A proposito dei bambini giudei che,
durante l’occupazione tedesca, sono
stati affidati alle istituzioni e alle
famiglie cattoliche e che ora sono
reclamati dalle istituzioni giudaiche
perché siano loro restituiti, la
Congregazione del Sant’Uffizio ha preso
una decisione che si può riassumere
così:
1) Evitare, nella misura del possibile,
di rispondere per iscritto alle autorità
giudaiche, ma farlo oralmente
2) Ogni volta che sarà necessario
rispondere, bisognerà dire che la Chiesa
deve fare le sue indagini per studiare
ogni caso particolare
3) I bambini che sono stati battezzati
non potranno essere affidati a
istituzioni che non ne sappiano
assicurare l’educazione cristiana
4) I bambini che non hanno più i
genitori e dei quali la Chiesa s’è fatta
carico, non è conveniente che siano
abbandonati dalla Chiesa stessa o
affidati a persone che non hanno alcun
diritto su di loro, a meno che non siano
in grado di disporre di sé. Ciò
evidentemente per i bambini che non
fossero stati battezzati
5) Se i bambini sono stati affidati dai
loro genitori e se ora li reclamano,
potranno essere restituiti, ammesso che
i bambini stessi non abbiano ricevuto il
battesimo.
Si noti che questa decisione della
Congregazione del Sant’Uffizio è stata
approvata dal Santo Padre.
20 ottobre 1946 |
Tutto
comincia con un ritrovamento. Oppure, come poi
cercheranno di sostenere alcuni, con un presunto
ritrovamento. Comunque, un documento di fondamentale
importanza, una pesante testimonianza
sull’atteggiamento, e quindi sulle responsabilità
della Chiesa, riguardo alla questione ebraica nel
ventesimo secolo. Si tratta di una lettera in
francese ricevuta dal nunzio apostolico in Francia
nell’ottobre 1946, mons. Angelo Roncalli e futuro
Giovanni XXIII, e spedita, a quanto risulta, dal
Sant’Uffizio. Quindi direttamente da quelle stanze
vaticane sulle quali regna, in quegli anni, Eugenio
Pacelli, oggi il Pio XII in odore di santità, ma che
è stato spesso e da più parti aspramente criticato
per la sua sostanziale acquiescenza, se non
addirittura condiscendenza, con la politica
antisemita che avrebbe portato alla Shoah e allo
sterminio di sei milioni di ebrei da parte del
regime nazista. Questa lettera, depositata presso
gli archivi della Chiesa di Francia, e che
pubblichiamo integralmente nella traduzione
italiana, presto apparirà nel secondo tomo del
quinto volume che raccoglie le agende di lavoro di
Giovanni XXIII, curate da Etienne Fouilloux ed edite
dall’Istituto per le scienze religiose di Bologna.
Quindi, a dispetto di chi pretenderebbe di
dimostrarne il carattere apocrifo, niente di più
ufficiale.
Bizzarro sacramento
Lo storico cattolico Alberto Melloni, che ne ha
dato per primo notizia sul “Corriere della Sera”,
innescando così un dibattito che ha provocato decine
di interventi su quello e altri giornali, definisce
la lettera addirittura agghiacciante, e non è
difficile capire il perché. In essa, infatti, si
elargiscono “consigli” e si emanano direttive
rivolte a uniformare l’atteggiamento che le autorità
ecclesiastiche, in Francia ma presumibilmente
ovunque, dovevano tenere nei confronti dei bambini
ebrei che furono consegnati dalle famiglie a
conventi e istituti religiosi, per evitare loro il
tragico destino a cui li destinava il programma di
sterminio dei nazisti. Bambini che sfuggirono sì ai
campi, ma che poi vennero in gran parte battezzati,
al solito senza il consenso dei genitori, e che in
forza di questo bizzarro sacramento, furono
perennemente associati alla Chiesa. A quella Madre
universale che mai avrebbe poi voluto privarsene, e
che quindi dispone che non possono assolutamente
essere restituiti alle “autorità giudaiche o a
persone che non hanno alcun diritto su di loro”
perché non ne saprebbero assicurare l’educazione
cristiana. Considerando del tutto ininfluente,
quindi, il fatto che le persone che “non hanno alcun
diritto” siano i legittimi genitori.
Sembrerebbe ovvio che, dinanzi a un documento
talmente chiaro e preciso, la discussione avrebbe
dovuto riguardare solo le motivazioni, storiche ed
etiche, che spinsero il Vaticano ad adottare un
simile comportamento. Insomma, ci si poteva
legittimamente trovare d’accordo o meno sulle
motivazioni, ma non si poteva dubitare della
sostanza, vale a dire del fatto che la chiesa
riteneva e proclamava suo sacrosanto diritto
“rapire” i bimbi ebrei che le erano stati affidati,
per farne, contro ogni parvenza di diritto e di
umanità, dei buoni cristiani. E invece (ma non c’è
da meravigliarsene visto che razza di nervo scoperto
si è andato a molestare) da più parti si è fatto
ricorso ai più contorti ragionamenti, ora
giustificatori, ora “eticamente relativi”, per
trovare una qualche ragione o attenuante di tale
comportamento. Con una serie di rozzi tentativi, di
spiegazioni distorte o improbabili, per nascondere
l’evidenza della lettera, che rifletteva
coerentemente il secolare atteggiamento della
chiesa.
Ad aprire le ostilità ci ha pensato Vittorio Messori
che, con un intervento più papista del papa, ha
apertamente, e a suo modo anche onestamente,
rivendicato l’aberrante diritto del prete di non
restituire i piccoli giudei battezzati: “Se per una
qualunque ragione il battesimo è validamente
amministrato, questo rende ‘cristiani’ ex opere
operato, imprime il carattere indelebile di figlio
della Chiesa. La quale, sentendosi ‘madrÈ, non
consentirà di abbandonare chi è entrato con il
sacramento, per tutta l’eternità, nella sua famiglia
”. Insomma, una volta battezzati, e non importa se
contro la loro o altrui volontà, tali bambini
divengono legittima e inviolabile proprietà della
Chiesa stessa. Il fatto poi che nel documento si
accenni all’eventualità di non restituire, nei
limiti del possibile, neppure i bambini non
battezzati, dovrebbe mandare a carte quarantotto il
bel ragionamento di Messori, ma evidentemente tali
sofismi non vanno neppure presi in considerazione,
quasi che fossero solo delle provocazioni.
Atteggiamento antiguidaico
Se comunque l’intervento di Messori, per il suo
sincero e radicale estremismo, non ha trovato
fiancheggiatori ed è rimasto sostanzialmente
isolato, la controffensiva cattolica per rintuzzare
questo pesantissimo atto di autoaccusa si è
esercitata su altri fronti e con altre
argomentazioni. Con risultati financo goffi, per
questo arrampicarsi sugli specchi scivolosissimi
della difesa fideistica di un evento oggettivamente
indifendibile. Non pochi, così, hanno cercato di
spiegare, o meglio, di giustificare la disumanità
delle parole del Sant’Uffizio contestualizzandole:
argomentando, cioè, sulla oggettiva impossibilità
per chiunque, nel lontano 1946, di avere una esatta
percezione di cosa fossero stati i campi di
concentramento nazisti, di quanto mostruoso fosse
stato il dramma vissuto dal popolo ebraico, di cosa
fosse stata davvero la Shoah, il male assoluto del
ventesimo secolo. E questo non solo per la gente, ma
anche per le gerarchie ecclesiastiche che, non
essendo ancora sufficientemente informate, non
avevano motivo di modificare il loro tradizionale
atteggiamento antigiudaico. Diversamente, se si
fosse conosciuta la realtà, anche l’apparente
durezza del Sant’Uffizio si sarebbe necessariamente
mitigata.
Campione di questa interpretazione relativistica
della storia si dimostra Ernesto Galli della Loggia,
che sposta il problema cercando di scaricare le
oggettive responsabilità storiche della Chiesa
sull’intera società. Se, infatti, tutti sono
“colpevoli” perché ignari – e tra questi ci mette
pure Natalia Ginsburg, rea di avere dissentito con
Primo Levi sulla pubblicazione presso Einaudi di
Se questo è un uomo – allora è legittimo
affermare che colpevole non è più nessuno: se non si
era ancora pienamente concettualizzata la percezione
della Shoah così da poter mutare il pregiudizio
antigiudaico, la responsabilità di questo
pregiudizio, con il suo carico di “indifferenza,
antipatia, repulsa storico-religiosa, diffidenza
sociale”, era da addebitarsi all’intera società.
Sorvolando sul fatto che occorre tutto il coraggio
di Galli della Loggia per definire “diffidenza” o
“antipatia” i duemila anni di persecuzioni fisiche e
materiali esercitate dai cristiani sugli ebrei, è
chiaro che non si può liquidare l’aberrante
disposizione vaticana giustificandola come figlia
del suo tempo.
Altrimenti si potrebbe sostenere che, poiché ancora
si ignorava che molti dei genitori di quei bambini
erano stati gassati ad Auschwitz, sarebbe stato
legittimo e storicamente comprensibile non
restituirli. E che quindi il pregiudizio
antigiudaico alla base della lettera papale avrebbe
avuto, e continuato ad avere, ragion d’essere finché
non fosse stato sopravanzato e superato da quello
criminalmente antisemita dei nazisti. Il tutto,
naturalmente, senza volere ammettere la minima
correlazione fra i due pregiudizi. Ma basta allora
riandare al famoso caso Mortara, il piccolo ebreo
bolognese rapito ai genitori e forzatamente
battezzato a metà Ottocento, a alle durissime prese
di posizione di larghi settori della società, per
tornare con i piedi per terra e vedere il contenuto
della lettera papale in tutta la sua banale
mostruosità: Shoah o no, la pratica della Chiesa di
rapire piccoli giudei per battezzarli trovava,
allora come oggi, forti resistenze e dure
riprovazioni, perché si trattava oggettivamente di
un delitto, ancor prima che l’antigiudaismo si fosse
trasformato in antisemitismo. Per dirla con le
parole di Claudio Magris: “calarsi nell’epoca in cui
sono avvenute infami atrocità è necessario, ma forse
questo significa che quelle atrocità diventano meno
infami e atroci?”.
Lobbies ebraiche e logge massoniche
Riprendendo alcune delle argomentazioni di Galli
della Loggia, parte successivamente un serrato fuoco
di fila, soprattutto dal quotidiano della Conferenza
Episcopale “L’Avvenire”, per screditare, nella
sostanza, quella che ormai viene individuata come
una congiura orchestrata dal “Corriere”.
Tralasciando il volgare e indecente intervento di
tale Lucetta Scaraffia – la quale, rispolverando il
tristo luogo comune sull’avidità del giudeo, mette
in dubbio la veridicità della lettera argomentando
che, se fossero davvero stati tanti i bambini
“rapiti” dal Vaticano in quanto battezzati,
certamente la comunità ebraica si sarebbe mossa come
fece per recuperare le ricchezze depositate in
Svizzera durante la guerra – altri si sono prodigati
a mettere in dubbio l’autenticità del documento
interrogandosi sui secondi fini sottesi alla sua
pubblicazione, individuati, almeno inizialmente,
soprattutto nella presunta volontà di contrastare il
processo di beatificazione di Pio XII. Manovra di
cui si sarebbero rese responsabili le vendicative
lobbies ebraiche (per dirla con le parole pacate di
Amos Luzzatto o con quelle più accese di Goldhagen),
oppure, se si preferisce, le onnipresenti logge
massoniche o i malvagi postcomunisti, tra cui il
direttore del quotidiano milanese Paolo Mieli,
ansiosi di vendicarsi di chi li contrastò a muso
duro al termine della guerra.
E in effetti non è illegittimo pensare che si voglia
attaccare Pio XII, per salvare contestualmente, o
addirittura contrapporre al primo, il cosiddetto
“papa buono”, quel Giovanni XXIII che, ancora nunzio
apostolico in Turchia durante la guerra, si era
indubbiamente adoperato per salvare alcune famiglie
ebree, ricevendone poi riconoscimenti da parte delle
stesse autorità religiose ebraiche. Insomma, pare di
trovarsi di fronte alle figure stereotipate del
buono e del cattivo. E in questo caso la parte del
cattivo è assegnata a papa Pacelli che, se pure
permise che alcuni conventi romani aprissero le
porte per salvare ebrei in fuga (gli stessi
conventi, per altro, dove, a guerra finita si
sarebbero rifugiati innumerevoli gerarchi nazisti in
attesa di riparare in Sud America tramite i canali
diplomatici della Chiesa), pur tuttavia si dimostrò
debole e tollerante, se non addirittura connivente
con il nazismo e il fascismo (di cui, comunque,
ammirava l’affermazione costante del principio di
autorità, perché fra simili ci si intende), mentre
la parte del buono è attribuita a Roncalli che, come
è noto, si dava da fare per aprire la strada della
salvezza agli ebrei che si rivolgevano a lui.
Un attacco alla Chiesa?
Sennonché anche questa argomentazione, fatta per
distogliere dal fulcro della questione, ossia la
violenza esercitata e rivendicata dalla Chiesa sui
bambini ebrei a lei affidati, va ad incunearsi in
una problematica del tutto interna alle logiche
ecclesiastiche. Tanto che il gesuita padre Gempel,
che sta istruendo il processo di beatificazione di
Pio XII e che intuisce in tutto l’affaire
una manovra per arrestarlo, suppone o lascia
intendere che la lettera in questione, essendo
scritta in francese, non può essere stata
indirizzata a Roncalli (perché un papa italiano
avrebbe dovuto scrivere in francese a un nunzio
italiano?), ma sarebbe stata scritta come
“direttiva” per i vescovi francesi da Roncalli
stesso, che magari l’avrebbe resa ancora più dura,
anche su indicazioni del Sant’Uffizio. Quindi
nessuna contrapposizione fra i due. L’atteggiamento
sprezzantemente antigiudaico di Pio XII è speculare
a quello, forse meno sprezzante ma altrettanto
disumano, di Roncalli, ed entrambi corrispondono a
una medesima linea di condotta: i bambini ebrei
forzatamente battezzati non andavano restituiti ai
genitori o alla comunità ebraica. E anche il
presunto afflato antitotalitario di Roncalli, che
avrebbe ispirato il Concilio Vaticano II e
consegnato al mondo l’immagine più umana e
“democratica” della Chiesa postconciliare, andrebbe,
di fatto, a scontrarsi con le numerose e ripetute
dichiarazioni di stima per il principio d’autorità
assoluto che caratterizzava i regimi fascista e
nazista. Con buona pace, insomma, della stucchevole
immagine del “papa buono”.
A fianco di queste argomentazioni più o meno
pertinenti con il tema in questione, spicca
l’intervento di Giorgio Rumi, vittimista e
pesantemente affetto da mania di persecuzione, che
se la prende con quel preteso complotto
anticattolico – “l’inquisizione anticattolica”, come
la definisce – che oggi si aggira, come uno spettro,
sull’Europa. E questo è talmente centrale per lui,
che non si preoccupa minimamente di sfiorare i
contenuti della lettera, dedicandosi soltanto a
“denunciare” le inconfessabili finalità per cui
sarebbe stata pubblicata. Non un attacco a un papa o
all’altro, ma alla Chiesa nel suo complesso, e il
tutto alla luce della deplorevole intenzione di
“sottoporre i fatti del passato al tribunale del
presente”: senza contestualizzarli (e ci risiamo!).
Strano atteggiamento il suo, sostenitore di un uso
giudiziario della storia, quando si trattava di
giudicare i crimini dello stalinismo o di negare le
ragioni dei rivoluzionari nel 1917, e preoccupato
che ora tale uso giudiziario vada a colpire le colpe
della Chiesa. Tornando a bomba, comunque, sono
ragionevolmente convinto che, anche nel 1946, si
conoscesse o meno la realtà della Shoah, qualunque
persona di buon senso e di buon cuore avrebbe
giudicato abominevole il comportamento dei preti.
Come si può vedere, pressoché nessuno di parte
cattolica ha voluto prendere il toro per le corna e
affrontare l’argomento come si sarebbe, onestamente
e cristianamente, dovuto fare. Nessuno, cioè, ha
voluto considerare il secolare atteggiamento
antigiudaico come ragione della “normalità” della
lettera in questione (perché tale è questo
documento, e non certo un’aberrazione o un incidente
di percorso) e come prodromo necessario, inevitabile
e forse neanche del tutto involontario, della
degenerazione antisemita che sarebbe sfociata nel
progetto di sterminio dell’intero popolo ebraico.
Pio XII e Eichmann
Si è detto da più parti che è una bestemmia
associare Pio XII ad Eichmann, o affermare che
potrebbero essere messi su uno stesso piano.
Personalmente, potrei anche trovarmi d’accordo,
perché le conseguenze dei loro atti non sono certo
assimilabili. Ma ciò che mi pare inconfutabile è
che, in tutta la storia dell’occidente cristiano,
l’antigiudaismo è stato talmente sedimentato e
vissuto come normalità, se non addirittura come
dovere del cristiano, da produrre la mentalità
condivisa che avrebbe poi nutrito quell’antisemitismo
realizzatosi, nella sua forma più bestiale e
conseguente, con il nazismo. Come dar torto, ad
esempio, ad Arrigo Levi, quando sostiene che i campi
di sterminio vanno considerati solo come una
variante tecnologicamente più avanzata, uno
strumento più efficace fra quelli con i quali si
sono perseguitati storicamente gli ebrei: un salto
di qualità scientifico dunque, non ideologico. E
come non condividere il pensiero di Giorgio Israel,
quando ci ricorda che “la massima aspirazione della
Chiesa cattolica è stata di estinguere la presenza
ebraica, sanzionando così che il Messia era giunto”
e “che tale finalità è stata perseguita nei secoli
con mezzi più o meno brutali”. E con ripercussioni
che oggi ancora si riverberano come conseguenza di
“una storia secolare di antisemitismo che ha
sedimentato un armamentario di odio poi utilizzato
metodicamente anche nel contesto dell’antisemitismo
razziale e oggi nell’antisemitismo islamico e
nell’antisionismo di certi ambienti postcomunisti:
si pensi ai temi ricorrenti degli ebrei assetati di
potere e di denaro, o che impastano le azzime con
sangue di bambini cristiani sgozzati”.
Insomma, sicuramente Pio XII non è Eichmann, ma,
altrettanto sicuramente, senza la Chiesa e la
persecuzione antigiudaica, Eichmann non ci sarebbe
stato. E a dimostrazione di questa affermazione, che
potrebbe apparire troppo forte, sta il progressivo,
anche se contraddittorio mutare dell’atteggiamento
sprezzante nei confronti degli ebrei e del popolo
“deicida”, da parte di una Chiesa che oggi pare
finalmente consapevole che l’antisemitismo deve
essere considerato il moderno figlio del secolare,
anzi, millenario antigiudaismo dei cristiani. E la
“storica” visita dell’attuale papa alla sinagoga di
Roma, laddove chiamò gli ebrei “fratelli maggiori”,
non è stata altro che un tentativo, comunque
maldestro anche se di grande effetto scenico, di
esorcizzare le proprie colpe. Per dirla ancora con
Israel: “Il dialogo ebraico-cristiano richiede
pazienza. Non è pensabile che secoli di ‘disprezzo,
di ostilità e di persecuzione contro gli ebrei in
quanto ebrei’ non lascino traccia e che i passi
necessari a dissiparne le conseguenze possano essere
compiuti in poco tempo”. E infatti la reazione
scomposta del mondo cattolico fa pensare che il
nervo scoperto che si è andato a molestare sia
ancora troppo vivo e vivace perché possa essere
convenientemente “curato”.
Massimo Ortalli