La sera del 23 dicembre 2001 un infarto ha stroncato
prematuramente, a 59 anni, la vita di Giovanni Marini, il “poeta dei folli e
dei giusti”. Al suo rientro la madre l’ha trovato privo di vita. La notizia
è stata diffusa dalla stampa locale del 27 dicembre 2001, a tumulazione
avvenuta e per questo nessuno dei compagni e degli amici ha potuto rendere a
Giovanni Marini l’estremo saluto.
È “sopravvissuto” quasi trent’anni a una sentenza di morte pronunciata nei
suoi confronti dai fascisti di Salerno. L’anarchico Giovanni Marini, nato il
1 febbraio 1942 a Sacco, un paesino all’interno del Cilento, “doveva” morire
una sera d’estate di molti anni fa. Era il 7 luglio del 1972 quando sfuggìi
a una vile aggressione fascista, nel corso della quale perse la vita una dei
suoi aggressori, il giovane Carlo Falvella. La città di Salerno in quelli
anni fu teatro di moltissime azioni fasciste, come incendi, devastazioni di
sedi e aggressioni a militanti della sinistra, fino ad un assalto alla
redazione del quotidiano “Il Mattino”.
Giovanni Marini era impegnato in una contro-inchiesta su uno strano
incidente stradale che aveva provocato la morte di cinque anarchici
calabresi, Giovanni Aricò, Annalisa Borth, Angelo Casile, Francesco Scordo,
Ligi Lo Celso, avvenuto il 27 settembre 1970 sull’autostrada nei pressi di
Ferentino, a pochi chilometri da Roma, dove i nostri compagni si recavano
per consegnare i risultati di una loro inchiesta sulle stragi fasciste, che
avevano cominciato ad insanguinare l’Italia. Le carte e i documenti degli
anarchici di Reggio Calabria non furono mai ritrovate. Nell’incidente,
avvenuto all’altezza di una villa di Valerio Borghese, fu coinvolto un
autotreno guidato da un salernitano, che procedeva con i fari posteriori
spenti. Pare che l’autista avesse simpatie fasciste. Marini doveva accertare
se era stato un incidente casuale oppure organizzato e per questo aveva
ricevuto molte minacce telefoniche, ma non sappiamo a che cosa approdarono
le sue indagini.
Nella prima serata del 7 luglio 1972 a Salerno si consumò l’ennesima
provocazione da parte di Carlo Falvella e di Giovanni Alflinito, due
militanti del MSI. Falvella per provocare una sua reazione, incontrandolo,
gli diede una gomitata, ma Marini che passeggiava in compagnia di Gennaro
Scariati, nato nel 1955 a Salerno, non reagì. E ben fece perché il lungomare
di Salerno era strapieno di fascisti pronti ad intervenire per dar man forte
ai camerati certamente mandati in avanscoperta.
Più tardi Marini e Scariati, ai quali nel frattempo si era aggiunto per puro
caso il giovane Francesco Mastrogiovanni, nato nel 1951 a Castelnuovo
Cilento (Sa), ridiscendendo tranquillamente Via Velia per andare a teatro,
incontrarono nuovamente i due giovani missini. Ai due Mastrogiovanni disse
di lasciarli in pace e per tutta risposta vide luccicare la lama di un
coltello che lo ferì alla gamba, svenne e cadde sul marciapiedi. A questo
punto intervenne Giovanni Marini, che riuscì a disarmare gli aggressori e,
impossessatosi del coltello che aveva ferito Mastrogiovanni, nella
colluttazione ferì Carlo Falvella, un giovane fascista di 21 anni. I
fascisti – di fronte all’imprevista e coraggiosa reazione – se la diedero a
gambe, limitandosi a soccorrere i loro due camerati e poco dopo Falvella
morì all’ospedale. Mastrogiovanni, sanguinante per la ferita alla gamba,
dovette ricorrere all’autostop per recarsi in ospedale.
Marini si costituì subito dopo e fu dichiarato in arresto insieme con
Mastrogiovanni e con Scariati, che si costituì dopo alcuni giorni e venne
prosciolto in istruttoria, mentre Mastrogiovanni sarà scarcerato ma imputato
per rissa.
Nonostante un manifesto della federazione provinciale del PCI di Salerno che
definiva Marini uno “sciagurato”, all’anarchico salernitano – sfuggito ad
un’aggressione fascista – andò subito la solidarietà del movimento anarchico
e della sinistra extraparlamentare (una prima sottoscrizione a loro favore
fu fatta dal sottoscritto tra i compagni che partecipavano alla
manifestazione per il centenario del Congresso dell’Internazionale svoltosi
a Rimini nel 1872).
Falvella fu seppellito con tutti gli onori dovuti a chi cade nel corso di
una battaglia e lo stesso Giorgio Almirante – che precedentemente, in un
comizio a Firenze, aveva incitato allo “scontro fisico” – e altri esponenti
missini si recarono a Salerno.
Intanto Marini, descritto come un mostro, una belva anarchica assetata di
sangue, per punizione peregrinava incessantemente da un carcere all’altro e
a Caltanissetta fu destinato in una buia e umida cella. E non smise mai di
denunziare le incivili e aberranti condizioni di vita riservate ai
carcerati.
Il processo iniziò a Salerno per il 28 febbraio 1974. Il collegio difensivo
era costituito dal senatore comunista Umberto Terracini, dagli avvocati
Giuliano Spazzali, Gaetano Pecorella e Francesco Piscopo del foro di Milano
e dall’avv. Marcello Torre di Pagani (ricordo che poco dopo l’arresto, di
mia iniziativa, mi ero recato a Potenza per proporre all’avv. Tommaso Pedio
di assumere la difesa, ma non lo trovai e poi seppi del collegio difensivo).
Tra i difensori degli aggressori, l’avv. Alfredo De Marsico, già ministro
della Giustizia di Benito Mussolini e uno dei collaboratori del famigerato
codice Rocco, e gli avvocati salernitani Dino Gassani e Giacomo Mele,
esponenti missini di rilievo e di provata fede.
Il 13 marzo 1974 il tribunale di Salerno, adducendo motivi di ordine
pubblico, sospende il processo spostandolo a Vallo della Lucania, dove
riprende il 30 giugno del 1974. Fu seguito da numerosi compagni e compagne
venuti da ogni parte d’Italia anche per testimoniare e manifestare
solidarietà a Marini, oltre che dagli inviati dei maggiori quotidiani
italiani (chi scrive lo seguì per “l’Internazionale” di Ancona, “Espoir” di
Tolosa e “Le Monde Libertaire” di Parigi). A Vallo della Lucania, il PM
Zarra chiese la condanna di Marini a diciotto anni di carcere. Invece il
tribunale – presieduto dal giudice Fienga – lo condanna a dodici anni, con
tre anni di sorveglianza e all’interdizione dai pubblici uffici, assolvendo
Mastrogiovanni e il missino Alfinito dall’accusa di rissa. Al processo
d’appello – che si tiene a Salerno dal 2 al 23 aprile 1975 – la condanna
viene ridotta a nove anni di carcere, dei quali ne sconta sette.
Quando viene scarcerato Gerardo Ritorto, presidente socialista della
Comunità Montana del Vallo di Diano di Padula, mio tramite, gli offre un
lavoro che accetta.
Marini però portava nelle sue carni le insanabili ferite della detenzione e
della persecuzione carceraria e, purtroppo, vedeva dappertutto “nemici” e
così un giorno sfasciò dei mobili in un ufficio della Comunità Montana.
Venne arrestato e licenziato.
Uscito distrutto dal carcere, purtroppo Marini si era illuso di trovare un
suo “mondo”, senza rendersi conto che molte cose erano cambiate, che i
valori politici si erano assottigliati e sopravvivevano presso una piccola
minoranza o si erano addirittura perduti.
Così una volta fuori, persa la serenità, Giovani Marini – pur avendo vissuto
il periodo della detenzione con una grande coerenza e combattività – è
andato via via autoemarginandosi dalla vita e dal movimento anarchico.
Aveva trovato un conforto nella poesia e già durante la detenzione il volume
“E noi folli e giusti”, pubblicato nel 1975 dall’editore Marsilio, aveva
ottenuto un lusinghiero successo arrivando a vincere il Premio Viareggio per
la poesia. Continuava a scrivere poesie e di tanto in tanto pubblicava per
proprio conto dei libricini, che mandava per lo più in dono ad un ristretto
gruppo di amici (li stampava presso la stessa tipografia dove stampo le mie
edizioni, dove qualche volta lo incontravo).
A Salerno lo si incontrava raramente che trascinava faticosamente il suo
corpo acciaccato e dolorante, e per la città Marini era un estraneo e una
figura scomoda.
“Lascia agli altri, a noi tutti la sofferenza di pensarlo e ripensarlo”, ha
scritto in un articolo per “Il Mattino” del 28 dicembre 2001 Ernesto Scelza
– assessore Ds alla provincia di Salerno, uno degli amici di allora – che
continua: “Per alcuni rimaneva quello della tragica aggressione del 1972,
per molti un problema, per troppi un ingombro. Giovanni Marini è stato
contraddizione lacerante. Sensibilità esasperata, nervi scoperti, tensioni
emotive e nevrosi scoperte. Ha vissuto i nostri tempi, come da sempre gli
ultimi fra gli uomini sono dannati a vivere i propri (…) Tenero e spietato,
con sé e con tutti. Era semplice fino alla perversione. Era la vita che
amava e che sempre ci sfugge”.
Franca Rame, in un’intervista a Barbara Cangiano, pubblicata da “La Città”
del 28 dicembre 2001, sottolinea la sua generosità e sulla base di una
generica e vaga confidenza – che sarebbe stata fatta da Marini “preferì
addossarsi le colpe per non far finire nei guai un compagno più giovane che,
proprio perché minorenne, avrebbe scontato anche una pena minore”.
La cosa non è nuova, perché emerse anche al processo d’appello di Salerno,
ma non fu presa in considerazione, proprio perché generica e inconsistente.
Il destino ha voluto che Giovanni Marini morisse da solo, nella lontananza
dagli amici e dai compagni, che non lo avevano di certo dimenticato ed erano
comunque partecipi delle sue vicende umane.