Tradurre l’umano significa portare l’essere umano agli incroci...
Homi Bhabha
Le identificazioni che attraversano i confini dei
generi possono ridefinire corpi sessuati secondo
modalità variabili.
Judith Butler
I sistemi politici sono sempre inscritti nel
corpo.
Michael Warner
Monique
Wittig è stata, almeno per la mia generazione,
soprattutto un’assenza. Un’assenza che pesava tantissimo
perché il suo pensiero filosofico, che arrivava a
strappi, affascinava e inorgogliva, lasciava senza terra
sotto i piedi e dava l’impressione, subito dopo, che
fosse possibile l’assalto al cielo. II suo lavoro
teorico, le sue perentorie affermazioni “le lesbiche non
sono donne”, la leggenda della sua vita, dalla
fondazione del MLF francese con Antoinette Fouque e
altre, al deserto dell’Arizona dove è morta, l’hanno
resa una figura non facilmente collocabile (1).
La sua scrittura è bellissima, luminosa come un
assassinio che è una resurrezione. Criticata per la
violenza dei suoi romanzi – non femminili – ci ha
lasciato icone di un lesbismo sempre in metamorfosi, non
recuperabile su nessun piano.
L’Opoponax, Le guerrigliere, II
corpo lesbico, Virgile non, sono state le
tappe di un itinerario che dall’infanzia attraversa ogni
ribellione, senza rinunciare a quel sorriso che – come
ricordava Mary McCarthy – ci dice che in fondo
l’infanzia è sempre. Non è facile scrivere di Monique
Wittig perché non si può farlo separando la sua
filosofia del “lesbismo materialista” dalle sue opere
letterarie. “II corpo lesbico” che Wittig scrive non è
il corpo della donna, non è il corpo femminile, ma è “il
corpo lesbico” appunto, corpo che si è liberato dal
marchio linguistico dei generi. Ricorda Rosanna
Fiocchetto nell’introduzione a “Brogliaccio per un
dizionario delle amanti” ancora in cerca di
un’edizione italiana, che, per comprendere come in
Wittig (e altre) la politica diventi poetica, è molto
utile un numero della rivista francese “Questions
féministes” del febbraio 1978 in cui un gruppo di
studiose, in testa Colette Guillaumin, “revisionano il
materialismo marxista alla luce della più autentica
materialità delle classi sessuali”. L’analisi di
Guillaumin è seguita “dal racconto di Wittig “Un
jour mon prince viendra”, che ne è l’agghiacciante
e cruda trasposizione poetica, nella quale lo
sfruttamento dei corpi viene espresso allegoricamente
dalla cerimonia della mungitura” ( Rosanna Fiocchetto).
In “The Straight Mind and Other Essays” (1992)
Wittig raccoglierà i saggi teorici usciti in riviste
femministe, francesi e americane, negli anni settanta e
ottanta.
“Le lesbiche non sono
donne”
La sua critica all’eterosessualità obbligatoria sarà
una tappa fondamentale per i movimenti femministi e per
il movimento lesbico in America. Ancora oggi è
un’autrice importante e discussa nel movimento queer e
transgender. Fece scalpore la sua affermazione che “le
lesbiche non sono donne” perché se ciò che definisce una
donna nel contratto sociale eterosessuale è il suo
legame sessuale-economico-sociale con un uomo, quel che
ne consegue è che allora le lesbiche non sono più donne,
ma transfughe dalla categoria donne (dalla classe
sessuale), fuggiasche come gli schiavi che scappavano
dai padroni per essere liberi. Per Wittig “lesbica” era
l’unica categoria che conoscesse capace di sfuggire a
questo contratto sociale eterosessuale che è “un regime
politico” e perché “la relazione eterosessuale
costituisce il parametro di tutte le relazioni
gerarchiche” e perché “gli uomini e le donne sono
creazioni politiche prodotte per conferire un mandato
biologico ad accordi sociali in cui un gruppo di esseri
umani ne opprime un altro”. È cosi che “i rapporti tra
le persone sono sempre costruiti e la domanda da porsi
non è quali siano i più naturali, ma piuttosto quali
sono gli interessi tutelati da ciascuna costruzione”. La
guerra di Wittig alle categorie di differenza sessuale è
radicale: “non vi è nulla di ontologico nel concetto di
differenza; è solo il modo in cui i padroni interpretano
una situazione storica di dominio. La funzione della
differenza è di mascherare a tutti i livelli i conflitti
di interesse, compresi quelli ideologici.
Teresa De Lauretis scrive in “Soggetti eccentrici”,
che “la pratica cognitiva soggettiva di Wittig è una
riconcettualizzazione del soggetto, del rapporto tra
soggettività e socialità e della conoscenza stessa, da
una posizione che viene esperita come autonoma
dall’eterosessualità istituzionale e quindi eccede i
limiti del suo orizzonte discorsivo-concettuale”.
Monique Wittig, per De Lauretis (e non solo), vuole
quindi sì la scomparsa delle donne in quanto donne (cioè
classe), ma nello stesso tempo il noi di Wittig non si
riferisce a donne privilegiate (...). La società lesbica
non si riferisce a qualche collettività di donne
omosessuali, così come il termine lesbica non si
riferisce semplicemente a una donna lesbica. Sono invece
i termini concettuali, teorici, di una forma di
coscienza femminista che può esistere storicamente
soltanto nel qui e ora come coscienza di qualcosa
d’altro. Noi, lesbica, Mestiza e altra inappropriata
sono tutte figure di quella posizione critica che ho
cercato di far emergere e di riarticolare da vari testi
del femminismo contemporaneo: una posizione raggiunta
attraverso pratiche di dislocamento politico e
personale, attraversando i confini tra identità e
comunità socio-sessuali, tra corpi e discorsi. La
posizione di un soggetto eccentrico” (De Lauretis).
Mi sono spesso chiesta, come lesbica, come transgender –
né maschio né femmina, né uomo né donna (né/né), cosa
accadrebbe se rifiutassi di segnalare su un documento
alla dicitura sesso o la F o la M, ma scrivessi Altro o
Lesbica o Transgender. Probabilmente non avrei il
documento necessario e scatterebbe una denuncia. Infatti
“eterosessualità obbligatoria” è concetto che esula
dalla scelta sessuale personale e si configura
“istituzionalizzata, ha assunto il carattere normativo,
sistematico e astratto (ossia astraibile dall’agire dei
singoli individui) proprio delle istituzioni” (De
Lauretis). L’affermazione del movimento transgender (gay-lesbiche-bisessuali-transessuali-intersessuali)
diventa quindi importante e, se ben diretta, potrà
mettere in discussione le basi del più arcaico dei
regimi. Si comprende così meglio un Ratzinger che
prepara un documento di 37 pagine in cui condanna il
femminismo radicale della gender theory (Judith Butler)
e dell’uguaglianza, ma dialoga con quello della
differenza sessuale.
Wittig afferma inoltre che non solo il genere è
costruito (per genere/gender si intendono una serie di
fattori che confluiscono a formare l’identità; per
esempio fattori come classe, razza, scelta sessuale,
ecc. Quindi il genere è sempre costruzione storicamente
variabile di una identità), ma lo sono anche i corpi.
Questo avviene anche, ma non solo, attraverso il
linguaggio. “II fatto che il pene, la vagina, il sesso,
ecc. siano denominati parti sessuali significa ridurre
il corpo a tali parti e frammentarne l’interezza”
(Judith Butler). Ora, questo serve molto bene le
categorie di differenza sessuale, in primis nel
linguaggio gerarchizzante dell’eterosessualità e ne crea
il sistema con cui stabiliscono che a un dato corpo
corrisponde tanto e a un altro corpo altro. Si
stabiliscono così anche le funzioni di uomini e donne
come “naturali” – come desidera Ratzinger – e non
costruite e quindi scambiabili o con la possibilità di
inventare altro***. Ne “L’Apartheid del sesso”
Martine Rothblatt descrive molto bene i meccanismi con
cui ci fanno diventare qualcosa e occupare un posto ben
preciso nella società mediante la classificazione di
genere. Rothblatt dimostra, con l’avvallo delle più
recenti scoperte scientifiche, che l’apartheid sessuale
non ha ragione d’essere ed è retaggio non della
biologia, ma di preconcetti patriarcali.
“Nulla di biologico obbliga chi ha la vagina a
comportarsi in un determinato modo e chi ha il pene in
un altro. A cosa si deve quindi, l’origine
specificamente genitale delle forme di genere? Ancor
prima, a quale mutamento va attribuita l’attuale
accettazione sociale di espressioni di gene-re
indipendenti dai genitali che si possiedono? Gli esseri
umani hanno la tendenza atavica a generalizzare e a
creare stereotipi. Fenomeni apparentemente simili
vengono generalizzati e accorpati in categorie.
Caratteristiche parziali della categoria vengono poi
ridotte a luogo comune in modo che si applichino
all’intera categoria. Di norma l’uso degli stereotipi
serve in primo luogo a giustificare il trattamento
differenziato degli individui”. E più in là: “Quando una
categoria si impone, è tipico degli esseri umani
cominciare a caricarla di attributi e a rinforzare la
realtà di tali attributi attraverso l’educazione e le
sanzioni sociali. Il genere diventa una profezia
autoinverantesi, impostaci dall’infanzia, finché diventa
parte della nostra natura. Dietro la genesi del genere
si nasconde dunque la passione categorizzante e
organizzativa degli esseri umani”. (Martine Rothblatt).
Aggiungo io, anche la passione normalizzante.
Prima di chiudere con Rothblatt, ancora una citazione in
cui parla dei risultati di test scientifici: “I
risultati dei test rivelano che, a livello cerebrale, il
sesso è un continuum, che va da attributi stereotipati
molto «maschili» a caratteristiche molto «femminili». Su
questa base si dovrebbe dire che il sesso cerebrale è
analogico (continuo), non binario (o/o) maschile o
femminile”. Quindi il cervello è transgender.
Le intuizioni di Wittig, nonché i suoi studi e quelli di
altre femministe che l’hanno ispirata, erano, a dir
poco, in anticipo sui tempi. Questo la portò a
scontrarsi e a polemizzare con molte appartenenti al
femminismo della differenza e quindi, forse per
stanchezza o forse perché allora non trovò seguito in
Europa, emigrò in America. Le sue teorizzazioni hanno
influenzato fortemente Judith Butler e Teresa De
Lauretis, le quali hanno poi elaborato autonomamente
loro teorie a cui la queer theory deve tantissimo.
Classe sessuale
oppressa
Per Wittig non esiste quindi alcuna distinzione
tra sesso e genere; la categoria del sesso è anch’essa
una categoria di genere, del tutto investita
politicamente, naturalizzata, ma non naturale.
Judith Butler
Secondo Leo Bersani (2),
Wittig è “un guerriero foucaultiano, anzi un
guerrigliero (per prendere a prestito il titolo di un
suo libro), assai più risoluto dello stesso Foucault
nell’abbracciare la causa a favore di una nuova economia
dei piaceri del corpo. Wittig la martire, pronta a
sacri-ficare il suo stesso corpo alla logica della
passione lesbica: nel corso di una conferenza al Vassar
College, a un certo punto qualcuno le chiese se avesse
una vagina e lei rispose di no. Quella domanda così
sgradevole la trasformò immediatamente in una donna
(condensando cosi secoli di cultura eterosessuale), la
sua risposta però, altrettanto rapidamente, riscrisse
sul suo corpo la parola lesbica, cancellando il segno e
il marchio culturale di donna”. Se qualcuno non
comprendesse l’importanza cruciale dell’episodio è
Judith Butler che ci fa presente che “il corpo è un
modello che può riprodurre qualsiasi sistema chiuso e i
suoi confini possono rappresentare qualunque confine,
sia esso minacciato o precario”. Bersani fa presente che
“la Butler sottolinea la pericolosità per il sistema
sociale di confini del corpo permeabili”.
“Far esplodere il corpo sessuato” (Bersani) per cercare,
esplorare, inventare nuovi modi di essere e quindi
rivelare il polimorfismo della sessualità e nello stesso
tempo uscire dal sistema binario di pensiero e far si
che non si venga recuperate all’ordine eterosessuale,
sono stati i passi radicali di Monique Wittig.
Poche figure, in tanti anni di femminismo (3)
e poi di femminismo lesbico, mi hanno affascinato quanto
Monique Wittig. Tra queste c’è anche un uomo, Mario
Mieli, i cui “Elementi di critica omosessuale”
fu una scoperta tardiva, ma che sono ancora una delle
mappe di cui mi servo per esplorare il mondo queer.
Mieli negli anni ’70 parlava già delle lesbiche come
dell’avanguardia della rivoluzione ed egli aveva ben
presente il pensiero delle lesbiche radicali francesi e
l’importanza di una ridefinizione creativa di concetti
quali il genere, il sesso e le identità o non identità.
Forse Wittig e Mieli sottoscriverebbero quanto dice Leo
Bersani, parlando di Genet: “Ma nulla può cambiare in
questo mondo, o meglio (e questo bisogna ammetterlo, è
una scommessa ), tra l’oppressione adesso e la libertà
più avanti, potrebbe essere necessaria una rottura
radicale col sociale”. E “la rivolta delle serve (e
dunque la rivolta di tutti gli oppressi) andrà a buon
fine purché non ci si rapporti più con la loro
soggettività in quanto soggettività oppressa”. Uscire
dal sistema di pensiero binario è anche abbandonare le
facili identità e rischiare; ricorda la Butler che: “Nei
suoi scritti teorici e narrativi, Wittig chiede una
riorganizza-zione radicale della descrizione di corpi e
sessualità (...)”. Da qui lo scandalo che suscitò anche
tra le femministe l’apparizione di un libro come “II
corpo lesbico” che nella memoria di molte è rimasto
come un romanzo che mandava in crisi. Non è stata una
figura rassicurante Wittig, tantomeno flirtrava con il
materno e con il desiderio di un nuovo matriarcato.
Detestava ogni idea di sostituire al patriarcato un
matriarcato e di restituire oppressione agli oppressori.
La sua visione delle donne come “classe sessuale
oppressa” la porta a privilegiare e universalizzare la
figura della lesbica, ma il modo stesso in cui
costruisce questa figura è, secondo me, il modo che le
permette di sfuggire a un’identità fissa (le sue
lesbiche sono in eterno cambiamento) e soprattutto di
sfuggire al mercato. Si può avere capacità di cambiare e
ricrearsi e viaggiare alla velocità della luce tra le
identità e le non identità o meno identità, ma si corre
il rischio sempre di scendere alla fermata e trovare che
il mercato è lì ad aspettarci. A Wittig si deve almeno
riconoscere di non essersi mai fatta catturare. La sua
“lesbica” era/è semplicemente insopportabile per il
sistema eterosessista.
Prima di proseguire, torno un attimo sulla questione del
sesso.
“Anne Fausto Sterling, genetista presso la Brown
University, ha osservato di recente che «il sesso è un
vasto continuum che si sottrae a ogni classificazione».
Dietro la sua osservazione vi è una nuova ricerca che ha
dimostrato come almeno il 4 per cento delle nascite sia
in qualche misura intersessuato, vale a dire che i
neonati hanno sia parti di organi sessuali maschili sia
parte dei corrispondenti organi sessuali femminili
(spesso interni e quindi generalmente non
identificabili)” (Martine Rothblatt). I sostenitori
della naturalità dei due sessi, cioè chi sostiene che ci
sono solo due sessi biologici (come Ratzinger, come
tutti i fondamentalisti) sono smentiti dalla stessa
biologia. Magari potrebbero cominciare a chiedersi che
ne sarà dei loro preziosi libri sacri, della storia
della genesi, eccetera, eccetera e quale altra favoletta
inventeranno per giustificare l’oppressione delle donne
e dei diversi, la misoginia, l’omofobia, il razzismo e
tutto quello di cui sono accesi fautori. Potrebbero – a
titolo di esempio – scomunicare il comitato olim-pico
internazionale che ha “ampliato la definizione di
atleta, includendo le donne che prima erano uomini” o
potrebbero chiedere che non siano resi pubblici i dati
di ricerche scientifiche che rivelano la “varietà
sessuale degli esseri umani presente in natura” (da:
Internazionale ) e cioè le varianti naturali dei
cromosomi sessuali, ovvero non solo: XX o XY, ma XXY,
XYY, XXX.
Viaggio interminabile
Fin qui ho solo accennato alle opere letterarie di
Wittig, ma parlare di questa scrittrice scindendo le sue
teorie filosofiche dalle sue opere creative, sarebbe
limitante.
Non ha scritto moltissimo, ma fin dal primo romanzo ‘L’Opoponax’,
– premio Medicis in Francia, nel 1964 –, suscitò
interesse. In una delle ultime interviste, rilasciata a
Lesbia, disse che non avrebbe scritto se non avesse
letto gli autori del nuovo romanzo francese, prima fra
tutti Nathalie Sarraute. De “L’Opoponax”
scrissero Mary McCarthy e Margherite Duras. Rimane in
mente del libro, non solo e non tanto la trama (l’amore
tra due ragazzine, l’infanzia, la libertà interiore), ma
la scrittura limpida, continua, fluida, nonostante la
brevità delle frasi e quel restituire,
sapientemente-amorevolmente-semplicemente, l’infanzia,
anche con una parola che sa essere/dare infanzia. “L’Opoponax”
gioca con la nostra credulità di bambini ex bambini, ma
in fondo felicemente ancora pieni di stupore. Wittig non
ci consola di nulla. Forse già allora incanto e ferocia
la accompagnavano. I tre proiettili di carabina che
Valerie regala a Catherine sono il preludio alle
bambine-guerrigliere de “Le guerrigliere”.
Quando ho saputo della morte di Wittig, ho ripreso in
mano i suoi libri (pochi usciti in italiano) e
particolarmente “L’Opoponax”. Mi venne da
pensare subito, che era già tutto lì dentro: scrittura,
coraggio, eroismo, lesbismo, ironia, ribellione ai
codici, eccetera. Le farei torto però, se mi fermassi a
questo.
“Non utilizzano delle iperboli delle metafore per
parlare dei loro sessi, non procedono per accumulazioni
o per gradazioni. Non recitano lunghe litanie, il cui
motore è un’imprecazione senza fine. Non si sforzano di
moltiplicare le lacune in modo che nel loro insieme
significano un lapsus volontario. Dicono che tutte
queste forme designano un linguaggio sorpassato. Dicono
che bisogna ricominciare tutto. Dicono che un grande
vento spazza la terra. Dicono che il sole sta per
alzarsi”.
Le guerrigliere
“II corpo lesbico” uscì in traduzione
italiana per le Edizioni delle Donne nel 1976, tre anni
dopo la sua uscita in Francia. Scriveva Elisabetta Rasy
nella nota introduttiva: “Monique Wittig recita il
percorso di una ricognizione del corpo che è ‘lesbico’ e
non ‘femminile’ perché il corpo femminile è il corpo
della donna visto e usato dall’uomo – un feticcio, cioè,
per la donna – e il corpo lesbico è il corpo della donna
visto e vissuto dalla donna, come nei sogni
l’omosessualità è autoerotismo, cioè, ancora una
ricognizione, una scoperta”. Facendo esplodere il ‘corpo
lesbico’ Wittig lo riscrisse con una brutalità e
passione sconosciute fino ad allora nella letteratura
femminista e pre-femminista.
La voce del libro pare propagarsi per intensità e
rimbalzare sul corpo riorganizzandolo, dopo averne
bucato la cecità portandolo davanti se stesso. Non vi
sono nomi propri nel ‘corpo lesbico’. Le amanti franano
una nell’altra, l’una contro l’altra, l’una vicina
all’altra, come le ‘detentrici’ del fuoco, della “geenna
dorata adorata nera” in cui è inutile chiedere aiuto,
perché nessun aiuto verrà, non una potrà salvarti da un
desiderio così gridato, così ferito, così voluto che
pagina per pagina scavalca il dicibile. Una lesbica mai
detta prima prende quindi corpo nel romanzo di Wittig e
si afferma affermando la fermezza del proprio desiderio,
spogliando il corpo di ogni orpello, di ogni bugia. Il
processo di spogliazione appare come smembramento,
l’arte amatoria deborda nel cannibalismo (o così fa
credere ), ma di volta in volta il corpo si ricompone, è
intero, è due corpi che si cercano e prendono e
ricominciano sempre da capo; corpi universalizzati non
tanto o non solo nella loro rivolta, ma nella loro
totalità, nel loro essere interamente erotizzati:
“tecton=costruttori, generatori” (Beatriz Preciado) (4).
II ‘viaggio interminabile’ di Wittig, il ‘Viaggio
senza fine’ è portato nella parola oltrepassando
ogni parola, liberando le frasi dalla zavorra romantica,
sentimentale, perché ne rimanga la carne come segno di
un ricominciamento che parla per grida o risate, per
odori-umori-profumi, per il toccare delle mani, della
bocca, per lo scuotersi, per lo sforzo di inabissarsi e
riemergere dai luoghi più segreti di ognuna, ma
rinominandoli come se venissero strappati al negativo di
una fotografia e riconsegnati alla luce, alla gioia.
Wittig non lascia nulla d’intentato per significare il
corpo lesbico e renderlo non superabile. “Da qui in poi
– pare dire – potrete fingere di non vederci, ma non ci
troverete mai nel vostro ordine”. Se ne “Le
guerrigliere” le bambine inventano comunità
lesbiche, creandole e distruggendole e ricreandole, ne “II
corpo lesbico” si nasce dalle nostre ossa, dai
muscoli, dai nervi, ma senza più potersi immaginare come
corpo guardato dall’altro, corpo appreso da altri
sguardi.
“Per farla passare da alknarintya (donna selvaggia) a.
nguanga (donna tranquilla, accondiscendente al desiderio
dei maschi), dalla frigidità (?) all’erotismo d’oggetto
dall’omosessualità all’eterosessualità, la femmina deve
essere sottoposta alla forza: violentata, conquistata,
castrata” (Roheim, citato da Paola Tabet in DWF n°
23/24).
Ne Le Guerrigliere, in un breve capitolo,
c’è una descrizione della clitoride che è un preludio a
quanto Wittig scriverà anni dopo. Non è un caso che i
suoi romanzi siano passati sotto silenzio. Wittig usa la
scrittura per non coincidere con nulla, tantomeno con la
mente eterosessuale. La scrittura è quindi diretta,
intensa e pare penetri nel corpo per infrangerne la
subordinazione a qualcosa di appreso, qualcosa che
lascia in una confusione che fa sì che diventi possibile
la colonizzazione del corpo. Un corpo è colonizzato con
lo stupro, con i ricatti familistici e affettivi, con la
violenza domestica, ma anche con l’im-posizione
(naturalizzata) di istituzioni
(matrimonio-prostituzione) che ne veicolano la
socializzazione. Questo avviene per gradi, ma
ininterrottamente; la ripetizione di schemi porta a far
sì che tutto questo sembri naturale. Porta anche a
un’atrofia dell’immaginazione, della possibilità di
immaginare altro.
Leggere Il Corpo Lesbico è leggere gli strappi
con cui una scrittura luminosa e pazzesca riesce a
ricrearne l’integrità. Dal negativo della fotografia
(dal nero dello sguardo), all’immagine di un corpo che
ricompone la propria libertà, la riscrive (toccandola),
rendendosi vivo.
“La donna” non è più questo corpo; la lesbica è la
figura portatrice di una voce che è “la mia voce intenta
a raddoppiare la tua voce”.
Teresa de Lauretis scrive che per fare una lesbica ci
vogliono due lesbiche e il desiderio lesbico “significa
precisamente lo spiazzamento del significante paterno e
l’aggiramento della legge che preclude al soggetto donna
l’accesso al corpo femminile”. E continua: “II desiderio
lesbico è legato al desiderio di un’altra donna perché è
desiderio di un corpo femminile negato, perduto o
espropriato; ma quel corpo perduto o negato non è il
corpo della madre bensì l’io-corpo del soggetto stesso,
la cui perdita equivale a non essere. Nel desiderio per
l’altra donna il soggetto nega o supera quella perdita e
ritrova l’io-corpo insieme con quello dell’altra. A
parer mio quindi, il desiderio lesbico non è pre-edipico,
né fallico o maschile e nemmeno isterico: è perverso”.
Con “perverso” ovviamente la De Lauretis intende “né
patologico, né immorale, ma che esce dallo schema
pulsionale coatto tra padre e madre proprio dell’isteria
e quindi eccede lo schema binario dell’Edipo (sui
generis)”.
La lesbica di Wittig non è l’effetto di un divieto, ma
eccede quello schema binario e irrompe sulla scena
usando la precarietà della lingua per riarticolare una
lingua che la renda un soggetto (soggetto universale).
Il corpo frammentato nei discorsi e negli sguardi del
potere, nel suo discorso viene ricostituito e interroga
il proprio bisogno, se stesso e il proprio significato
politico con “la forza della citazione” (J. Butler).
Wittig rende la lesbica visibile, ma ci ricorda che “se
il desiderio omosessuale è il desiderio del simile è
vero anche che è desiderio di altro”. Il suo riscrivere
i classici della letteratura come classici lesbici (Il
Don Chisciotte in “Viaggio senza fine”
e La Divina Commedia in “Virgile, non”),
è parte di questo viaggio, di un desiderio altro.
Femminismo cyborg
“La scrittura del cyborg parla del potere di
sopravvivere, che non deriva dall’innocenza originaria,
ma dalla conquista degli strumenti che marchiano il
mondo, che le ha marchiate come «altro». Questi
strumenti sono spesso storie riscritte, nuove versioni
che spiazzano e ribaltano i dualismi gerarchici delle
identità naturalizzate: rinarrando le storie originarie,
di autori cyborg sovvertono i miti dell’origine centrali
alla cultura occidentale. Tutti siamo stati colonizzati
da quei miti, dalla loro brama di compiersi
nell’apocalisse”.
Donna
Haraway
In “The Straight Mind” (Il pensiero
eterosessuale) Monique Wittig traccia una prima
parte della mappa con cui si misurerà con il linguaggio.
Parlando dell’insieme dei discorsi che ingenerano altri
discorsi (“la linguistica ingenera la semiologia e la
linguistica strutturale, la linguistica strutturale
ingenera lo strutturalismo che ingenera l’inconscio
strutturale”), mette in rilievo come “l’insieme di
questi discorsi produce una statica confusionale per gli
oppressi, che fa loro perdere di vista la causa
materiale della loro oppressione e li immerge in una
sorta di vuoto astorico”.
Questo fa sì che questi discorsi producano una lettura
“scientifica della realtà sociale, nella quale gli
esseri umani sono dati come invarianti, intoccati dalla
storia e immuni dai conflitti di classe, con una psiche
identica per ciascuno di essi perché geneticamente
programmata”.
II saggio citato è del 1978 e a distanza di una decina
di anni – sempre in America – pare fargli eco Haraway
(che leggo ora insieme a Wittig – da una all’altra:
dalla Lesbica ai Saperi Situati): “La scrittura è in
primo luogo la tecnologia dei cyborg, superfici incise
del tardo ventesimo secolo. La politica dei cyborg è la
lotta per il linguaggio, contro la comunicazione
perfetta, contro il codice unico che traduce
perfettamente ogni significato, dogma centrale del
fallogocentrismo” (Manifesto Cyborg). E Wittig: “Questi
discorsi ci negano ogni possibilità di creare le nostre
proprie categorie. Ma la loro azione più feroce è
l’inflessibile tirannia che essi esercitano sul nostro
io fisico e mentale. Quando usiamo il
supergeneralizzante termine ‘ideologia’ per designare
tutti i discorsi del gruppo dominante, releghiamo questi
discorsi nell’ambito delle idee irreali, dimenticando la
violenza materiale (fisica) che essi direttamente
esercitano sulle persone oppresse...”.
Ed è Haraway a ricordarci che “le dispute sui
significati della scrittura sono un aspetto importante
della lotta politica contemporanea: abbandonare il campo
può essere mortale”. In molti altri punti Haraway e
Wittig si incontrano e dall’una all’altra corre il
pensiero rileggendole: “Quindi è nostro compito e
soltanto nostro, definire quel che chiamiamo oppressione
in termini materialisti, rendere evidente che le donne
sono una classe, il che vuoi dire che la categoria
‘uomo’ come la categoria ‘donna’ sono categorie
politiche ed economiche, non eterne”. (Donna non si
nasce, 1981, Wittig).
Così il cyborg: “è una creatura di un mondo post-genere:
non ha niente da spartire con la bisessualità, la
simbiosi pre-edipica, il lavoro non alienato o altre
seduzioni di interezza organica ottenute investendo una
unità suprema di tutti i poteri delle parti” (Haraway).
È qui che ravviso una diversità di vedute tra il
femminismo cyborg e la lesbica di Wittig, perché
quest’ultima propende ancora all’umano, in senso
idealistico (Wittig è di cultura umanista), mentre
Haraway vive in un universo che è Scienza e dove le
categorie dell’umano e del post-umano sembrano
propendere infine per quest’ultimo.
È certo però che la lesbica di Wittig mette a tal punto
in crisi i linguaggi e i sistemi eterosessisti che non è
nemmeno facile ricondurla pari pari all’umanesimo, per
quanto rivisto.
Wittig era consapevole di cosa significa ‘la costruzione
sociale dei corpi’ e Haraway non solo ne è consapevole,
ma ci invita a confrontarci con una costruzione dei
corpi che dal punto in cui siamo potrebbe portarci, o
avanti, o totalmente indietro.
Credo di poter dire che entrambe hanno cercato di
inventare una nuova po-litica (forse Haraway con più
seguito), ma Wittig, 30 anni fa, si è scontrata con il
mito della ‘Donna’ e della ‘differenza’ uscendone
perdente.
Viene ora riletta con quella impossibile nostalgia che
si deve alle grandi, ma anche con l’impressione che
danni irreparabili siano stati compiuti facendo passare
un termine e un’ideologia reazionaria (la differenza
sessuale) per un avanzamento.
In Italia è arrivato poco della polemica che altrove ha
imperversato e io stessa sono testimone dell’interesse e
dell’entusiasmo che nelle nuove generazioni di lesbiche
italiane suscita il pensiero di Wittig. Non bisogna però
dimenticare che lei scriveva certe cose decenni fa e ora
si può sì assumerle come parte dei nostri discorsi, ma
senza dimenticare che altre mappe si sono aggiunte nel
frattempo e leggerle, intersecandole, è fondamentale.
In questo contesto è utile, per esempio (ed è stato
fatto), rileggere Teresa de Lauretis e la sua lesbica né
pre-edipica, né maschile, né isterica, con il cyborg di
Haraway che, come ricordato sopra, è "creatura di un
mondo post-genere”.
La scrittura come sopravvivenza è parte integrante di
ogni discorso contro il potere. Oggi non possiamo
esimerci dal pensare che la parola ‘potere’ designa
molti poteri e noi come marginali (veri marginali in
questo mondo di somiglianti), dobbiamo riconoscere che
molte parole (sinistra-differenza-multiculturalismo)
designano più che un’alternativa solo altre ‘énclavi’,
terreno di coltura per fondamentalismi-tagliatori di
teste-risorgenti intolleranze; e che i corpi delle donne
sono usati dai fondamentalisti perché su di loro venga
di nuovo e di nuovo scritto il discorso che vogliono
continuare a imporci: l’inferiorità.
La complicità con questi discorsi non è solo letale, ma
in ultima analisi è contro ogni diritto umano
fondamentale e contro il mondo a venire.
La presunta ‘divinità’ di certi assunti, parte
integrante di ogni discorso fondamentalista, è
esautorata da altre scoperte (non conosciute o tenute
nascoste); per quanto riguarda la rivelazione che
concerne il Corano, a titolo di esempio, “nel 1972 i
lavoratori che restauravano la grande moschea di Sana,
nello Yemen, scoprirono un’enorme pila di manoscritti
semimarci, che misero in sacchi e conservarono.
Tra quei fogli consunti, gli studiosi, scoprirono pagine
di testi coranici risalenti ai primi due secoli
dell’Islam.
Sorprendentemente, alcuni contenevano varianti della
versione oggi accreditata, offrendo interessanti indizi
sulla storia testuale del libro sacro dell’Islam”
(Matthew Battles).
Secondo tutte le correnti dell’Islam invece, la versione
del Corano non è mai cambiata dagli inizi, ma è stata
‘fedelmente’ trascritta. Con ‘fedelmente’, come con ogni
estratto della parola fede, è possibile a quanto pare
lavorare molto d’immaginazione.
“La lingua scaglia covoni di realtà contro il corpo
sociale” (Wittig).
Ne ‘Il Cavallo di Troia’ Wittig dà la sua
visione della scrittura e di cosa essa possa
significare. “Ogni opera letteraria è, al momento della
sua produzione, come il cavallo di Troia. Ogni opera che
ha una forma nuova funziona come una macchina da guerra,
perché il suo intento e il suo scopo sono demolire le
vecchie forme e le regole convenzionali.
Un’opera simile si produce sempre in territorio ostile.
E più questo cavallo di Troia appare strano,
non-conformista, inassimilabile, più gli occorre tempo
per essere accettato. Alla fin fine viene adottato e in
seguito funziona come una mina, qualunque sia la sua
lentezza iniziale. Scalza e fa saltare la terra in cui è
stato piantato.
Le vecchie forme letterarie alle quali siamo abituati
alla lunga sembrano antiquate, inefficaci, incapaci di
operare trasformazioni” (Wittig).
La macchina da guerra di Wittig non ha nulla a che
vedere con ogni sorta di scrittura impegnata o scrittura
femminile, per la scrittrice francese infatti anche la
scrittura ‘femminile’ è una formazione mitica così come
‘la Donna’ (‘formazione immaginaria’) e in quanto tale è
messa in campo per confonderci. Wittig parla di due
elementi con cui ogni scrittore ha a che fare: il primo,
il corpus delle opere passate e presenti, l’altro ‘la
materia bruta’. “Per la scrittura le parole sono tutto.
Molti scrittori l’hanno detto e ripetuto, (...) e
anch’io lo dico: nella scrittura le parole sono tutto.
(...) Le parole giacciono là come una materia bruta a
disposizione dello scrittore proprio come l’argilla è a
disposizione dello scultore.
Le parole sono ognuna di loro come il Cavallo di Troia.
Sono delle cose, delle cose materiali, e allo stesso
tempo hanno un senso. Ed è perché hanno un senso che
sono astratte. Sono un condensato di astrazione e di
concretezza e in questo sono completamente diverse da
tutti gli altri medium di cui ci si serve per creare
arte” (Il Cavallo di Troia).
Lo shock delle parole
Ma, perché “in letteratura le parole ‘siano’ date da
leggere nella loro materialità”, è necessario operare
“una riduzione sul linguaggio che lo spoglia del suo
senso allo scopo di trasformarlo in un materiale neutro
– cioè materia bruta”. Senza questa operazione si
rischia di impantanarsi non solo nel vecchio, ma nel
mediocre. A tal proposito ricordo un consiglio della
poeta e scrittrice Mariella Bettarini, che, invitandomi
a lavorare le parole ‘con più severità’, mi metteva in
guardia dal cadere nel fare ‘diario’, non più in là
insomma dell’autocoscienza.
“Per Schklovski, un formalista russo, le persone
smettono di vedere i diversi oggetti che le circondano,
gli alberi, le nuvole, le case. Li riconoscono senza
guardarli veramente. E secondo Schklovski il compito
dello scrittore è di ricreare la prima visione delle
cose nella sua potenza, in contrasto con il banale
riconoscimento che se ne fa tutti i giorni. Ciò che lo
scrittore ricrea è effettivamente proprio una visione,
ma non si tratta di quella delle cose ma piuttosto della
prima visione delle parole, nella sua potenza. (...) È
quello che io chiamo fare centro con le parole”
(Wittig).
Una simile visione della letteratura dovrebbe rendere
giustizia a Monique Wittig, permettendo anche a chi la
denigra per opportunismo ideologico di riconoscere
l’ampiezza del respiro che la sosteneva e la guidava. Lo
shock delle parole proveniva per la scrittrice non dai
concetti, ma dalle parole stesse, da come erano/sono
disposte. Il lavoro sulle parole/con le parole è quello
che fa la letteratura. Nella letteratura “le parole ci
vengono rese intere. La letteratura può insegnarci
qualcosa che può servire in qualunque altro campo:
quando le parole lavorano, la forma e il contenuto non
possono essere disso-ciati perché dipendono dalla stessa
forma, la forma della parola, una forma materiale”. Ma
perché in letteratura possa darsi una macchina da
guerra, cioè un’opera realmente innovativa, è necessario
che il punto di vista dell’autore si faccia da
‘particolare’, universale".
“L’impresa più essenziale e strategica del lavoro di
ogni scrittore consiste nell’universalizzare questo
punto di vista” (Wittig).
L’opera di Proust, come quella Djuna Barnes, sono da
questo punto di vista, per Wittig, perfettamente
riuscite. “Più il punto di vista è particolare e più
l’impresa di universalizzazione esige un’attenzione
sostenuta agli elementi formali che sono suscettibili di
essere aperti alla storia come i temi, i soggetti del
racconto e contemporaneamente alla forma globale del
lavoro” (ibidem).
Il duro lavoro con le parole è dovuto anche al fatto
che, come scriveva Virginia Woolf, la loro
caratteristica più ‘sorprendente’ è ‘il loro bisogno di
cambiare’. Troppo devono dire e infinite sono le
narrazioni del mondo che le aspettano (e noi con loro)
perché non cambino. In questo senso è grazie “a questa
loro complessità che esse sopravvivono" (V. Woolf).
Parole non solo per me
Questo scritto non sarebbe completo, però, se in
sintonia con la prassi femminista e lesbica a cui tanto
devo, non vi aggiungessi una nota personale. Una nota
sulla lettura. Ho avuto (ho), un rapporto con i libri –
nella loro materialità e non solo testualità – molto
intenso. Il desiderio di scrittura è sempre stato nel
doppio senso di scriverla e leggerla. La storia che
racconto non ha nulla di eccezionale, ma oggigiorno è
bene ricordarla proprio perché tutto è più facile.
Alla fine degli anni ’70 e nei primi anni ’80, trovare
in Italia letteratura lesbica era difficile. In tal
senso ricordo “II pozzo della solitudine” della Hall e
più in senso lato “La Ragazza di nome Giulio” di Milena
Milani, che sfiorava il tema. Li lessi con grandi
aspettative. Scovai Wittig (il Corpo Lesbico) nella
Libreria delle Donne di Milano (si era già a metà anni
80, in pieno riflusso) e in via Dogana stazionavano con
le loro tenute alla moda i paninari, imperversavano i
discorsi revisionisti e le Timberland, le idee
cominciavano a scarseggiare.
Leggere libri con la parola ‘lesbica’ o ‘lesbico’ a
caratteri grandi sulla copertina vivendo in famiglia,
era un’impresa non da poco. Non ancora effettivo il
coming out, ricoprivo i libri (ricopertinandoli) con una
spessa carta verde da pacco (e tali sono rimasti, in
memoria). In una delle postfazioni a “Elementi di
Critica omosessuale” di Mieli, uno studioso (mi
pare americano), auspicava che la nuova edizione degli
“Elementi”, potesse ormai essere letta e lasciata in
bella vista sul tavolo di casa, per la visione di amici
e parenti.
Venti anni fa questo semplice atto era a tal punto
difficile che si era presi da un’angoscia esistenziale
che ricordo e potrei descrivere ancora oggi. I libri
erano però letti con debita sottolineatura. L’entusiasmo
e l’amore per corpi e parola correvano nel segreto dei
discorsi e dei gesti, fatti con le amiche di militanza.
In tal senso “Il corpo lesbico” di Wittig,
divenne un corpo – letteralmente – e da lì, data la
pazienza e la ricerca, mai lontane dalla vita, che molte
intrapresero intorno e dentro i libri non tradotti o
poco tradotti di Monique Wittig. La biblioteca per molto
tempo mi ha messo in difficoltà, e perché la vivevo solo
come un posto per studenti, e perché fruire libri di
argomento lesbico in pubblico era imbarazzante.
Prevaleva così l’acquisto in libreria e la lettura
privata-appartata. Molta acqua doveva passare sotto i
ponti perché l’orizzonte personale, prima e poi politico
si allargassero. Nel frattempo vi sono stati gli anni
trascorsi a Firenze e poi in altri posti e proprio gli
anni a Firenze – con l’Amandorla, Liana Borghi e le
altre compagne, li chiamo affettuosamente gli anni del
‘rinascimento (lesbico) fiorentino’, quando ho avuto
modo di ascoltare i discorsi – prima capendoci poco, poi
di più – che sono anche in questo scritto. Da scrittura
a scrittura, in un gioco di citazioni e rimandi
impegnativo, se le parole sono anche forma d’amore, è
alla nostra narrazione collettiva – che in senso ampio
comprende il “rinascimento fiorentino”, di cui ho
parlato sopra, ma anche il CLI degli anni di Rosanna
Fiocchetto e Giovanna Olivieri e i gruppi di ragazze
incontrate lungo la strada lunghissima, percorsa
attraversando linguaggi/speranze/emozioni/
amicizie/politiche/desideri/sogni/amori/amore e
soprattutto vivendo sui confini, da margine a margine,
in un conflitto, una tensione interiore da cui non si
esce vincenti, ma cambiate – , che do queste pagine,
consegno ‘parole’ che sono o vorrebbero essere non solo
per me.
Nadia Augustoni
*Ringrazio Silvia Paradisi per la
traduzione di “Il Cavallo di Troia” e Rosanna Fiocchetto
per quella di “The Straight Mind” da lei già fatta
uscire nella ‘Bollettina’ del CLI, 1990. Ringrazio
Rosanna Fiocchetto anche per il materiale fornitomi su
Monique Wittig (testi di interviste, articoli,
segnalazioni e per l’introduzione da lei fatta per
‘Brogliaccio, per un dizionario delle amanti’, di cui
parlo all’inizio di questo testo). Inoltre la ringrazio
per avermi permesso di usare la bibliografia di W/ittig
da lei compilata . Ringrazio le amiche che hanno letto
questo testo dandomi utili consigli.
Note
1. Queste notizie sono in ‘I sessi sono due ‘ Di A.
Fouque, Pratiche Editrice 1999. Altre notizie le devo a
Rosanna Fiocchetto: nel I970 tre femministe francesi
fecero un’azione all’Arco di Trionfo, depositarono una
corona di fiori al monumento al milite ignoto recando un
biglietto con la scritta: ‘ metà degli uomini sono
donne’. L’episodio è noto, meno i nomi delle tre
militanti: Monique Wittig, Margareth Stephenson (Namascar
Shaktini), Cristiane Rochefort.
Il manifesto ‘Combat pour la libération de la femme’ è
di Monique Wittig, Gilles Wittig, Margareth Stephenson e
Marcia Rothenburg.
2. Tutte le citazioni di Leo Bersani a seguire, sono
tratte da “Homos” 1994, Pratiche Edizioni.
3. Non bisogna dimenticare infatti che Wittig proveniva
dall’ambito del femminismo francese, particolarmente di
quello che si definiva ‘femminismo materialista’ (Christine
Delphy) e non è mai stata o diventata antifemmi-nista
pur essendo stata tra le prime a criticare
costruttivamente le teorie essenzialiste di Luce
Irigaray e altre. Nell’introduzione a “The Straight Mind
ringrazia e riconosce il debito che ha con le femministe
francesi dell’area di “Questions Feministes”, tra loro
anche l’italiana Paola Tabet.
4. La differenza tra il pensiero di Wittig e quello di
B. Preciado, J. Butler e Teresa de Lauretis è
soprattutto sulla questione identitaria. Wittig postula
il ‘soggetto’ lesbica, le altre teoriche propendono per
una politica non identitaria o postidentitaria.
Sottolineo più avanti comunque come la lesbica di Wittig
sia un soggetto destabilizzante per l’eterosessismo,
molto più, a volte, dell’inafferrabile non-soggetto
queer.
5. La polemica tra M. Wittig e Hélène Cixous fu accesa.
Cixous è tra le più note esponenti di quel filone di
pensiero denominato ‘scrittura femminile’. Vedere anche:
“II Riso della Medusa” di H. Cixous, in Critiche
femministe e teorie letterarie, Clueb, Edizioni Bologna
1997.
Bibliografia
Bersani Leo, 1994 – Homos –
Edizioni Pratiche Parma I999
Battles M., 2004 – Biblioteche una
storia inquieta – Carocci Editore
Bhabha Homi, 2004 – II Diritto alla
Scrittura, in La debolezza del più
forte: globalizzazione e diritti umani
– Mondadori
Butler Judith, 1990 – Scambi di Genere
– Sansoni, 2003
Butler Judith, I991 – Corpi che contano
– Feltrinelli, 1996
De Lauretis Teresa 1994 – Pratica
d’amore – La Tartaruga, 1996
1996 – Sui Generis – Feltrinelli
1999 – Soggetti Eccentrici – Feltrinelli
Fiocchetto Rosanna 2003 – Introduzione a
"Brogliaccio per un Dizionario delle amanti"
di prossima uscita
Fouque Antoinette 1999 – I sessi sono
due – Pratiche editrice, Parma Haraway
Donna, 1996 – Manifesto Cyborg – Feltrinelli
Mieli Mario 1979 – Elementi di Critica
Omosessuale – Feltrinelli, 1999
Milena Milani – La ragazza di nome
Giulio – Mondadori
Rothblatt Martine 1995 – L’Apartheid del
sesso – II Saggiatore,1997
Tabet Paola – Riproduzione imposta,
sessualità mutilata, in DWF, n 23/24,
1985
Hall R. 1928 – II Pozzo della solitudine
– Rusconi
Wittig Monique 1969 – Le Guerrigliere
– Edizione pirata a cura de "Le lesbacce
incolte" 1995 Bologna
1973 – II corpo lesbico – Edizioni
delle Donne 1976
1964 – L’Opoponax – Einaudi 1966
1992 – The Straight Mind – non
tradotto
Woolf Virginia 1937 – II Mestiere delle
Parole, in "Come si legge un libro?”,
Baldini e Castoldi 1999
Preciado Beatriz 2000 – Manifesto
Contra-sessuale – II Dito e la Luna
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