La cultura della viltà
di Massimo La Torre
Una serie di reazioni seguite all'invasione sovietica
dell'Afghanistan ci danno un quadro vivido dei guasti prodotti
dall'Ideologia marxista. Il centro della disputa è stato la definizione di
Imperialismo. L'URSS, si afferma, non è un paese imperialista, giacché il
concetto di imperialismo, tutto dentro quello di capitalismo del quale
rappresenta la "fase suprema", non può certo adattarsi allo Stato Sovietico
che capitalista non è. Così bolla di "moralista" l'argomentazione di quanti
guardano ai fatti dell'Afghanistan col metro di un concetto tanto complesso
quanto semplice: la libertà. E si conclude ribadendo la superiore
diabolicità degli Stati Uniti. Tutto ciò è esercizio scolastico:
l'applicazione di una griglia analitica tutta economicista, la ferma
esclusione del "tertium". Già, tra URSS e USA "tertium non datur", o con gli
uni o con gli altri, e dunque con l'URSS. Certo, ci sarà qualche deviazione,
ma dopotutto per dirla con Berlinguer siamo in presenza di uno "Stato
socialista dai tratti illiberali". E poi per chi l'appellativo di "liberale"
porta con sé il marchio dell'infamia ciò può risultare più che una critica
un'esaltazione.
Da molto tempo ormai il marxismo è l'ideologia dominante
dell'intellighenzia. Basta frequentare una qualche facoltà umanistica per
rendersene conto. Qualcuno mi ha detto che a Scienze Politiche con una
lettura del Manifesto del Partito Comunista si possono superare
brillantemente tre-quattro materie: forse una 'boutade'' ma un segnale del
conformismo intellettuale che ottenebra le menti e ci ricaccia costantemente
dentro la prospettiva della riproduzione del Dominio. Così l'URSS non è una
potenza imperialista, perché l'imperialismo è solo ciò che è stato
codificato nel Marx-Engels-Lenin-Pensiero: se si vuole si potrà parlare di
"egemonismo".
È grazie all'effetto allucinogeno delle categorie marxiste che Rita Di Leo
(v. La Repubblica del 13 febbraio 1980) può sostenere che il
rapporto tra l'URSS e i suoi satelliti europei non solo è paritario, ma è
soprattutto un rapporto da campagna a città dove la campagna è l'URSS, e la
città paesi come la Cecoslovacchia, la Polonia, l'Ungheria. Sarà allora
l'URSS il paese sfruttato, e quelli finora ritenuti suoi satelliti i veri
sfruttatori. Che soddisfazione, pensate, per gli operai del KOR polacco, per
i firmatari della Charta 77, per i parenti dei fucilati del '56 sapere che
sono loro a comandare, e non i grigi funzionari del Kremlino: non se ne
erano mai accorti.
Ed ancora, svolgendo il filo di questo continuum di cultura (nel senso di
coltivazione) della viltà: Rita Di Leo è sempre un esempio cristallino. In
URSS, a suo giudizio, vi è una massa di gente che inquadrata sin dalla
nascita nelle organizzazioni di regime "partecipa" alla gestione del Potere;
a livello micropolitico ma partecipa. Dunque, non siamo in presenza né di
un'oligarchia, né di un sistema burocratico, tanto meno dinanzi ad uno stato
totalitario. Ciò perché una fetta notevole di popolazione, dislocata
perlopiù nella sterminata provincia sovietica, "si autogestisce, nel senso
che attraverso le organizzazioni di massa, delle quali fanno parte 20
milioni di sovietici, il cittadino si procura la scuola, il gas, la luce".
Autogestione della "vita materiale": questa è la grandezza del regime
post-staliniano.
Alla Di Leo fa eco Giuseppe Boffa che riprende la tesi dell'autogestione: "Accanto
a vistosi motivi di debolezza, il sistema sovietico ha importanti elementi
di forza che non consistono nella repressione. Consistono piuttosto nel
fatto che, sebbene verticistico, esso ha consentito una vasta, capillare ed
abbastanza articolata organizzazione delle masse. Sono convinto che una
delle contraddizioni del sistema sia lo stacco tra un maggiore
coinvolgimento della gente nelle decisioni che riguardano la vita locale e
l'assenza di una reale partecipazione alle grandi decisioni politiche"
(La Repubblica cit.). Il che significa affermare che vi è
autogestione là dove un organo periferico può decidere se gli autobus devono
essere dipinti di giallo o di rosso, o se al rancio vanno servite patate
nuove o patate vecchie. Ma allora anche noi, in Italia, abbiamo
l'autogestione, se la nostra società è (come è) disseminata, dalla fabbrica
alla scuola alla caserma, di organi elettivi di base. Vi è l'uso della
categoria dialettica della "contraddizione" (oh quante speranze invano spese
sulla sua esistenza...): contraddizione tra il decidere il tipo di patate
del rancio e il decidere se e come essere liberi. Io la contraddizione non
la vedo: ma, si sa, non inforco gli occhiali dei "Grundrisse" e del
"Capitale".
Sarebbe bastato leggersi uno dei testi classici sulla democrazia moderna,
Tocqueville ad esempio, o qualche seria riflessione sul totalitarismo (come
La scuola dei dittatori di Silone) per comprendere che ciò che si
percepisce con occhiali marxisti come contraddizione è invece una delle
caratteristiche costitutive dello Stato Totalitario. Il totalitarismo è tale
non perché è particolarmente feroce e repressivo (anche se di solito lo è),
ma per due suoi elementi costitutivi: 1) l'Ideologia, come cemento
principale del Sistema; 2) la mobilitazione permanente delle masse: olio
necessario a lubrificare la pesante macchina burocratica. Sarebbe bastato,
per non prendere lucciole per lanterne, ricordarsi dell'esperienza fascista
italiana, con le sue adunate, i suoi "sabati", ma ciò che più conta con i
suoi organismi di base: i gruppi rionali capillarmente diffusi, i quali
costituivano forme di partecipazione. Sarebbe stato sufficiente per
capire che la contraddizione vera, se di contraddizione si vuol parlare, non
è tra mobilitazione/partecipazione e autogestione verticistica e statalista
del sociale, ma tra Stato e Anarchia (la gestione reale ed antiautoritaria
diffusa). Che la contraddizione, meglio opposizione, non è tra
Fascismi, Democrazie e "Socialismo reale" (regimi tutti proiettati verso un
identico destino: il 1984 orwelliano, il Sistema del Potere anonimo e ubiquo);
ma semmai tra Stato totalitario e Stato liberale, dove però il primo non è
separato dal secondo da una decisa soluzione di continuità. Nel passaggio
dalla libertà negativa dello Stato liberale (censitario e rigidamente
classista) alla libertà positiva delle democrazie (o poteri di massa) -
variamente interpretato dai vari Hitler, Stalin, Roosevelt - sta la chiave
della comprensione anche del regime politico-sociale dell'URSS. Perché,
diciamocelo chiaro, la divisione per gerarchie politiche precede e fonda la
divisione di classe; e la distinzione in classi e l'ineguaglianze economica
inverano un rapporto in essenza politico.
La relazione tra chi ha e chi non ha, tra chi possiede e chi non possiede, è
innanzitutto una relazione di potere: tra chi può e chi non può. La
proprietà è una forma del potere, una sua possibile manifestazione. Il
marxismo con la sua frenesia scientista, dietro la pretesa di essere il
socialismo scientifico occulta tutto ciò riducendolo alla
dimensione economica, e la dimensione economica riducendo alla questione
della tekne (le forze di produzione). Esso incatena l'uomo alla cogenza
della Storia (al cui cospetto diviene solo una cosa), di una Storia tra
l'altro de-moralizzata poiché la legge marxiana non è più la legge greca
teleologicamente orientata e pregna in senso etico, ma una legge meramente
quantitativa: dal destino dei Greci (la 'moira') alla necessità
meccanica/metafisica. "Tutta la sua teoria è prigioniera della riduzione
dell'etica a legge, della soggettività ad oggettività, della libertà a
necessità. La dominazione diviene ammissibile come condizione preliminare e
necessaria alla libertà, il capitalismo come condizione preliminare e
necessaria al socialismo, la centralizzazione come condizione
preliminare e necessaria alla decentralizzazione, lo Stato come condizione
preliminare e necessaria al comunismo" (Murray Bookchin).
La condanna marxiana del socialismo del suo tempo, contenuta appieno
nell'aggettivo 'utopistico', rivela l'immoralità profonda della dottrina e
il suo carattere di teknelatria. Il socialismo in Marx è il
prodotto delle cose, e non delle coscienze, poiché gli uomini, come cose,
sono piegati a leggi assolutamente cogenti: si legga l'equiparazione tra
legge sociale e legge naturale contenuta nella Introduzione del 57.
Saranno queste leggi, il cui segreto è stato carpito dalla dialettica
marxiana, i vettori del comunismo. In questo processo rigidamente
predeterminato non vi è posto per una qualche attitudine etica, miseramente
fissata al livello dell'ideologico e dunque del sovrastrutturale, e
denunciata come "falsa coscienza". Così, con l'eliminazione dell'assunto
etico, l'ultima barriera umanistica di fronte allo Stato Totale viene
abbattuta, e si apre la strada ai massacri, alle purghe, al Gulag, alla
follia (questa veramente Utopia Negativa) del Regime cambogiano di Pol Pot.
Qui la tekne si è tolta la benda mostrando il viso orrendamente corroso: è
l'ANKRA, l'Organizzazione senz'altro, la suprema istanza
decisionale. L'autonomia del mezzo rispetto al fine libera nel Partito
Comunista il sostantivo dall'aggettivo, ed è finalmente il Partito
senz'altro (senza qualità). La tekne trionfa, unico vero metro di
giudizio, solo punto di riferimento, discrimina tra il bene e il male.
Machiavelli in confronto non era che una timida timorata donnicciola.
E non si creda che il Regime di Pol Pot, per la sua impari ferocia, sia
universalmente riconosciuto come escrescenza mostruosa del convivere umano.
Discutendo a Parigi nel Collectif contre l'extradition de Piperno et
Pace con alcuni militanti dell'UCF(m-l), al mio sdegno essi opponevano
le ragioni della Storia, le pesanti analisi strutturali, la definizione dei
rapporti di classe. Alla mia indignazione tutta morale per il bagno di
sangue cambogiano essi ribattevano sgranando il rosario delle frasi iscritte
già nel Diamant. Ed infine: ma lì hanno abolito il Denaro!
Diceva Erich Maria Remarque: "Oggi nel mondo si sono aperte enormi
frontiere di conoscenza scientifica, ma gli orizzonti della responsabilità
morale sono sempre molto limitati. L'uomo come tale è sempre quello di
duemila anni fa, con la sua imbecillità, la sua crudeltà, il suo egotismo.
Se un uomo fosse stato in galera trent'anni, uscendo oggi non riconoscerebbe
il mondo sensibile: i suoi simili però non li troverebbe cambiati". La
storia, se dal punto di vista scientifico può essere accumulo e proseguire
per linee di progressione aritmetica, dal punto di vista etico (e quindi
della qualità della vita individuale e sociale), come dal punto di vista
estetico, è ritorno perenne, problema, travaglio. Nell'arte come nella
costruzione del vivere umano, il passato non fornisce alcuna garanzia,
poiché la libertà che è dell'uomo il segno distintivo ripropone il problema
nel presente.
Posta la norma, questa è già inadeguata alla situazione di fatto; il macigno
trascinato con fatica in cima alla vetta ricade subito giù. Il marxismo ha
creduto che a Sisifo potesse essere condonata la sua pena e che il ripiano
da scalare fosse infinito, ma ciò facendo stabiliva il primato della
tecnica, dell'oggettività, del passato, della morte in una parola, sull'arte
sulla soggettività sul presente sulla vita. Così ancora Remarque: "La
storia della civiltà è la storia dei dolori che l'hanno creata".