.J. Proudhon,
tr. it. a cura di N. Berti, Città Nuova, Roma 1982, pp. 190-191.
3. C. Berneri a L. Battistelli, in Epistolario inedito, vol. I, a
cura di A. Chessa e P.C. Masini, Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1980, p.
19. Berneri si autodefinisce "liberista" in questa stessa lettera, ma
nell’edizione sopra citata il termine è stato scorrettamente trascritto come
"liberalista" (se ne veda l’originale nell’Archivio Famiglia Berneri di
Reggio Emilia).
4. L. Fabbri, La strada, Edizioni Studi Sociali, Montevideo 1952, pp.
17-18.
5. R. Rocker, Nazionalismo e cultura, tr. it. 2 voll., Edizioni
Anarchismo, Catania 1977, I, p. 155.