Lo stato incosciente
di Eduardo Colombo
Nelle prossime settimane arriverà in libreria Lo stato incosciente, di René Lourau, per i tipi delle Edizioni Antistato. Dalla lunga prefazione del compagno Eduardo Colombo - argentino, esule a Parigi, psichiatra - abbiamo scelto uno dei paragrafi centrali.
(...) Le lotte antistatali producono gli effetti ricercati, a colpi di
insuccessi successivi. Lentamente va consolidandosi l'idea che è lo stato il
grande problema, e che la "curvatura" dello spazio politico-sociale che esso
produce, la distorsione del campo delle rappresentazioni, conseguente alla
sua presenza, è impressa in tutti gli aspetti della vita, si infiltra in
tutte le operazioni del codice, del linguaggio, del valore-segno. I suoi
effetti strutturali risultano sia a livello conscio che inconscio. E noi
impariamo a riconoscerli in aspetti occulti o insospettati dall'istituzione
o dall'individuo, a estrarli dalla teoria che li travisa, dalla ideologia
che li ignora, dal comportamento che si pretende neutro, o personale, o
intimo.
Uno studioso delle origini dello stato moderno, per nulla sospettabile di
lavorare alla distruzione o alla negazione dell'istituzione, afferma che "lo
stato esiste principalmente nel cuore e nello spirito dei suoi cittadini; se
essi non credono alla sua esistenza, nessuna acrobazia logica potrà dare ad
esso la vita". Come il fantasma divino di cui parlava Bakunin. La religione
e lo stato sono una "pazzia collettiva (che) ha penetrato tutti gli aspetti
sia pubblici che privati dell'esistenza sociale di un popolo", ogni
individuo deve fare sforzi sovrumani per liberarsene e "non ci riesce mai in
modo completo".
E Bakunin insiste: "anche i figli più intelligenti del popolo... non sono
ancora riusciti a liberarsene totalmente. Scavate nelle loro coscienze, e vi
troverete il giacobino, il governativo, rimosso in qualche angolo oscuro e
divenuto assai modesto, è vero, ma non del tutto morto".
Nella produzione dell'immaginario sociale, nella sua riproduzione
permanente, la dimensione planetaria dello stato, la sua onnipotenza e la
sua onnipresenza, si sdoppiano in una linea astratta ed esplicita che fonda
la razionalità interna del sistema, e in un'altra che non può essere che
dell'ordine dell'inconscio. Ciascuna si costruisce sull'altra, e mutualmente
si alimentano o si rialimentano, col risultato di produrre l'esistenza
concreta, emortifera, dell'istituto.
Accanto alla nozione di stato marcia la "ragion di stato", seguita da tutto
il corteo: la dominazione e lo sfruttamento, gli apparati, le
organizzazioni, i testi, la violenza, le guerre, le torture, i massacri di
stato. Che lo stato copre e legittima.
Questa volontà di legittimazione, di legittimità unica, è la forza con cui
lo stato impone una forma equivalente a tutte le relazioni sociali; è il
processo di istituzionalizzazione sotto l'egida della legge, e la
trasgressione è anti-istituzionale, è la rivoluzione.
La forza dello stato che "curva" - per continuare ad usare l'espressione di
Lourau - la totalità del sociale, affonda le sue radici in una realtà opaca,
alla cui materialità concorre l'economia allo stesso modo che "le fantasie".
È una realtà che si costruisce sullo scambio simbolico, sul significato (il
senso) e la rimozione. In seguito a ciò, le rappresentazioni, le immagini,
il discorso, sono, fin dall'inizio, strategie politiche nelle quali è
coinvolto l'inconscio. E l'inconscio è modulato dai limiti strutturali - e
strutturanti - dello stato.
Lo stato garante della legge - e garantito dalla Legge dell'inconscio (la
metafora paterna), contingente ed arbitraria anch'essa, come lui, - "lo
stato papà-mamma dà forma alle nostre rappresentazioni, sia quelle più
razionali che quelle meno". "Lo stato si installa nell'immaginario dove può
tutto".
La dimensione dell'immaginario sociale non è soltanto il luogo
dell'illusione, della mistificazione, dell'inganno. La materialità
quotidiana del mondo è costruita su progetti che son già tradizione, su miti
che sono stati profezie, su utopie trasformate in realtà. Materia vivente,
dinamica, in perenne trasformazione, eppure "curvata" dalla doppia legge
del movimento sociale: la istituzionalizzazione e la repressione.
"Curvata", è vero, ma in lotta costante per raddrizzarsi. Altri progetti,
altre utopie, che sono la negazione dell'istituto, aprono brecce nella
carcassa stereotipata dell'esistente, brecce attraverso le quali si riversa
il movimento sociale creatore di un mondo nuovo.
Questi momenti della realtà sociale, o della storia, nei quali con maggior
virulenza si manifestano le contraddizioni del sistema, li chiamiamo
analizzatori. E se continuiamo l'analisi sociale là dove c'era la
rivoluzione perduta, non possiamo evitare di affermare che "se gli
analizzatori sono distrutti, vinti, essi però producono, nella loro breve
esistenza, delle esperienze e dei progetti che verranno ripresi nella fase
successiva del movimento sociale".
Le "relazioni sociali", le società costituite, il sociale in generale,
ammettono, dunque, almeno due letture: una che è parte del discorso
delirante del potere, che ha una sua propria razionalità, la razionalità del
sistema, la razionalità dei mezzi, e che può essere definita come lettura
del realismo politico. Essa si iscrive nello spazio dello stato.
Poi ce n'è un'altra, che tenta di decifrare questa specie di "neurosi da
destino" che ci viene imposta dalla prima, e che si basa sulle denegazioni,
i lapsus, la ripetizione, la rimozione, contenuti nel flusso del sociale
istituito.
Per esempio, la denegazione costante dello Stato, che implica il
mantenimento al margine, non macchiata dalla politica, di un'area
interpersonale, della soggettività, del desiderio o della pulsione. O,
ancora più flagrante, le discussioni se uno sciopero sia economico o
politico. Non dimentichiamo - e le dimenticanze sono fatte di rimozioni -
che Marx costrinse l'Internazionale, al prezzo della sua rottura, a
dissociarsi in una organizzazione economica e in un'organizzazione politica
del proletariato.
E che dire del gigantesco "lapsus" del discorso rivoluzionario, quando si
parla di stato operaio o di dittatura del proletariato?
Pensiamo a tutti quei momenti della storia, quando masse umane miserabili e
spossessate si lanciano a ripetere il gesto della rivolta, senza poter
appropriarsi del progetto che lo sostiene.
E se c'è una rimozione significativa - tanto nella memoria degli storici
come nell'attenzione di coloro che utilizzano i "mezzi di comunicazione di
massa" per raccontare i fatti di tutti i giorni - è quello che condanna
l'anarchismo come movimento sociale.
Gli intellettuali patentati sanno poco o nulla dell'anarchismo. Fino a poco
tempo fa, la loro ignoranza su tale argomento era totale. E anche oggi, se
devono criticare la burocrazia vanno a chiedere aiuto a Trotsky -
dimenticando nel contempo la militarizzazione del lavoro (1) - e se devono
parlar male del Partito si mettono a leggere i consiglisti. La "vecchia
talpa rivoluzionaria immaginata da Marx" (2) non può essere che marxista!
Come dice uno storico attuale dell'anarchismo spagnolo, le falsificazioni e
le interpretazioni tendenziose che suscita l'anarchismo in borghesi
reazionari (il che è logico) e in marxisti rivoluzionari (il che dovrebbe
esserlo meno) sono spiegabili forse soltanto in termini freudiani di teoria
dell'inconscio.
Poggiando su questa lettura di un "inconscio statale", il lavoro del negare,
questo processo critico della "realtà" che si sostituisce in se stessa
negandosi contemporaneamente, per essere una cosa diversa da ciò che è -
specie di apofatico secolare in cui la parola negazione non deve venir
confusa con la (de)negazione, nella sua accezione psicoanalitica di difesa
di fronte ad una rappresentazione che non si vuole accettare -, la negazione
dicevamo, diventa un elemento essenziale del progetto rivoluzionario e
contribuisce a polarizzare i movimenti sociali contro l'istituto e la sua
violenza repressiva.
La distruzione, a ferro e fuoco, dei movimenti eretici del sedicesimo secolo
è soltanto una parte del grande movimento "positivo" che determina la forma
dello Stato moderno. L'altra è costituita dalle forze interne che conducono
alla istituzionalizzazione del movimento. Alternanza tra il reprimere e
l'istituire, l'istituzione è una sorta di Giano bifronte. È interessante
vedere se, come dice Lourau, è in questo momento della storia europea o
"occidentale" che, attraverso un certo trionfo politico e territoriale di
una frazione riformista della chiesa, si produce "la grande frattura che nel
sedicesimo secolo ha spezzato in due la genesi teorica del concetto di
istituzione, isolando da una parte i partigiani dell'istituto, i metafisici
della norma, dell'equilibrio sociale, della stabilità travestita da
razionalità, e dall'altra quelli dell'istituente, i lavoratori del negativo,
coloro che pensano che le istituzioni di questo mondo possono - e devono -
essere rivoltate come un guanto".
Ma, tra il "mondo capovolto" e la "negazione dell'esistente", vorrei mettere
in evidenza una differenza che incontreremo anche in seguito, tra la
profezia iniziale e il mito fondatore.
Dicevamo un momento fa che la realtà sociale è costruita sulla dimensione
dell'immaginario collettivo che le imprime una parte della sua direzione,
del suo senso. E tale senso, ogni attribuzione di significato, è il
risultato di un contesto mitico, "fantastico" e istituzionale. È a questo
livello che si pone il problema della legittimazione del sapere, tanto di
quello narrativo che di quello scientifico.
Il mito è una riflessione circolare sulle origini e sul fine. Infatti, "un
mito, o anche la pratica su cui si fonda e si consolida - cioè il rituale -
ha sempre in qualche parte la sua versione contraddittoria; versione che è,
dunque, di fatto, un'inversione, un contrario".
Non è strano, quindi, che, dalla parte degli oppressi, ci si imbatta nel
mito del "mondo capovolto" ("monde reversé"): "I padroni saranno i servi, e
i servi padroni, (...). Il capovolgimento investe tutto il cosmo intero. E a
volte, produce effetti curiosi: le patate cresceranno sugli alberi, le noci
di cocco in terra. Gli animali terrestri vivranno nel mare, quelli marini
sulla terraferma, ecc.".
È facile constatare che l'inversione mitica lascia intatto l'ordine sociale,
la piramide si capovolge ma restano inalterate le regole del suo
funzionamento.
Al contrario, il lavoro della negazione presuppone la possibilità di
contestare totalmente il sistema stabilito. Il mondo capovolto degli "uomini
senza padrone" dà alla profezia iniziale il suo carattere dinamico, ed essa
diventa portatrice della funzione utopica e sovversiva del desiderio
proiettato al di là del presente.
La rottura nella genesi teorica del concetto di istituzione, la antinomia
detta tra istituente ed istituito, lascia in piedi una novità: "La novità,
nel diciassettesimo secolo, fu l'idea che il mondo potesse essere mantenuto
capovolto in modo permanente: che il sogno del Paese della Cuccagna o del
Regno dei Cieli potesse realizzarsi qui e subito".
Quando il nucleo forte dell'utopia, il suo rifiuto del presente, prende le
forme della profezia, ciò perché ha trovato una base sociale, si è incarnato
in un movimento, è divenuto azione qui e ora. "L'eresia è sempre il segno
premonitore della ribellione".
Il presente, il tempo dell'azione, esige il passaggio dal sonno alla veglia,
dal fantasticare alla pratica, ad un movimento ad una modificazione delle
relazioni sociali. Così, un radicale e libertino, Rochester, ha potuto dire:
"Il pensiero non ci è stato dato che per dirigere la nostra azione. Se cessa
l'azione, il pensiero diviene impertinente".
Quindi è pertinente interrogarci sullo scopo che ci muove. È possibile
"analizzare" lo stato? Giustamente scrive Lourau: "La scrittura individuale,
se non ha la fortuna di poter trascrivere un'esperienza collettiva, è poco
adatta ad analizzare le sue proprie implicazioni statali, nel momento in cui
dichiara di voler fare un discorso sullo stato".
Il passaggio da una società eterogestita ad una autogestita, esige
l'abolizione dello stato, la sua distruzione. E la trasformazione del tempo
dell'utopia in tempo della storia esige, a sua volta, un momento
insurrezionale e collettivo, la rottura rivoluzionaria. Essa non sarà né
apocalittica, né escatologica, e non si realizzerà né in un'aurora né in una
notte - né l'aurora sociale né il Gran Giorno -; sarà, se ci sarà, un vasto
processo di trasformazione sociale, ma il momento, il passaggio è un salto
di qualità.
Mentre un tal compagno fruga nella tua coscienza - o nel tuo inconscio - e
rimosso in qualche angolo oscuro troverà il giacobino, Bakunin restò ribelle
per tutta la vita, ma potè teorizzare l'anarchismo solo con l'esperienza
della Prima Internazionale. "Gli analizzatori dello stato appaiono nelle
lotte antistatali".
Analizzare lo stato significa cominciare il lavoro della sua distruzione.
Per una ragione o per l'altra, non è sempre possibile, in virtù della sola
volontà di gruppi o individui, fare un'analisi sociale in atto, cioè
costruire e partecipare a uno di quei momenti privilegiati della storia nei
quali la comprensione teorica delle relazioni sociali si accompagna
all'azione che le modifica. Quando le masse si mettono all'opera, la
superficie liscia della realtà statale si fessura, e lascia sfuggire
situazioni inedite. Ma le masse non sono sempre disponibili per la
rivoluzione. E non esistono sempre e dovunque come potenzialità
rivoluzionaria, ma come un'infinità di egoismi particolari e collettivi, di
conflitti di interessi prodotti dalla società gerarchica. "Non c'è il
popolo, omogeneo, ma folle varie, categorie. Non c'è la volontà
rivoluzionaria delle masse, ma momenti rivoluzionari, nei quali le masse
sono enormi leve".
E Berneri avverte: "... è nelle tendenze conservatrici delle masse il
pericolo maggiore dell'arresto e delle deviazioni della rivoluzione (...)".
NOTE
(1) "Non si può permettere alla classe operaia - dice Trotsky - di
andare a spasso per tutta la Russia. Bisogna dire agli operai dove devono
stare, spostarli e dirigerli, come dei soldati (...) I "disertori" del
lavoro devono venir incorporati in battaglioni di disciplina, o messi in
campi di concentramento". Les Bolcheviks et le contrôle ouvrier,
Autogestion et Socialisme. N° 24/25, 1973, Paris, p. 150.
(2) Esempio di "condensazione" frutto della colonizzazione marxista
delle sinistre. L'immagine della vecchia talpa che fa il suo lavoro
sotterraneo, venne utilizzata - oltre che da Marx - da Bakunin nel 1842. In
entrambi i casi è stata tolta da Hegel, che ne riconosce la paternità a
Shakespeare (Amleto, Scena V, Atto I).