DA UNA LETTERA AD A RIVISTA ANARCHICA
Cari compagni di "A",
nell'introduzione a "Intervista a Luce Fabbri" del numero dell'ottobre
scorso della rivista (introduzione così lusinghiera per me e così piena di
spirito fraterno), si esprime un fondamentale accordo sui punti
dell'intervista che più mi stanno a cuore e, com'è naturale in un movimento
in cui le teste non sono fatte in serie, alcuni dissensi, su cui si dichiara
utile uno scambio d'idee. Mi sembra mio dovere raccogliere l'invito; d'altra
parte mi interessa chiarire alcune affermazioni mie che, in una visione così
panoramica, per forza dovevano avere un carattere generico che può dar luogo
ad equivoci.
Comincio dall'obiezione che mi sembra più grave, su un problema veramente
inquietante. Dice l'autore del prologo che io raccomando "una strategia di
difesa delle istituzioni democratiche (veramente io non parlavo di
"istituzioni", ma globalmente di democrazia: è una sfumatura, ma importa),
che l'anarchismo ha invece il compito di demistificare". Evidentemente, io
ho buttato lì un concetto polemico, quasi sfidante, come se fosse ovvio,
senza una riga di spiegazione. E l'obiezione è quindi logica ed era
prevedibile. Ma in ogni modo, in quell'"invece", mi sembra ci sia quel che
si chiama un sofisma di falsa opposizione. Non c'è contraddizione tra il
demistificare la democrazia borghese, dimostrandone da una parte
l'insufficienza come barriera contro il totalitarismo e dall'altra il suo
carattere poco democratico, avversandola nel senso d'una maggior libertà e
svelandone il carattere classista, e nello stesso tempo opporsi nel suo seno
alle sue degenerazioni totalitarie, e difendere contro il nemico totalitario
gli spazi che essa mantiene aperti. Sono due lotte differenti, da combattere
con animo e metodi diversi.
Uno dei nostri compiti è senza dubbio quello di sgonfiare il mito della
democrazia borghese (insisto sull'aggettivo, ambiguo, ma in questo caso
necessario). Però tale compito è ben lungi dall'essere il principale. Molto
più importante è operare al suo interno, rinforzandone l'aspetto liberale di
rispetto delle autonomie, dei diritti delle minoranze entro il dominio d'una
maggioranza che spesso non è neppure reale, sviluppando i germi libertari
insiti nel postulato basico del sistema democratico: governo del popolo,
cioè autogoverno, al limite (come tendenza logicamente implicita)
non-governo, contro il nuovo tipo d'assolutismo - basato forse presto
sull'energia nucleare - che ci minaccia.
Un tempo sì tale compito di demistificazione era per il movimento anarchico
il principale. Negli anni che vanno dalla guerra del 1870 (fine del
bonapartismo) alla guerra del '14, punto di partenza dell'incubo
totalitario, periodo eccezionale, ch'è rimasto nella mente dell'uomo comune
come il modello della "normalità", era ben necessario mostrare quanto bacata
fosse quella normalità, mostrare l'ipocrisia di quel tran-tran "democratico"
che pure aveva le sue radici in un passato di lotte generose. Quanta fame
ingiusta in quella "uguaglianza davanti alla legge"! Quanti diritti
conquistati solo sulla carta! Che tirannia, a volte, quella della "metà più
uno" vincente in una elezione! In quella libertà incompleta e spesso solo
formale, i trafficanti di armi preparavano la guerra; e una borghesia che
sentiva in pericolo il suo predominio, per il fatto che gli stessi diritti
che essa aveva conquistati con l'aiuto del popolo per sé e i propri capitali
servivano sempre più all'ascesa della classe operaia, era disposta ad
entrare nel bagno di sangue perché tale ascesa s'interrompesse. Allora,
quando il socialismo legalitario s'impantanava in parlamento, era compito
precipuo degli anarchici "demistificare la democrazia". Anzi, tale
demistificazione era parte della lotta contro le minacce di guerra.
Poi, la guerra, la rivoluzione russa, il fascismo hanno spostato tutti i
pezzi sulla scacchiera. La democrazia, che era stata conquista delle classi
socialmente inferiori a partire dal 1789 e che era stata monopolizzata e
sostanzialmente falsata dalla nuova classe dirigente borghese e capitalista
(che aveva identificato liberalismo e liberismo), veniva attaccata ora in
occidente da quella stessa classe privilegiata, anchilosata nei suoi
privilegi. Intanto, nell'oriente europeo, una vecchia autocrazia crollava ad
opera della rivoluzione ed era sostituita, ad opera della controrivoluzione,
da una realtà nuova, un autocrazia di partito che instaurava, con un salto
al di sopra del secolo XIX, un capitalismo di stato attraverso
un'organizzazione di tipo incaico con caratteristiche teocratiche e con il
magico nome di socialismo, ch'era stato, anche in occidente, la bandiera di
lotta del proletariato contro la pseudodemocrazia capitalista. Mussolini
parlava dello "stupido secolo decimonono" e voleva passare col suo cocchio
trionfale sul "cadavere putrefatto della libertà". Stalin ha fatto della
libertà quello che ha fatto. Hitler, nel mezzo, ha portato a una perfezione
emblematica e sanguinosa il processo. La seconda fase del fascismo, quella
che s'è chiamata totalitaria, ha abbandonato la bandiera della libera
impresa - screditata dalla crisi economica - per adottare quella dello stato
tendenzialmente padrone di tutto, con l'annuenza della vecchia classe
dirigente per la cui difesa era sorto e che si rassegnava al cambiamento di
struttura pur di non scendere nella gerarchia sociale. Era quando il vecchio
Olivetti diceva: Io so bene che molti industriali in questi momenti di
difficoltà e ostacoli cambierebbero volentieri la loro situazione di capi
d'impresa con la situazione di semplici funzionari, senza il rischio dei
fallimenti e con la sicurezza d'un appoggio esterno nei casi difficili.
(Ritraduco dallo spagnolo d'una citazione che si trova a p.172 del mio libro
sul fascismo "Camisas negras" - Ed. Nervio, B.Aires, 1934. Le parole dell'on.
Olivetti sono del 20-XI-1933).
E infatti questo fu il modo in cui il fascismo, attraverso l'IRI (Istituto
di Ricostruzione Industriale), s'avviava a cercar di risolvere in Italia la
crisi capitalista che s'era iniziata sul piano mondiale col crack del 1929.
Allora, nel mio libro sostenevo che, non avendo potuto salvare il
capitalismo, il fascismo si trasformava nello strumento della sua eutanasia.
In quel momento tutti, capitalisti compresi, pensavano che la crisi non
fosse "nel sistema", ma "del sistema". Dopo mi sono accorta che allora
(1934) io davo ancora troppa importanza agli aspetti economici del processo
in corso (che in parte furono modificati e in parte accentuati dagli
avvenimenti posteriori) e che essi non erano che una delle manifestazioni
del rapporto fondamentale tra gli individui e i gruppi sociali, ch'è
essenzialmente un rapporto politico, un rapporto di potere. E questo ho
sostenuto in quanto ho scritto sul fascismo dopo la guerra. Per questo gli
impresari del 1933 erano disposti a diventare alti funzionari dello stato
totalitario in gestazione: perdevano la "proprietà", ma conservavano il
potere sugli operai e, indirettamente, sui consumatori, senza lasciar
d'esercitare, come tecnici dell'organizzazione dell'apparato produttivo, un
certo controllo sulle inversioni. Ma il vero trionfatore era lo stato, di
cui la vecchia classe egemonica entrava a formar parte burocratizzandosi.
L'involuzione burocratica e statolatra della rivoluzione russa seguiva,
partendo dall'altro estremo, un processo convergente, pur con una violenta
sostituzione di persone fisiche nella casta dirigente.
La sconfitta del nazi-fascismo, la distruzione di enormi ricchezze nella
guerra e il salto tecnologico hanno interrotto il processo, introducendovi
varianti notevoli, ma l'evoluzione verso una struttura tecnoburocratica non
ha cessato il suo corso. I tentativi di frenare le attribuzioni dello stato
nel campo economico estendendole oltremisura nel campo politico oggi in atto
nell'America Latina da parte di regimi militari che si ispirano alle teorie
di Freidmann non riescono neppure - come si vede in Argentina - a frenare
l'inflazione e sembrano destinati al fallimento. Attraverso la maggiore
indipendenza dell'impresa privata s'introducono e tendono a spadroneggiare
le multinazionali, che sono in sé piccoli grandi stati, contraddistinti come
gli altri dalla caratteristica principale delle strutture totalitarie verso
cui tendono: l'identificazione del potere politico con l'economico.
Oggi come oggi, nella nuova distribuzione delle forze rispetto al mondo
anteriore al 1914 (così lontano, ma che è il mondo dei nostri maggiori
teorici), è cambiata la gerarchia reciproca dei vari fattori. Han perso
importanza i parlamenti, che vengono rovesciati appena disturbano o che
funzionano senza svegliare interesse od ottenere credibilità; han perso
importanza le frontiere - pur così gelosamente difese -, giacché i governi
non ne tengono conto nella persecuzione dei loro avversari (a cominciare
dalle "esecuzioni" di Trotzky e dei fratelli Rosselli, fino ai bombardamenti
israeliani nel Libano e agli "ukases" di Gheddafi o Komeini contro
concittadini residenti in qualunque paese) e questi ultimi hanno le loro
basi in un paese per lottare in un altro, mentre sono i governi stessi che
cercano di trasformare i loro conflitti reciproci (che spesso non sono che
strumenti di dominio interno) in lotte orizzontali di classe, talché un
eventuale conflitto tra la Russia e gli Stati Uniti sarebbe presentato dalla
Russia come una lotta del proletariato internazionale contro il capitalismo
altrettanto internazionale, e dagli Stati Uniti come la difesa della libertà
contro il despotismo. Il fattore nazionale vi avrebbe pochissima parte. Solo
i popoli invasi lo sentirebbero spontaneamente. Questo s'è verificato del
resto, in parte, anche nell'ultima guerra. Allo stesso modo ha perso
importanza la diplomazia, i cui tradizionali privilegi non sono rispettati,
non dico dai privati, ma nemmeno dai governi (Iran), tanto che il mestiere
del diplomatico è diventato uno dei più pericolosi. In zone confinanti con
questa, lo spionaggio e controspionaggio intergovernativi, le formazioni
paramilitari e parapoliziesche e le guerriglie di destra e di sinistra si
scambiano metodi e armi e si mimetizzano reciprocamente. La legalità non è
osservata da nessuno dei grandi stati, da nessuno dei grandi monopoli.
Nella selva selvaggia in cui si sta trasformando il mondo, s'impone un nuovo
ordine di priorità. L'eredità ideale del 1789 ha ricuperato un significato
ad opera della spinta totalitaria che la minaccia, e vale più di prima la
pena d'andare a cercare negli enciclopedisti del sec. XVIII le nostre radici
(Ci sono sempre state, ma non importava). Noi tendiamo a una democrazia
diretta, senza rappresentanze e con un minimo di deleghe revocabili, basata
su patti fra gli interessati e articolata federativamente, cioè con nessi
coordinativi e non subordinativi. Ma la distanza che ci separa da un
socialista democratico sincero, che accetta il sistema rappresentativo è
infinitamente minore di quella che sta fra coloro che amano la libertà e chi
vuol instaurare un regime assoluto, in cui lo stato, cioè la nuova casta dei
dominatori, gestisca la società dirigendo a bacchetta una moltitudine di
schiavi, privi non solo del controllo sul proprio pane, ma anche del diritto
di riunirsi e di parlare. Tale stato domani può adoperare la genetica per
fabbricarsi robots umani o far carceri nei satelliti per i dissidenti o
utilizzare le masse sottomesse come riserve d'organi per trapianti a
beneficio della casta privilegiata. Dopo Hitler, niente può sorprenderci. Di
fronte al pericolo totalitario è imperioso difendere, non l'esistente, ma,
all'interno di ciò che esiste, quegli elementi che possono essere punti di
partenza o condizioni favorevoli per sviluppi - rivoluzionari o no, secondo
i momenti - in senso libertario.
Qualche esempio. In Spagna, nel 1936, nell'imminenza del colpo di mano
franchista, il problema importante non era se votare o non votare, ma come
prepararsi a sconfiggere un tentativo che si sapeva appoggiato dal
nazifascismo e che avrebbe spazzato via, con l'inutile parlamento, anche
quelle libertà così duramente conquistate che il sistema democratico lascia
sussistere, sia pur imperfettamente, e che permettono d'andare plasmando in
vari modi il futuro, alla base, partendo dalle comunità, dai sindacati,
dalle scuole, dai gruppi, dai quartieri, dalle case, dall'intimo delle
coscienze. Non era il caso di votare, ma neppure di perdere troppo tempo
nella propaganda astensionista.
Ricordo in Italia, alla vigilia della marcia su Roma: il violento spirito
antidemocratico dei fascisti adoperava spesso un vocabolario che facilmente
si poteva confondere con la nostra "demistificazione della democrazia". Il
contributo che gli anarchici han dato all'ingrossamento delle file fasciste
è stato scarsissimo in confronto con quello dato dai socialisti massimalisti
e dai sindacalisti. Ma i casi che ci sono stati sono tutti da mettere in
rapporto con quella consonanza degli opposti. Un esempio: il caso del ras
bolognese Arpinati, che partiva dall'anarchismo individualista e che è
diventato capo degli squadristi senza cambiare molto il suo linguaggio.
Prima che si definisse il fenomeno totalitario, si confondevano i due
estremi: una antidemocrazia aristocratica, il cui assolutismo si vestiva di
D'Annunzio e di Nietzsche, e una antidemocrazia libertaria che non rinnegava
lo sforzo del 1789, ma lo voleva completare e superare e ne denunciava il
travisamento.
I fatti han reso sempre più evidente che la democrazia, così duramente e
pericolosamente attaccata proprio in quello che ha di più aperto verso il
futuro da forze assai più potenti, che nel momento decisivo sempre han
l'appoggio dei privilegiati, è una debole trincea contro il nemico, ch'è
anche il nostro, appunto per quello che ha di falso, per la poca
rappresentatività dei suoi rappresentanti, per la disuguaglianza sociale che
trasparisce sotto la vernice dell'uguaglianza giuridica, etc.. Ed è chiaro
che tanto più resisteremo contro il mostro totalitario quanto più riusciremo
a dare alle libertà democratiche un contenuto di giustizia sociale, quanto
più consolideremo, di fronte al prevalere d'una autentica e pretesa
maggioranza numerica i diritti delle minoranze, quanto più infonderemo nel
tessuto sociale lo spirito del mondo nuovo - che non è utopico - di
coordinazione e creatività alla base.
Qui s'inserisce naturalmente l'altra mia intima sicurezza che quanto più si
riesca a creare nel senso d'una società libertaria negli interstizi del
mondo di oggi, che solo esistono nelle pur corrotte democrazie, tanto meno
violento, cioè tanto meno autoritario sarà il movimento che avvii alle nuove
forme sociali verso cui tendiamo. Questo non vuol dire che non si lotti
contro lo stato in seno alle democrazie; e lottare contro lo stato vuol dire
in primo luogo demistificarne gl'ingranaggi. Ma la nostra lotta, in seno a
una democrazia oggi sempre esposta al pericolo totalitario, non deve perdere
di vista il nemico più potente, insito nello stato, ma controbilanciato, in
regime democratico, da una quantità di fattori centrifughi che mantengono
una tensione vitale, completamente assente in un paese in cui il
totalitarismo prevale. Quella tensione, che sopravvive nei regimi in varia
misura democratici, va difesa. Va difesa la possibilità di parlare, di
riunirsi, di creare, sempre di più. Non si tratta di rinunciare a nessun
fine, né di cedere spazi. Solo, io credo che, dove rumoreggia
sotterraneamente la minaccia fascista, la lotta va condotta di fronte, per
certe cose e contro certe altre, ma non sul terreno del terremoto generico e
del "tanto peggio, tanto meglio".
Nei momenti di grave minaccia, l'istinto di conservazione porta a volte da
solo a prendere la posizione giusta. In Spagna, nel 1936, si combattè il
fascismo e si fece la rivoluzione, ma questa prese come punto di
partenza la difesa delle libertà e dei diritti popolari di cui già si
godeva. Invece - do un esempio più remoto, ma, credo, indicativo - il 6
settembre 1931, quando ci fu a Buenos Aires il colpo di stato di Uriburu, la
FORA, organizzazione sindacale orientata dagli anarchici, sotto l'impero
d'una lunga abitudine di propaganda diretta soprattutto contro le
istituzioni democratiche, si è rifiutata in un primo momento di prendere
posizione, mettendo sullo stesso piano il governo "democratico" di Irigoyen
e quello autocratico dei militari. E, malgrado le virgolette che si è
obbligati a mettere all'aggettivo "democratico", i risultati
dell'equiparazione furono disastrosi: fucilazioni, deportazioni a Usuhaia di
militanti argentini e in Italia e Spagna di militanti italiani e spagnoli,
distruzione completa d'un movimento sindacale potente, ch'era stato fino ad
allora capace d'immobilizzare all'istante tutta la capitale argentina....
Non è detto che uno sciopero generale immediato avrebbe salvata la
situazione, anche se le probabilità in quel senso erano forti. Ma, anche in
caso di sconfitta, si sarebbe salvato assai di più per il momento della
ripresa (la FORA non s'è più riavuta).
La Spagna ci ha insegnato molto da questo punto di vista. Tra l'altro ci ha
insegnato che, nel momento in cui i nodi vengono al pettine, o, se vogliamo,
nel momento in cui ogni potere è assente ed ogni cambiamento sembra
possibile, chi più influisce sugli avvenimenti è chi può assicurare la
continuità della vita materiale attraverso le turbolenze: di qui,
l'importanza di sindacati e cooperative, di qui la necessità di conoscere
tutti gli ingranaggi della complicatissima vita di oggi su piano locale: non
basta avere le fabbriche; bisogna saperle far funzionare, tecnicamente e
amministrativamente; non basta avere nelle mani i trasporti; bisogna
conoscerne i collegamenti, e così via. E bisogna avere, già prima, un'idea
di come migliorare queste attività da un punto di vista libertario,
compatibilmente con le possibilità e con il fatto che le "vacanze della
legalità" non sono mai sincronizzate nei vari paesi. (Questo è il punto più
scabroso, quello che relativizza tutti i processi di cambiamento di
struttura nel loro momento rivoluzionario, ma ci porterebbe ora fuori dal
nostro tema). In Spagna, il lavoro di studio e il progetto di una nuova
organizzazione erano stati fatti in qualche misura e non è mancato il pane e
i trasporti sono stati assicurati fin dal primo momento. Altro esempio,
modesto ma pertinente: qui nell'Uruguay, molto tempo fa, in momenti
difficilissimi (intorno al 1934), i tipografi della grande stampa
quotidiana, appoggiati dai giornalai, vinsero uno sciopero facendo uscire,
nel gran silenzio dei giornali, un magnifico quotidiano fatto da loro, senza
i direttori e anche senza i giornalisti, che s'erano buttati con
l'organizzazione padronale.
Sempre più il sapere e il saper fare diventa un'arma, in un mondo in cui il
numero in se stesso ha cessato d'essere una forza, anche nella guerra. Tutto
questo dà un valore anche pratico alla differenza che bisogna stabilire fra
la lotta contro un potere accentrato e autocratico e quella che si svolge
contro il governo e il capitalismo in un regime che, richiamandosi alla
democrazia, ammette in vario grado libertà e controllo. È quel "vario grado"
che bisogna difendere e accrescere. Per esempio, chi spara sulle gambe d'un
giornalista per quello che ha scritto il giorno prima o chi usa la
"ginnastica" dello sciopero come strumento per esasperare una situazione
senza sufficiente probabilità e capacità di cambiarla in senso positivo, fa,
in presenza delle forze totalitarie in agguato, un'opera obiettivamente
controrivoluzionaria. Questo era vero già nel 1921, quando mio padre
scriveva cose analoghe nel suo libretto "Controrivoluzione preventiva".
Credo di aver spiegato sufficientemente quello che intendevo con la frase
"difendere la democrazia" che ha suscitato la vostra obiezione. E scusate se
per farlo, ho occupato uno spazio eccessivo nella rivista. Rimando a una
prossima lettera il chiarimento delle altre due affermazioni obiettate. Ma
prima aspetterò che sia sufficientemente discusso questo punto che mi sembra
veramente essenziale, ma su cui il disaccordo, se pur c'è, non è certo
profondo.
Saluti cordialissimi.