di Camillo
Berneri
Il testo della
famosa lettera che Berneri scrisse a Rivoluzione Liberale, la rivista di P.
Gobetti.
Caro Gobetti,
m'è accaduto più volte, trovandomi
a discutere delle mie idee con persone colte, di dover constatare, per le
domande rivoltemi e per le obbiezioni mossemi, che il movimento anarchico, che
pure fa parte, e non piccola, della storia del socialismo, è o semi-ignorato o
malamente conosciuto. Non mi sono, quindi, stupito, leggendo l'articolo del
prof. Gaetano Mosca sul materialismo storico, nel vedere annoverato tra i
socialisti utopisti il Proudhon, che rimarrebbe mortificato nel vedersi posto a
braccetto con quel Blanc, che egli saettò con la più aspra ironia per aver posto
"l'Eguaglianza a sinistra, la Libertà a destra e la Fratellanza in mezzo, come
il Cristo fra il buono e il cattivo ladrone".
Per escludere il Proudhon
dagli scodellatori della zuppa comunista, basterebbe la critica alla formula,
che divenne poi il credo Krapotkintano "da ciascuno secondo le sue forze ed a
ciascuno secondo i suoi bisogni", formula che egli chiama una casuistica
avvocatesca, poiché non vede chi potrà fare la valutazione delle capacità e chi
sarà giudice dei bisogni. (Cfr. L'Idée générale de la Révolution au dix-neuviéme
siécle. - Garnier, Paris, 1851, p. 108).
L'errore in cui è caduto il
Mosca è interessante, poiché dimostra come sia sfuggito a molti studiosi della
storia del socialismo questa verità: che il collettivismo dell'Internazionale
ebbe un valore essenzialmente critico. Fatto che è stato negato anche da alcuni
anarchici, come da L. Fabbri, che sostiene essere l'anarchismo "tradizionalmente
e storicamente socialista" in quanto ha per base della sua dottrina economica
"la sostituzione della proprietà socializzata alla proprietà individuale" (cfr.
Lettere ad un socialista; Pensiero - 1910, n. 14, p. 213).
Basta una
rapida scorsa alla storia della Iª Internazionale per smentire questa
affermazione. L'Internazionale nacque in Francia, nell'atmosfera ideologica del
mutualismo proudhoniano, e, come dice Marx in una sua lettera relativa al
Congresso di Ginevra (1866), non aveva, nel suo primo tempo, espressa alcuna
idea collettivista né comunista. Il rapporto Longuet nel Congresso di Losanna
(1867) dimostra che Proudhon dominava ancora. E tale dominio si riscontra nel
Congresso di Bruxelles (1868), in cui, tuttavia, si affacciò l'idea
collettivista, ma in modo generico e limitata alla proprietà fondiaria e alle
vie di comunicazione. La collettivizzazione affermata nel IV Congresso, quello
di Basilea (1869), fu limitata al suolo. L'influenza praudhoniana, dunque, è
parallela all'anti-comunismo e all'anti-collettivismo.
Al collettivismo
aderirono Bakounine e seguaci; ma vedendo in esso più che un progetto di forma
economica, una formula di negazione della proprietà capitalista. Bakounine era
entusiasta di Proudhon. Egli (Cfr. Oeuvres, I, 13-26-29) esalta il liberismo
nord-americano [non erano ancora sorti i trusts], e dice "La libertà
dell'industria e del commercio è certamente una gran cosa, ed è una delle basi
essenziali della futura alleanza internazionale fra tutti i popoli del mondo". E
ancora: "I paesi d'Europa ove il commercio e l'industria godono comparativamente
della più grande libertà, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo".
L'entusiasmo per il liberismo non gli impedisce di riconoscere che fino a quando
esisteranno i governi accentrati e il lavoro sarà servo del capitale "la libertà
economica non sarà direttamente vantaggiosa che alla borghesia". In quel
direttamente vi è una seconda riserva. Infatti egli vedeva nella libertà
economica una molla di azione per la classe borghese, che egli afferma essere
ingiusto considerare estranea al lavoro (Cfr. Oeuvres, I, pp. 30 e segg.), e non
poteva non riconoscere la funzione storica del capitalismo attivo. Interessanti
sono anche i motivi delle simpatie del B. per il liberalismo nord-americano,
poiché ci spiegano che cosa egli intendesse per proprietà.
Il B. fa
presente che il sistema liberista nord-americano "attira ogni anno centinaia di
migliaia di coloni energici, industriosi ed intelligenti", e non si impressiona
punto all'idea che costoro divengano, o tentino divenire, proprietari.
Anzi, si compiace che vi siano coloni che emigrano nel Far West e vi
dissodino la terra, dopo essersela appropriata, e nota che "la presenza di terre
libere e la possibilità per l'operaio di diventare proprietario, mantiene i
salari ad una notevole altezza ed assicura l'indipendenza del lavoratore" (Cfr.
Oeuvres, I, 29).
La concezione del valore energetico della proprietà,
frutto del proprio lavoro, è la nota fondamentale della ideologia economica del
B. e dei suoi più diretti seguaci. Tra questi Adhémar Schwitzguébel, che nei
suoi scritti (Cfr. Quelques écrits, a cura di J. Guillaume, Stock, Paris, pagina
40 e seguenti) sostiene che l'espropriazione rivoluzionaria deve tendere a
concedere ad ogni produttore il capitale necessario a far valere il suo lavoro.
La dimostrazione storica dell'anti-comunismo bakunista sta nel fatto che le
tendenze comuniste nell'Internazionale italiana trionfarono nel 1867, quando
l'attività del Bakounine era quasi interamente sospesa (Cfr. Introd. del
Guillaume alle Oeuvres de B., p. XX) e nel fatto che in Spagna, ove l'Alleanza
aveva piantato profonde radici, perdura una corrente anarchica collettivista in
senso bakunista.
Se il collettivismo dell'Internazionale fosse stato
compreso dal Mazzini non ci sarebbe stato il fenomeno della sua critica
anti-comunista. Così criticava il Mazzini: "L'Internazionale è la negazione di
ogni proprietà individuale, cioè di ogni stimolo alla produzione... Chi lavora e
produce, ha diritto ai frutti del suo lavoro: in ciò risiede il diritto di
proprietà... Bisogna tendere alla creazione d'un ordine di cose in cui la
proprietà non possa più diventare un monopolio, e non provenga nel futuro che
dal lavoro". Saverio Friscia, nella "Risposta di un internazionalista a
Mazzini", (pubblicata sopra il giornale bakunista L'Eguaglianza di Girgenti, e
ripubblicata dal Guillaume, che la trova superba e l'approva toto corde [Cfr.
Oeavres de B., vol. VI, pp, 137-140]) rispondeva: "Il socialismo non ha ancora
detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale. Come lo
potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo,
per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su
ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l'assioma "chi lavora ha diritto ai
frutti del suo lavoro", costituisce una delle basi fondamentali delle nuove
teorie sociali?". E dopo aver analizzato le critiche del Mazzini, esclama: "Ma
non è questo del puro socialismo? Che cosa volevano Leroux e Proudhon, Marx e
Bakunin, se non che la proprietà sia il frutto del lavoro? E il principio che
ogni uomo deve essere retribuito in proporzione alle sue opere, non risponde
forse a quell'ineguaglianza di attitudini e di forze ove il socialismo vede la
base dell'eguaglianza e della solidarietà umana?".
In questa risposta del Friscia è netta
l'opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni;
il principio dell'eguaglianza relativa (economica); ed in fine il principio
dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata,
automaticamente, alle opere.
Non pensi, caro Gobetti, che potrebbe
essere utile, su R. L., una serie di studi sul liberalismo economico nel
socialismo? Credo colmerebbe una grande lacuna e leverebbe di mezzo molti e
vecchi equivoci. Credo ne risulterebbe, fra le tante cose interessanti, questa
verità storica: essere stati gli anarchici, in seno all'Internazionale,
i liberali del socialismo. Storicamente, cioè nella loro funzione di critica e
di opposizione al comunismo autoritario e centralizzatore, lo sono
tutt'ora.
Tuo C.
BERNERI.