Ricordando Marcello Bernardi

di Stefano Lonzar

 

Il professor Marcello Bernardi è scomparso poco più di un anno fa all’età di 78 anni. Ricordarlo è un impegno da assolvere soprattutto in questi tempi di mode ed ubriacature esterofile e funzionali ad una certa concezione dell’educazione, e quindi della società, per onorare quello che è stato, non a caso, il più noto ed anche il più letto dei pediatri e dei pedagogisti italiani. Docente di puericultura all’Università di Pavia, di Auxologia all’Università di Brescia, presidente del Centro di Educazione matrimoniale e pedagogista per passione, Bernardi è stato per decenni il referente italiano di quella pedagogia radicale rappresentata negli Stati Uniti da Ivan Illich e da Paulo Freire e, storicamente, da Godwin in Inghilterra, da Leone Tolstoj in Russia e da Francisco Ferrer in Spagna. Nel corso della sua attività ha proposto ai genitori ed insegnanti italiani un’educazione non autoritaria, ma mai stoltamente permissiva, basata sul rispetto del bambino e dei suoi tempi; ha mostrato come la società degli adulti, solo apparentemente attenta ai bisogni dell’infanzia, sia in realtà condizionante e tutt’altro che liberatrice, costruita com’è attorno ai valori economici, al possesso, al potere, alla competizione; ha analizzato, in una prospettiva molto critica, il rapporto fra i bambini e le agenzie educative – prime fra tutte la scuola e la famiglia – che si limitano a  far  adattare l’individuo a quel tanto di infelicità che gli è imposto da un sistema dato, (ricordiamoci Marcuse!) considerato per di più immutabile, e ben poco fanno, invece, per farlo evolvere verso la propria realizzazione, al fine di renderlo felice. Una critica questa che offre lo spunto per mettere in luce un altro aspetto fondamentale di Bernardi, il quale, avendo compreso come esista una stretta interconnessione fra la scienza dello sviluppo infantile e il contesto socio-culturale, ha assegnato all’educazione un ruolo fondamentale: non certo quello di perpetuare – senza traumi – lo status quo, ma di favorire l’affermazione di un individuo che cerchi di rendere felice la propria ed altrui esistenza e che lotti a questo scopo anche contro la situazione esistente. Con un’impostazione del genere è chiaro che la «grande bocciata» di tutti i tempi è proprio la scuola che, come era solito ripetere Bernardi, è rimasta ai livelli del fascismo: tanta burocrazia, voti, compitini, pagelle, feroce competizione fra i bambini, sede del meccanismo selettivo di esclusione degli studenti meno abbienti da parte dell’elite dominante. Il contrario insomma di quello che dovrebbe essere: un luogo di socializzazione fra bambini, di crescita, di rispetto della libertà del singolo, dove l’insegnante, a patto che capisca di non essere un burocrate ma una persona, eserciti un ruolo fondamentale di esempio e di punto di riferimento, per il bambino al di fuori dell'ambito familiare, favorendo l'unione, l'amicizia, il vero rispetto fra i compagni. Come tutte le proposte più radicali e feconde anche quella di Bernardi in quest’epoca di funzionalismi e “pensieri deboli” ha subito un processo  di revisionismo e snaturamento, basti pensare ad un certo tipo di pedagogia moderna (ben supportata da politici, opinionisti ed intellettuali vari) che, ribaltandone le premesse, ascrive la causa dell’insuccesso scolastico - e della conseguente insoddisfazione giovanile - non più agli alunni, bensì agli insegnanti "incapaci ed impreparati", fornendo in questo modo una giustificazione sociologica meno alienante del mancato inserimento giovanile nella società e soprattutto un colpevole. Lungi dal voler considerare tutti gli insegnanti uguali per qualità e impegno, ritengo che  condannare e criminalizzare un’intera categoria risponda solo ad una necessità politico-economica di stabilire un meccanismo selettivo di carriera e di gratificazione stipendiale. Anche la giusta esigenza di democratizzazione e di partecipazione alla vita scolastica è stata travisata e trasformata nell’idea di scuola-azienda,  dove gli studenti, le loro famiglie sono considerati clienti  e quindi “hanno sempre ragione”, coinvolti, strumentalmente, con i docenti in un mosaico impazzito, in cui tutti decidono su tutto, si cancellano le inevitabili diversità, si confondono attribuzioni e responsabilità, si assiste ad un semplice ribaltamento dei ruoli che, però, non  modifica i meccanismi di potere e di dominio all’interno di una relazione educativa ancora funzionale al sistema. Ben altra cosa è l’educazione libertaria auspicata da Marcello Bernardi, testimoniata dal suo impegno militante, dai suoi scritti e che, giunta a noi in eredità, abbiamo il dovere di coltivare e sviluppare. Essa comprende quell’insieme d’atteggiamenti e di comportamenti che aiutano un individuo ad essere se stesso, a realizzare pienamente la propria personalità, a progredire secondo le proprie linee evolutive; un processo fondato essenzialmente sui rapporti interpersonali, delicati e difficili, non inquadrabili in uno schema di prescrizioni, di regolamenti, di orari  e che non può assolutamente fare a meno di quella che Bernardi chiamava “la strategia dell’attenzione” giusta e mai esasperata, di cui i bambini hanno disperato bisogno per non sentirsi frastornati e disorientati. Un’educazione intesa come rapporto in evoluzione continua – e non un’azione statica esercitata da una persona su un’altra in conformità a gerarchie predefinite – che si deve sviluppare con la consapevolezza di essere fatta da soggetti diversi che tendono progressivamente e coerentemente ad “incontrarsi”, a “favorire una reciprocità” per cui l’educatore, tale per competenza sociale, culturale e tecnica, viene, a sua volta, educato. Un’educazione dalla parte dei bambini, grazie alla quale « potranno edificare un mondo nuovo, in cui si viva per aiutare gli altri e in cui si vive grazie all’aiuto degli altri