Nasce a Foiano della Chiana (AR) il 19
gennaio 1893 da Ferruccio e da Stella Tanganelli. In famiglia si
coltivano simpatie per gli ideali socialisti. Primo di quattro
fratelli, frequenta le scuole elementari e quindi inizia a
lavorare con il padre come meccanico in un’officina. A 17 anni,
con altri suoi compaesani, abbandona il paese per recarsi a
lavorare come meccanico all’Ansaldo di Genova. Qui, a contatto
con il proletariato industriale e con la propaganda sovversiva,
affina la sua preparazione rivoluzionaria, partecipando a
diverse agitazioni. Richiamato in marina (“nella compagnia
del capitano Giuseppe Giulietti, quello che riportò dall’esilio
l’anarchico Malatesta”), passa gli anni della guerra
imbarcato su unità dislocate nei porti libici. In questo arco di
tempo Melacci matura le sue idee anarchiche dopo che ha avuto
modo di conoscere personalmente lo stesso Errico Malatesta nel
corso di un viaggio in nave. Tornato dalla guerra, trova come
tutti i reduci, disoccupazione fame e miseria. Il gruppo
anarchico foianese, ufficialmente costituito nel dopoguerra, ha
una decina di aderenti. Una delle principali attività di
propaganda consiste nella diffusione di “Umanità Nova”. Ma già
dal 1914 a Foiano si leggeva “Il Libertario”. Fra gli altri
esponenti di spicco del gruppo: Sante Scapecchi (Ficocco), Carlo
Scapecchi, Luigi Giaccherini (Baiocco), Guido Marcelli (Buco),
Vittorio Ugolini (Dazio), Lanciotto Gailli, Piero Senesi e
Giulio Bigozzi. Molti di loro, coetanei, hanno vissuto insieme
l’esperienza del servizio militare in marina. Prima della
fondazione del PCd’I – ricordano i compagni – a Foiano
esistevano il gruppo anarchico, e il PSI. All’indomani di una
riuscita manifestazione e corteo organizzati insieme ai
socialisti in occasione del primo maggio 1920 – oratori il
deputato Ferruccio Bernardini e Melacci – inaugura il suo“nero
vessillo” il Gruppo anarchico “Pietro Gori”. Ma già qualche mese
prima il gruppo, in fase di costituzione, aveva promosso con
successo uno spettacolo teatrale a sfondo antimilitarista e di
beneficenza a favore dei bambini austriaci orfani di guerra.
Agli inizi dell’anno successivo si organizza ancora una serata
pro-vittime politiche al Teatro del paese.
Riunioni in casa Melacci
“Il gruppo anarchico non aveva una sede e faceva le
riunioni in casa di Melacci; non vi era un segretario, ma
siccome era stato Bernardo a portare l’ideale anarchico noi lo
consideravamo il responsabile [...] Ricordo che in quel periodo
che va dal 1918 al 1921 vi furono delle grosse battaglie
sindacali e politiche in Foiano e nella vallata e la spinta
promotrice ed organizzativa veniva sempre dagli anarchici [...]
Per i contatti fra gruppi anarchici posso dire che noi eravamo
in contatto con tutte le zone limitrofe: Lucignano, Monte
Sansavino e con quelli del Valdarno (Sassi Attilio); [Alfredo]
Melani, [Ruggero] Turchini, che erano operai del Fabbricone, ad
Arezzo; a San Giovanni c’era l’Unione Sindacale che era diretta
dagli anarchici. Ricordo che ci arrivava anche il giornale
anarchico ed ogni tanto noi gli si mandava qualche cosa (denari)
[...]”
Gli anarchici della Val di Chiana contribuiscono ad arginare le
aggressioni fasciste. In seguito ad uno dei più selvaggi
attacchi degli squadristi al paese (bastonature, purghe,
incendi) scaturisce un conflitto armato in località detta
Renzino tra fascisti e antifascisti.
“[...] Vi furono – raccontano gli atti processuali – due
incursioni fasciste: la prima effettuata il 12 corrente [aprile
1921] da squadre aretine con quelle del Valdarno e di Firenze
per raccogliere una sfida che sarebbe stata lanciata da quei
comunisti. Erano su due camion quasi tutti armati: i fiorentini
avevano elmetti militari e moschetto. Trovarono il paese deserto
e, dopo aver percorso le poche strade, al canto di inni
patriottici, diedero l’assalto e devastarono la sezione
socialista, la Camera del lavoro, la Lega colonica e la
cooperativa di consumo senza incontrare resistenza, nemmeno nei
carabinieri presenti sul luogo [...] La domenica successiva, 17
volgente, ritenendo di aver sgominato gli avversari, vi
ritornano in numero di circa venti [...] Nel pomeriggio circa le
ore 16, tutti uniti si allontanarono per far ritorno ad Arezzo,
quando giunti a due chilometri da Foiano, in contrada Renzino,
furono assaliti da una turba di contadini, che erano in agguato
dietro le siepi armati di fucili, pistole, scuri e forconi.
Caddero uccisi lo chauffeur Rossi, il soldato in congedo Cinini
e lo studente Roselli, sui cui corpi gli aggressori, fra i quali
una donna, si accanirono facendone scempio. Altri furono
gravemente feriti [...] Avvertiti telefonicamente dai superstiti
accorsero, su automobili e camion, fascisti da Siena, Perugia,
Città di Castello e Firenze, questi altresì con elmetti e armati
di moschetto e di una mitragliatrice. L’azione vendicativa fu
oltremodo violenta, vennero incendiati fienili e case coloniche
e furono uccisi quattro comunisti [...]”. Tra le vittime di
Foiano c’è anche un giovane calzolaio anarchico di Arezzo, Gino
Gherardi. È l’ultimo ucciso della strage.
Fallito attentato
Alla spedizione punitiva segue l’azione delle autorità.
Melacci viene arrestato a Genova nel giugno 1921. Tradotto “in
gran segreto” ad Arezzo trova ad attenderlo in questo scalo
ferroviario quaranta fascisti. Qualcuno tenta di accoltellarlo
ma ferisce per errore un altro detenuto. Istigatore della
mancata azione vendicatrice è Alfredo Repanai, superstite della
spedizione del 17 aprile desideroso di saldare i conti rimasti
in sospeso. È da questo momento che si cercherà di cucire
addosso all’anarchico foianese l’immagine mostruosa
dell’assassino truculento. Perciò si arriva a produrre, quale
prova di colpevolezza, persino una fotografia che lo ritrae
mentre brandisce uno spadino nel corso delle prove per una
vecchia recita di teatro amatoriale. Melacci viene interrogato
mentre si trova rinchiuso nelle carceri aretine. Ammette di
praticare spesso la caccia per motivi di sussistenza, pur non
essendo munito di regolare porto d’armi. Inizia il suo racconto
partendo dalla giornata del 12, ricordando l’umiliazione patita
per le violenze dei fascisti ai suoi familiari. Conferma le sue
idee anarchiche e libertarie ma nega di aver preso parte
all’imboscata del 17. Messo in difficoltà dalla mole enorme
delle testimonianze si trova costretto ad alcune ammissioni.
Però sostiene di non aver distribuito nessun’arma come si dice,
di non conoscere i suoi accusatori. Respinge infine con veemenza
l’accusa di aver rubato il portafoglio ai fascisti. Racconta
della sua fuga, dei primi pernottamenti nelle capanne della Val
di Chiana, del rifugio a Genova.
A quella che l’agiografia fascista chiamerà “l’imboscata
comunista” hanno partecipato anche gli anarchici foianesi. I
capi d’accusa per i trentacinque imputati si confermano
gravissimi. In trentatre devono rispondere, in correità fra
loro, dei tre omicidi volontari premeditati e di tredici mancati
omicidi. Inoltre su Melacci gravano le imputazioni di furto
qualificato ai danni dei fascisti a cui sarebbero stati
sottratti rivoltelle e valori. Ancora il Melacci deve
rispondere, in concorso con altri, dell’abbattimento dei tre
pali conduttori dell’energia elettrica e del tentativo di
interrompere le comunicazioni telefoniche. A questi si
aggiungono tutti i reati connessi al porto abusivo e alla
detenzione di armi da fuoco. Intanto si imbastisce il processo
che si svolge nel 1924, dopo tre anni di carcere preventivo,
alla Corte d’Assise di Arezzo. Il primo imputato ad essere
interrogato è Melacci. La penna dell’inviato speciale de “Il
Nuovo Giornale” rappresenta il personaggio secondo un cliché
lombrosiano scontato eppure efficace, e chiosa sapientemente il
disegno proposto sulla stessa pagina. “[...] Una delle figure
principali sia per la sua attività politica, come per il nefasto
contributo di barbarie portato nella tragica giornata di Renzino
è senza dubbio Melacci. Basso di statura, faccia irregolare,
sguardo torvo, zigomi sporgenti, abiti dimessi e grande cravatta
svolazzante alla Malatesta. Siede con un’ostentata altezzosità
nella piccola gabbia separata. Organizzatore di professione,
oratore violento, ha battuto negli anni del dopo guerra tutti i
paesi dell’Aretino [...]”
Ammessa la sua fede politica, oltre che di essere pregiudicato,
l’anarchico inizia provocatoriamente riproponendo il medesimo
schema di racconto degli interrogatori, ripercorre le angherie
subite dalla mamma e dalla sorella nella duplice irruzione in
casa perpetrata dai fascisti in quel giorno. Erano in cinque al
mattino e sono tornati in venti nel pomeriggio, visibilmente
ubriachi e minacciosi. Hanno portato via effetti e documenti
personali senza alcun motivo e diritto, per di più con l’avallo
ingiustificato delle autorità locali. Tutto questo – egli dice –
nonostante io avessi sempre portato rispetto agli avversari
politici. Per quanto riguarda l’imboscata del 17, Melacci rimane
fermo ancora sulla sua versione suscitando vivaci proteste e
battibecchi fra avvocati. Rivendica il suo diritto a difendersi
scatenando un putiferio: “... Devo dire tutto quello che
voglio a mia difesa... Sono anarchico... non ho niente da
rimproverarmi”.
Teppaglia fascista
“[...] La cattiveria della teppaglia fascista e dello
stesso tribunale – ricorderà la sorella – fu tale che impediva
agli imputati perfino di parlare, specie se li ritenevano
anarchici; nell’aula c’erano moltissimi fascisti che facevano
continue gazzarre. Venivano anche gli altri al processo, cioè
dalla parte nostra, ma rari perché era rischioso. I fascisti
premevano per ottenere una condanna severa [...] e quando è
stato il momento del verdetto hanno incominciato a tirare
calamai, barattoli e d’ogni bene, hanno incominciato a gridare:
– Si vuole trent’anni! Si vuole trent’anni! [...]”. Il
tribunale commina oltre tre secoli di carcere. Melacci ha la
massima pena di anni 30 che sconterà fino al 1935 passando da
Arezzo alle carceri di Pesaro; e poi ai penitenziari di Imperia,
Portolongone, Parma e Pianosa. Vive il suo stato di detenzione
con moltissime limitazioni. I contatti con l’esterno gli sono
proibiti. La corrispondenza con i familiari è censurata in
maniera sistematica e consentita solo dietro autorizzazioni
preventive. Il fratello Eugenio dall’America e le strutture di
soccorso del movimento anarchico sopperiscono come possono alle
necessità del detenuto, con Temistocle Monticelli da Roma,
responsabile del Comitato di Difesa Libertaria.
Bernardo – e sono passate solo due settimane dalla fine del
processo – scrive una prima lettera alla mamma ed alla sorella
mentre è appena giunto al carcere di Pesaro nel giorno di
Natale. Lo stato d’animo di una persona appena condannata a
trent’anni si può facilmente immaginare. Dallo scritto però
emergono anche elementi che contrastano in modo aperto con lo
stereotipo che gli è stato cucito addosso. Il suo animo è
gentile e sensibile, le parole che scrive alla famiglia rivelano
tormento e sofferenza interiori. Perfino i toni lirici usati in
certi passaggi sono una conferma della sua grande capacità di
comunicare e, nonostante tutto, anche della voglia di vivere.
“Madre e sorella carissime, non ho potuto scrivervi prima di
oggi. La traduzione doveva essere straordinaria ma... forse per
l’impossibile ho dovuto fare diverse tappe: Spoleto e Ancona.
Sono giunto a Pesaro il giorno della festa religiosa, il giorno
in cui tutti reverenti s’inchinano, nella fredda cuna del gran
Messia. Il giorno da poco levato batteva alle porte delle case
addormentate portando seco l’eco bronzeo della notte, le note
delle campane che non stanche, su l’ore silenziose saltellavano
ancora come pensieri fuggenti attraverso l’infinito, con
l’infinito del mio desiderio, di tutti i desideri. Il giorno da
poco levato, i primi raggi del sole da poco spogliati dagli
abiti in gramaglia salutavano le ombre partenti, quando io
silenzioso, nel mesto raccoglimento, vi pensavo. Pensavo a voi
povere e solitarie anime, più che a me stesso. Pensavo al vuoto
delle anime vostre nella casa vuota [...]”.
Confino, manicomio e morte
Poi lo scritto volge su quegli ultimi giorni angosciosi
trascorsi fra la cella delle prigioni aretine e la gabbia degli
imputati in Corte d’Assise. Bernardo ha la convinzione di aver
agito bene sul piano della sua morale anarchica. Ha rifiutato
qualsiasi compromesso ed ora si appresta a pagare le conseguenze
del suo gesto. Qualche tempo più tardi, meno in vena di
divagazioni poetiche, invierà una più circostanziata richiesta
ad un compagno di Arezzo (forse Alfredo Melani): “[...]
Mandatemi anche il panpepato e i burischi. Spedite il pacco per
ferrovia a grande velocità, qualche soldo e Carolina non si
dimentichi delle raccomandazioni ch’io le feci [...]”.
Dimesso dal carcere in seguito ad amnistia ritorna alla sua
casa. Ma solo per tre giorni. I gerarchi locali non possono
tollerare la sua presenza nonostante le autorità di polizia non
abbiano niente da obiettare. Così gli vengono inflitti tre anni
di confino. Inviato alle Tremiti nell’anno 1937 si dedica alla
propaganda delle idee anarchiche fra i numerosi giovani
confinati facendosi iniziatore, con Stefano Vatteroni e Alfonso
Failla, di una rivolta contro l’imposizione del saluto romano.
Melacci, nonostante gli anni di galera, è lo stesso ribelle dei
primi anni, il primo a scagliarsi contro le guardie che
maltrattano i confinati. Viene arrestato insieme ad altri cento
e imputato di essere stato il promotore della protesta. L’ultimo
periodo di carcerazione dà il colpo di grazia alla sua salute
già minata dai lunghi anni di reclusione. Condannato ad altri
cinque anni, nel 1938 viene ricoverato in manicomio. La guerra
lo sorprende ancora in carcere. Le privazioni e l’eccezionale
regime carcerario lo conducono dopo un periodo passato in
ospedale, alla tomba. Il 7 dicembre 1943 muore a Nocera
Inferiore. I compagni sapranno molto tardi della sua fine. E
solo cinque anni dopo a Foiano della Chiana, presente Pier Carlo
Masini, potranno ricordare Bernardo “come uno dei migliori
militanti perduti”. Carolina Melacci Burri in una sua
testimonianza – nel ricordare le vicissitudini patite dal
fratello, e la sua figura gentile e delicata di compositore di
poesie – ha avanzato seri dubbi sulle circostanze della sua
morte.
“[...] condannarono Bernardo per le sue idee anarchiche e
Bernardo è morto con l’ideale anarchico [...] Quando venne da
Pesaro per il processo subì il primo attentato nel tratto che va
dalla stazione al carcere di Arezzo [...] Altro attentato gli fu
fatto nel carcere di Arezzo, durante il colloquio che io avevo
con Bernardo: nella stanza dei colloqui c’erano i finestrini e
gli spararono un colpo di rivoltella verso la finestrina,
proprio dove si parlava noi. Un altro attentato glielo fecero a
Terontola, poi non so se avranno provato ancora; so solo che
Bernardo non si sa come sia morto [...] Quando le sue spoglie
furono riportate al paese, una grande manifestazione popolare
gli testimoniò tutta la riconoscenza della cittadinanza”.
Giorgio Sacchetti
Dal Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, vol.
II, ad vocem, in corso di pubblicazione, Pisa, edizioni
Biblioteca Franco Serantini (BFS). |