Quando la Cia a(r)mava Bin Laden

 Questa è la presentazione di Piero Brunello.

John K. Cooley;UNA GUERRA EMPIA [2001] / 400 pp. / € 18,08

 

John Cooley è un giornalista americano e lavora per la ABC News. Questo libro (Una guerra empia. La Cia e l’estremismo islamico, Elèuthera, Milano 2000, pp. 399, L. 35.000) è stato pubblicato a Londra nel 1999 con il titolo Guerre empie. Afganistan, America e terrorismo internazionale: le “guerre empie” sono le “guerre sante” condotte – così viene dichiarato – in nome dell’Islam (1).
Il libro si apre con una citazione da Il Principe di Machiavelli, dove si dice che “l’arme mercenarie sono inutile e periculose”. Così si entra nell’argomento del libro: quando nel 1979 l’Unione Sovietica invase l’Afganistan, gli Stati Uniti promossero una “guerra santa”, e reclutarono a tale scopo nel mondo islamico 250mila mercenari, i quali, dopo avere respinto l’invasione sovietica, diedero vita a un terrorismo su scala mondiale, in primo luogo contro gli Stati Uniti.
L’alleanza promossa dagli Stati Uniti era formata da “alcuni tra i più reazionari e fanatici esponenti dell’Islam” (p. 13), e cioè la dittatura militare pakistana e il governo dell’Arabia Saudita. Alla coalizione aderirono la Cina (p. 111) e il governo inglese della Thatcher (p. 152). Inoltre sarebbe stato “fondamentale” il ruolo di Israele, ma non ci sono prove (p. 64).
Funzionari della Cia e ufficiali pakistani addestrarono i mercenari che l’A. chiama “islamisti” e non “fondamentalisti”, termine che giudica “logoro e impreciso” (p. 14). Il reclutamento fu delegato a enti religiosi o filantropici musulmani (p. 138). Furono aperte a tale scopo scuole religiose islamiche (p. 139). In un primo tempo la consegna delle armi era fatta in segreto (p. 94), ma nel 1984-85 c’è una autorizzazione del Congresso statunitense per la consegna ai combattenti afgani “dei micidiali missili Stinger” (p. 180). La Cia trasportava con aerei americani armi egiziane in Pakistan, affidandole all’esercito locale, che le distribuiva “con bella percentuale di sprechi e di corruzione” (p. 67). Per scampare alla guerra, da due terzi a metà degli abitanti afgani si rifugiarono in Pakistan o in altri paesi; Kabul fu ridotta ad ammassi di rovine.
I mercenari erano pagati bene, da 100 a 300 dollari al mese: “somme enormi” per gli standard dei loro paesi (p. 177). I fondi destinati agli islamisti passavano attraverso società di comodo con sede in Svizzera, Francia, Stati Uniti (p. 203). Nel primo anno di occupazione sovietica il giornalista americano Bob Woodward parla di cento milioni di dollari destinati ai guerriglieri antisovietici (p. 179); altrettanto denaro era fornito dal regno saudita; infine “si aggiungevano i milioni di dollari provenienti dai patrimoni arabi privati” (p. 182). Bin Laden, apparve ai sauditi e alla Cia il leader ideale (p. 194), e aprì un ufficio a Londra (p. 201).
La guerra in Afganistan diede “un impulso decisivo” al “mostruoso e redditizio business internazionale” del traffico di droga (p. 209). La droga sequestrata negli Stati Uniti – eroina, cocaina – veniva venduta ai soldati russi, e di lì nella società russa. Da allora la tossicodipendenza si è diffusa fino a raggiungere “proporzioni gigantesche” nella società postsovietica (pp. 210-211). I mujahedin afgani aumentarono la produzione di droga per comprare armi (pp. 215, 226). Inoltre missili Stinger americani finirono nelle mani dei “contrabbandieri di droga che intendevano così eliminare gli elicotteri che ostacolavano i loro traffici” (p. 281). Nel 1999 l’Afganistan risulta il primo paese produttore d’oppio (p. 225).

2. Sconfitta l’Unione Sovietica nel 1989, i reduci dalla guerra in Afganistan portarono le “guerre empie” in altre parti del mondo.
In Algeria furono veterani dell’Afganistan “armati e ben addestrati, a istigare, scatenare e guidare le prime azioni terroristiche e di guerriglia delle milizie islamiche” (p. 21): tra il 1992 e il 1998 furono uccise 100.000 persone.
Il terrorismo, compiuto da mercenari afgani, cominciò a colpire la provincia dello Xinijang, in Cina, abitata da popolazioni musulmane (p. 111).
Nella regione indiana del Kashmir, guerriglieri che avevano combattuto nella guerra afgana, appoggiati dai servizi segreti pakistani, diedero il via a un piano terroristico volto alla secessione dall’India (p. 22). Crebbero i conflitti sanguinosi tra indù e musulmani. Nel marzo 1993 le bombe a Bombay, capitale finanziaria dell’India (“un parallelo interessante con l’obiettivo del World Trade Center, nel centro finanziario di New York”, osserva Cooley) fecero in India oltre 300 morti e circa 1.200 feriti (pp. 373-374).
Nel 1994 fallì un piano dei terroristi islamisti che agivano nelle Filippine, per impadronirsi nello stesso giorno di 11 aerei americani nel Pacifico (p. 377).
Fu un terrorista egiziano, addestrato nella guerra afgana, a dirigere l’uccisione di 58 turisti stranieri a Luxor, in Egitto, nel 1997 (p. 299)
Infine, il terrorismo “si muove ora all’attacco degli Stati Uniti” (p. 22). Le bombe al World Trade Center del 26 febbraio 1993, fecero sei vittime e migliaia di feriti. Molti responsabili erano stati addestrati dalla Cia (p. 356); la bomba, che aprì un cratere di 65 metri, “risultò composta di nitrato di ammonio e nafta, come da manuali della Cia”, di cui alcune copie “furono trovate in possesso dei cospiratori” (p. 381). Dopo questo inizio, un piano “prevedeva di distruggere almeno undici aerei di linea americano in un sol giorno” (pp. 22-23).
Nell’estate del 1998, bombe scoppiarono nelle zone vicino alle ambasciate americane di Nairobi e di Dar-es-Salaam. Ci furono più di 200 morti e oltre 4.500 feriti (p. 351). Gli Usa bombardarono i campi di Usama bin Laden in Afganistan, progettati dalla Cia e dai servizi segreti pakistani, e una fabbrica in Sudan, accusata di produrre materiale bellico: dopo molte proteste nei paesi arabi, giornali come il “New York Times” e il “Washington Post” ammisero che si trattava di una fabbrica di medicinali (pp. 353-354).
Alla fine del secolo, scrive Cooley, “i responsabili di gran parte del terrorismo politico postbellico in Occidente non sono tanto governi criminali quanto magnati privati”; questa “privatizzazione strisciante” della guerra “fu il frutto dell’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti” (p. 183). Tra questi “magnati” spicca la figura di Usama bin Laden, a cui Cooley sembra attribuire un ruolo di primo piano, a differenza di altri osservatori. Prima dell’attacco alle Twin Towers, alcuni ritenevano infatti che bin Laden fosse diventato “al di là delle azioni che gli vengono attribuite, la star di fiction hollywoodiana planetaria, dove recita nel ruolo del bad guy, garantendo il successo dei programmi televisivi, riviste, libri e siti web a lui dedicati, e servendo da giustificazione ad alcune scene politiche americane” (2).

3. Le fonti di informazione di Cooley sono uomini politici, studiosi, giornalisti, funzionari di ambasciata. Non sempre, come spiega nei Ringraziamenti, l’autore può riportare i nomi.
La parte del volume che si basa su documentazione di prima mano, riguarda il coinvolgimento statunitense nella guerra in Afganistan, che tutti gli osservatori sottovalutano. Altre parti del libro utilizzano invece inchieste e studi esistenti, verso cui l’A. dimostra gratitudine e ammirazione. La storia del traffico di droga per esempio, scrive Cooley, è “quasi sconosciuta salvo a due tre intraprendenti scrittori europei che hanno letteralmente rischiato la vita per conoscerla” (p. 226).

4. Il senso di questo libro si capisce meglio pensando al teatro. La politica, così come ci viene presentata dai media, si svolge sulla scena. Cooley invece indaga nel retroscena. Faccio un solo esempio, riferendomi al mondo occidentale. Nel 1982 la Cia fu esonerata – in segreto – dall’obbligo di denunciare il contrabbando di droga da parte dei suoi funzionari (p. 218). La Cia copriva il traffico di droga da parte dei contras in Nicaragua e cominciava a fare la stessa cosa in Afganistan. Sempre in quell’anno il compito di promuovere le campagne antidroga negli Usa venne sottratto alla Dea (l’agenzia americana contro la droga), divenuta un intralcio, e affidato all’FBI. Tutto questo si svolge nel retroscena. Invece sulla scena vediamo comparire la moglie del presidente Reagan e annunciare “una sua personale crociata, rivolgendosi soprattutto ai giovani americani con lo slogan «Diciamo no alla droga» (p. 219). Sul palcoscenico può andare in scena una farsa, come in questo caso; oppure una tragedia, se pensiamo all’enorme incremento delle tossicodipendenze in Pakistan (pp. 245-246), in Unione Sovietica, negli Stati Uniti.
Sulla scena i protagonisti sono due, contrapposti: un maschio adulto occidentale e un maschio adulto musulmano. Nel retroscena – considerando solo i maschi adulti – le parti sono mescolate. Anche qui, un solo esempio. Chi dirigeva la Bank of Credit and Commerce International, una delle banche che ha finanziato la guerra afgana, era uno sceicco, era amico di Carter e aveva stretti rapporti con la Thatcher; la banca aveva conti segreti in Svizzera, Londra, Miami (p. 187).
La politica che si svolge sulla scena fa appello a valori che nel retroscena vengono calpestati. Non è argomento del libro spiegare in che modo “guerre empie” – guidate da uomini d’affari, narcotrafficanti e dittatori appoggiati fino a ieri dagli Stati Uniti – possano essere vissute nei paesi musulmani o nelle comunità immigrate in Occidente come “guerre sante”. Per quanto riguarda i paesi occidentali, i governi ignorano i principi di democrazia e di libertà sui quali chiedono il consenso. Le scelte politiche decisive sono prese in segreto da apparati militari e finanziari.
 

5. Come tutti i discorsi che si ispirano a Machiavelli, e che analizzano le azioni politiche sulla base della loro efficacia rispetto alla conservazione o alla perdita del potere, le pagine di Cooley possono svelare i crimini su cui si fondano i governi, oppure possono essere consigli al Principe. Nell’Introduzione all’edizione italiana, scritta nel marzo del 2000, Cooley scrive infatti che “il mondo dovrà subire tragedie ancora peggiori se gli Stati Uniti e il resto del mondo occidentale, nel ventunesimo secolo, non saranno più cauti nella scelta degli alleati”. Soprattutto – aggiunge – , non si dovrà sostituire l’Islam al comunismo quale “avversario diabolico che deve essere sconfitto” (p. 24).
L’autore non si chiede come la “guerra santa”, cresciuta dopo la scomparsa del messianismo socialista e del nazionalismo arabo, possa esprimere e mobilitare la rivolta contro l’imperialismo americano e occidentale, né come possa dare risposte al vuoto culturale provocato dai modelli occidentali di modernizzazione, e neppure come possa rientrare nelle strategie di Stati “non occidentali”. L’argomento del libro restano le alleanze militari degli Stati Uniti.
Ma da che punto di vista queste alleanze possono essere considerate un errore? Su che base si dà per scontato che “il resto del mondo occidentale” debba appoggiare la politica americana? E basterà nel futuro una maggiore cautela nella scelta degli alleati “non occidentali”? La “guerra santa” in Afganistan appare essere stata un aspetto di una politica più generale: dai bombardamenti e dall’embargo sull’Irak, al sostegno ai regimi reazionari arabi, al veto nei confronti delle risoluzioni dell’Onu sulla questione palestinese, per arrivare al controllo economico e militare delle aree petrolifere.
Il libro di Cooley dimostra che la retorica messa in scena nei paesi occidentali nel corso della “guerra santa” contro i sovietici in Afghanistan ha poco a che vedere con gli obiettivi perseguiti realmente. Leggendo il libro dopo l’attacco alle Torri di New York, e mentre continuano i bombardamenti sull’Afganistan, ci si chiede quali sono gli obiettivi che contano nel retroscena della nuova “guerra giusta”.

 Piero Brunello

 

Note

1. Non userò il termine “jihad”, che a detta degli studiosi non può essere tradotto con “guerra santa”.
2. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma 2001, p. 359. Secondo Kepel l’islamismo, in declino alla fine del secolo, è destinato a sfaldarsi rapidamente perché non riesce a tenere insieme le diverse classi e i diversi settori della società che aveva coagulato (pp. 11-19).