Kropotkin - Un pensiero sempre attuale
di Nico Berti
Mentre a Kronstadt Trotzky ordinava il massacro dei
marinai insorti contro la burocrazia di partito, mentre in Ucraina l'armata
rossa sconfiggeva quella machnovista e strozzava l'autogestione, in un
paesino a nord di Mosca si spegneva Pietro Kropotkin. I funerali di questo
prestigioso militante anarchico segnarono emblematicamente l'ultima
manifestazione pubblica dell'anima libertaria della rivoluzione.
Nel sessantesimo anniversario della sua morte, il Centro Studi Libertari "G.
Pinelli" di Milano (viale Monza 255, telefono 02-2574073, orario 16-20
giorni feriali) ha promosso una giornata di studio sul suo pensiero, che si
terrà a Milano, domenica 15 marzo, a partire dalle ore 9.30, nel palazzo
Dugnani (via Manin 2). Questo palazzo si trova nelle immediate adiacenze
dello zoo comunale. Le relazioni previste sono nell'ordine, le seguenti:
Nico Berti, Scienza e scientismo / Tina Tomasi, L'istruzione
integrale / Giovanni Pesce, La geografia sociale / Riccardo
Mariani, La città e la campagna / Gian Paolo Prandstraller, La
società aperta.
Anche in vista di questa giornata di studio proponiamo la lettura di alcuni
brani kropotkiniani su argomenti centrali del suo pensiero, quali il
rapporto città/campagna, l'integrazione tra lavoro manuale e intellettuale,
il governo "rivoluzionario". Dalla sua autobiografia abbiamo tratto anche il
brano relativo alla sua fuga dal famigerato carcere moscovita. In apertura
del servizio, Nico Berti suggerisce un possibile approccio critico al
pensiero kropotkiniano.
I cardini del pensiero kropotkiniano possono essere riassunti in quattro
termini o definizioni: il comunismo, il mutuo appoggio, l'integrazione del
lavoro, la quasi identificazione fra anarchismo e metodo scientifico.
Incominciamo da quest'ultimo punto per risalire al primo. L'identificazione
fra metodo scientifico ed anarchismo è data da Kropotkin dalla similitudine
esistente fra la struttura della realtà e la metodologia anarchica. Per
l'anarchico russo, dopo la rivoluzione copernicana - che ha dato un colpo
mortale al geocentrismo - ogni scoperta scientifica confermerebbe il fatto
che la struttura dell'universo non ha un centro specifico di forza e di
direzione della forza; essa cioè dimostrerebbe la costituzionale
non-gerarchia di tutta la realtà naturale e materiale. Allo stesso modo, la
società anarchica non sarebbe in fondo che l'autentica società naturale che
lo sviluppo della scienza ha reso intelligibile e praticabile. Come
l'armonia della natura è frutto di una risultante e di equilibrio temporaneo
(anche se misurato in secoli o in millenni) perché nessuna legge eterna e
prestabilita presiede al suo evolversi, nessun governo insomma gestisce
la natura, così la società umana finirà col ripugnare le forme
prestabilite e cristallizzate delle leggi e cercherà l'armonia
nell'equilibrio sempre mutevole dei bisogni individuali e collettivi.
Risulta evidente da questa sommaria esposizione che questa identificazione
kropotkiniana fra scienza ed anarchismo sfocia inevitabilmente in un
determinismo naturalistico oggi del tutto superato, in quanto la visione
della scienza come strumento oggettivamente libertario e rivoluzionario non
può essere ritenuta attuale dopo l'esperienza storica dell'ultimo
cinquantennio. Nondimeno, l'accostamento kropotkiniano fra anarchismo e
scienza, ha un significato di insegnamento che va ben oltre la fallacia del
determinismo naturalistico. È un significato da riconnettersi al senso
autentico del carattere fondamentalmente sperimentale della metodologia
scientifica che qui può essere coniugata con alcune implicazioni ideologiche
proprie dell'anarchismo. Lo sperimentalismo, infatti, per il suo carattere
di "apertura", di "modificabilità", svolge, in un certo senso, una funzione
analoga a quella svolta dal pluralismo all'interno del procedimento proprio
dell'anarchismo. Nel progetto anarchico, come il pluralismo svolge nei
rapporti sociali la funzione di un equilibrio libertario ed egualitario fra
le parti, così lo sperimentalismo costituisce il sapere e quindi l'immagine
e l'intelligenza della realtà senza pretese totalizzanti e definitive.
Un altro punto importante del pensiero kropotkiniano è dato senz'altro
dall'analisi della divisione gerarchica del lavoro sociale. Mentre Proudhon
e Bakunin avevano centrato la propria attenzione soprattutto sulla
composizione delle classi sociali, Kropotkin amplia tale analisi a tutta la
realtà. Per esempio, per Kropotkin, alla divisione delle classi sociali
corrisponde, per analogia, la divisione gerarchica del territorio: i
rapporti tra divisione del lavoro e classi sociali sono così riprodotti tra
città e campagna, tra centro e periferia. Questa gerarchia delle funzioni
produttive, amministrative e culturali costituisce per Kropotkin il
modello tipo di ogni società autoritaria e non solo dell'organizzazione
capitalistica del lavoro presente nella società borghese. A questa
divisione gerarchica si contrappone la ricostruzione sociale kropotkiniana
che si basa sulla medesima estensione e generalizzazione possibile
dell'integrazione del lavoro. È un progetto basato su un piano armonico -
che potremmo anche definire "piano della vita" - che riconcilia uomo e
natura, vita e scienza; un progetto, per usare le parole di Kropotkin, che
deve essere al servizio della vita umana presa "nella sua interezza". Ecco
quindi la proposta di una società dove ogni individuo è produttore sia di
opere manuali che intellettuali, dove ognuno lavora a rotazione sia nei
campi che nelle industrie. Integrando in pari tempo tutte le funzioni
dominanti con quelle dominate, la trasformazione rivoluzionaria abbraccia in
questo modo l'intera struttura geografico-sociale.
Nasce da qui l'ipotesi comunista di Kropotkin basata sulla semplice norma
"ognuno secondo le sue forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni". Essa vuole
la trasformazione dell'economia politica in fisiologia sociale, secondo una
concezione che vede la scienza economica come studio della somma crescente
dei bisogni della società e dei mezzi per soddisfarli. Questa ipotesi
comunista ha per Kropotkin un riscontro obiettivo dato dal naturale mutuo
appoggio esistente in ogni società umana quale fattore determinante per la
sua evoluzione.
Gran parte dei volumi di Kropotkin sono tuttora disponibili in commercio. Le Edizioni Anarchismo hanno in catalogo La conquista del pane (pag.173, lire 7.000), Il mutuo appoggio (pag.232, lire 9.000), La letteratura russa (pag.232, lire 9.000), e Parole di un ribelle (pag.318, lire 9.000). La grande rivoluzione è invece esaurito, come pure i due volumi editi dalle Edizioni Antistato: l'antologia La società aperta curata da Herbert Read e la versione ridotta di Campi, fabbriche, officine curata e commentata da Colin Ward. Sempre le Edizioni Antistato hanno in programma una nuova antologia kropotkiniana, curata da Nico Berti. In qualche circolo o libreria (per esempio, alla libreria Utopia di Milano) si può ancora trovare il volume L'etica, stampato una decina d'anni fa dall'Edigraf di Catania. Presso Feltrinelli Editore è in catalogo l'autobiografia kropotkiniana Memorie di un rivoluzionario. Tra gli opuscoli editi da La Fiaccola di Ragusa c'è anche Lavoro manuale e lavoro intellettuale di Kropotkin. |
Il rapporto industria/agricoltura
(...) I fatti che abbiamo brevemente passato in rassegna mostrano, in un
certo modo, i benefici che si potrebbero trarre da una combinazione tra
agricoltura e industria, se quest'ultima arrivasse al villaggio non nel suo
aspetto attuale di fabbrica capitalistica, ma in quello di produzione
industriale socialmente organizzata, col pieno aiuto del macchinario e della
preparazione tecnica. In effetti, l'aspetto più evidente delle piccole
industrie è che un relativo benessere si riscontra solo dove esse sono
combinate con l'agricoltura: dove i lavoratori sono rimasti proprietari del
suolo e continuano a coltivarlo. Anche tra i tessitori francesi o moscoviti
che devono fare i conti con la concorrenza della fabbrica, domina un
relativo benessere, dal momento ch'essi non sono costretti a separarsi dalla
terra. Al contrario, non appena le forti tasse o l'impoverimento dovuto a
una crisi hanno spinto il lavoratore a domicilio ad abbandonare il suo
ultimo pezzo di terra all'usuraio, la miseria ha fatto il suo ingresso nella
casa. Lo sfruttatore diviene onnipotente, si fa ricorso a un terribile
superlavoro, e l'intera industria cade spesso in rovina.
Fatti del genere, come anche la pronunciata tendenza delle fabbriche a
migrare nei villaggi, che oggi giorno si fa sempre più palese, e ultimamente
ha trovato espressione nel movimento delle "Città Giardino", sono molto
indicativi. Naturalmente, sarebbe un grosso errore immaginare il ritorno
dell'industria al suo stadio manuale, allo scopo di combinarsi con
l'agricoltura. Ogni volta che sia possibile risparmiare lavoro umano per
mezzo di una macchina, la macchina è la benvenuta e sarà impiegata; e non
c'è quasi un solo settore dell'industria in cui il lavoro meccanico non
potrebbe essere introdotto con grande vantaggio, almeno in alcune fasi della
produzione. Nell'attuale stato caotico dell'industria, chiodi e temperini a
basso prezzo si possono fare a mano, e i cotoni comuni si possono tessere
col telaio a mano; ma una anomalia del genere non durerà. La macchina
prenderà il posto del lavoro manuale nella fabbricazione di merci comuni. Ma
nello stesso tempo il lavoro manuale stenderà il proprio dominio sulla
rifinitura artigianale di molte cose che vengono oggi interamente prodotte
in fabbrica; e rimarrà sempre un fattore importante per la nascita di
migliaia di industrie giovani e nuove.
Ma sorge il quesito: perché i cotoni, le stoffe di lana e le sete, oggi
tessuti a mano nei villaggi, non dovrebbero essere tessuti a macchina negli
stessi villaggi, senza che per questo si tralasci il lavoro nei campi?
Perché centinaia di industrie a domicilio oggi esercitate interamente a
mano, non dovrebbero far ricorso a macchine che risparmiano il lavoro, come
già avviene nella fabbricazione delle maglie e in molti altri campi? Non c'è
ragione perché piccoli motori non debbano avere un uso molto più
generalizzato di oggi, dovunque non ci sia bisogno di una fabbrica; e non
c'è ragione perché il villaggio non debba avere la sua piccola fabbrica,
dovunque il lavoro di fabbrica sia preferibile, come già si vede di tanto in
tanto in certi villaggi della Francia.
Ma c'è ancora di più. Non c'è ragione per cui la fabbrica, con la sua
energia motrice e il suo macchinario, non debba appartenere alla comunità,
come già avviene per la forza motrice nelle summenzionate officine e piccole
fabbriche della zona francese delle colline del Giura. È evidente che oggi,
sotto il sistema capitalistico, la fabbrica è la maledizione del villaggio,
dato che giunge a sottoporre i bambini a un lavoro eccessivo e a impoverire
i suoi abitanti maschi; ed è del tutto naturale che essa incontri l'ostilità
assoluta dei lavoratori, quando questi siano riusciti a mantenere le
organizzazioni delle loro antiche attività (come a Sheffield, o a Solingen),
o quando non siano ancora stati ridotti in completa miseria (come nel
Giura). Ma sotto una organizzazione sociale più razionale, la fabbrica non
troverebbe ostacoli come questi: sarebbe un bene per il villaggio. E abbiamo
già una inequivocabile prova che dimostra come passi in questa direzione
vengano fatti in alcune comunità di villaggio.
I vantaggi fisici e morali che l'uomo trarrebbe dividendo il suo lavoro tra
il campo e l'officina si presentano da sé. La difficoltà sta, ci dicono,
nella necessaria centralizzazione delle industrie moderne. Nell'industria,
come anche in politica, la centralizzazione conta tanti ammiratori! Ma in
entrambi i campi l'ideale dei centralizzatori sfortunatamente ha bisogno di
essere riveduto. In effetti, se analizziamo le industrie moderne, scopriamo
ben presto che per alcune di esse la collaborazione di centinaia, o persino
di migliaia di lavoratori raggruppati nello stesso posto è realmente
necessaria. Le grandi fonderie e le imprese minerarie appartengono
decisamente a questa categoria; i transatlantici non si possono costruire
nelle fabbriche di villaggio. Ma moltissime tra le nostre grosse fabbriche
non sono altro che agglomerati, sotto una amministrazione comune, di
parecchie industrie distinte; mentre altre sono semplici agglomerati di
centinaia di esemplari di una identica macchina; e tali sono la maggior
parte delle nostre gigantesche filande e tessiture. (...)
L'integrazione del lavoro (da "Campi, fabbriche, officine", 1898)
Una volta, gli uomini di scienza, e particolarmente quelli che
maggiormente contribuirono ai progressi della fisica, non disprezzavano il
lavoro manuale.
Galileo fabbricava colle sue mani i suoi telescopi. Newton, nella sua
infanzia, imparò a maneggiare gli arnesi da operaio. Egli esercitava il suo
giovane spirito a immaginare macchine ingegnosissime, e quando iniziò le sue
ricerche sul campo dell'ottica, seppe fare da sé le lenti dei suoi strumenti
e costruire il celebre telescopio, che, nella sua epoca, fu una cosa
ammirevole. Leibniz si dilettava di inventare macchine: molini a vento e
carrozze senza cavalli preoccupavano il suo spirito, non meno che le
speculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divenne botanico aiutando suo
padre, che era giardiniere, nel lavoro quotidiano. Insomma per quei grandi
genii, il lavoro manuale non era ostacolo alle ricerche astratte, anzi le
favoriva. (...)
Ai giorni nostri, tutto ciò è mutato. Col pretesto di applicare il principio
della divisione del lavoro, noi abbiamo scavato un fossato fra il lavoratore
intellettuale e il lavoratore manuale (...)
Da una parte, abbiamo uomini dotati di facoltà inventive, ma che non hanno
né l'istruzione scientifica necessaria, né i mezzi di fare esperimenti per
lunghi anni. E dall'altra parte, abbiamo uomini istruiti ben preparati per
l'esperimentazione, ma sprovvisti di qualsiasi genio inventivo perché la
loro istruzione fu troppo astratta, troppo scolastica, troppo secondo i
libri, e per l'ambiente in cui essi vivono (la stessa osservazione dovrebbe
esser fatta relativamente ai sociologhi, soprattutto agli economisti.
Quanti, anche fra i socialisti, studiano i libri e i sistemi, invece di
studiare i fatti della vita sociale). E non voglio ancora dir nulla del
sistema dei brevetti d'invenzione, che divide e sparpaglia gli sforzi invece
di combinarli.
Lo slancio di genio levantesi a volo, che caratterizzò gli operai all'aurora
del periodo industriale moderno, è completamente mancato nei nostri
scienziati ufficiali. E così continuerà ad essere finché essi resteranno
estranei al mondo, alla vita, piantati in mezzo ai loro libri polverosi;
finché essi non diventeranno veri operai, all'opera tra altri operai, nei
bagliori dell'altoforno, o presso il focolare della macchina nell'officina,
o davanti al tornio del meccanico; finché essi non si faranno marinai, per
vivere sul mare fra i marinai, o pescatori sulla barca da pesca, o
boscaiuoli nella foresta, o contadini fra i solchi.
I nostri critici d'arte, quali Ruskin e la sua scuola, non hanno cessato di
ripeterci, da qualche tempo, che non possiamo sperare una rinascita
dell'arte, finché i mestieri manuali saranno ciò che sono. Essi ci hanno
dimostrato che l'arte greca e l'arte romana furono generate dai mestieri
manuali. Altrettanto si può dire dei rapporti fra il lavoro manuale e la
finanza; la separazione di quello da questa condurrebbe l'uno e l'altra alla
decadenza.
Quanto alle grandi ispirazioni, di cui purtroppo si è tanto trascurato di
parlare nella maggior parte delle discussioni sull'arte che ebbero luogo
negli ultimi tempi, - ispirazioni che mancano ugualmente nel dominio della
scienza, - non possiamo aspettarcele se non da un'umanità che, spezzando le
sue catene e i suoi impacci attuali, si lascerà guidare dai principi
superiori della solidarietà e abolirà la dualità che esiste ancora nelle
nostre teorie d'etica e nella nostra filosofia.
È evidente che tutti possono ugualmente gustare la gioia delle ricerche
scientifiche. La varietà delle inclinazioni è tale che alcuni troveranno
maggior piacere nella scienza, altri nell'arte, e altri ancora in qualcuno
dei numerosi rami della produzione delle ricchezze. Ma qualunque sia la sua
occupazione preferita, ognuno sarà tanto più utile in quanto possederà una
seria cultura scientifica. E, di chiunque si tratti, - scienziato o artista,
fisico o sociologo, storico o poeta, - ognuno acquisterebbe maggior valore
se passasse una parte della sua vita nell'officina, o nella fattoria, o,
meglio ancora, nell'officina e nella fattoria. Essere a contatto
coll'umanità che lavora al suo compito quotidiano, e giungere alla
soddisfazione di sapere ch'egli pure si sdebita dei propri doveri di
produttore non privilegiato della ricchezza sociale, sarebbe per lo
scienziato, come pure per l'artista, uno slancio di vita nuova, un aumento
del genio creatore.
Come comprenderebbero meglio l'umanità, lo storico e il sociologo, se la
conoscessero, non già attraverso i libri, non da un piccolo numero di suoi
rappresentanti, ma nella sua integralità, e dopo averla veduta nella sua
vita, nel suo lavoro, nei suoi affari di tutti i giorni! Come la medicina
sarebbe più fiduciosa relativamente all'igiene, e quanto minore assegnamento
farebbe sulle sue ricette, se i giovani medici fossero gli infermieri degli
ammalati, e se le infermiere e gl'infermieri ricevessero l'istruzione dei
medici del nostro tempo! Come il poeta sentirebbe meglio le bellezze della
natura, come sarebbe più profonda la sua conoscenza del cuore umano, se,
contadino egli stesso, contemplasse il levar del sole stando in mezzo ai
coltivatori della terra, e se lottasse contro la tempesta al fianco dei
marinai, suoi fratelli, e se conoscesse la poesia del lavoro e del riposo, i
dolori e la gioia della lotta e della vittoria! - "Greift nur hinen ins
volle Menschleben", diceva Goethe. "Ein jeder lebt's - nicht vielen
ist's bekannt". Ma come sono pochi i poeti che seguono il suo
consiglio!
La così detta "divisione del lavoro" è nata sotto un regime che condannava
la massa degli operai a lavorare duramente per tutto il giorno e per tutta
la vita allo stesso genere di fastidioso lavoro. Ma se consideriamo quanto
siano poco numerosi i veri produttori di ricchezza, nella nostra società
attuale, e come il prodotto dei loro sforzi sia sprecato, siamo costretti a
riconoscere che Franklin aveva ragione di dire che cinque ore di lavoro ogni
giorno sarebbero sufficienti ad assicurare a ciascun membro di una nazione
civile il benessere che oggi è accessibile soltanto a pochi, purché ognuno
si assumesse la sua parte di lavoro nella produzione.
Ma abbiamo fatto qualche progresso, dal tempo in cui viveva Franklin, e
alcuni di tali progressi verificatisi nel ramo di produzione che finora era
rimasto più in ritardo, - l'agricoltura - furono da noi segnalati in un
nostro libro. Anche in questo ramo, la produttività del lavoro può essere
accresciuta in proporzioni considerevoli, e il lavoro stesso può esser reso
facile e gradevole.
Ebbene: se ognuno facesse la propria parte di produzione, e se tale
produzione fosse socializzata, come ci sarebbe indicato da un'economia
sociale mirante alla soddisfazione dei sempre crescenti bisogni di tutti, -
allora resterebbe ad ognuno più della metà della giornata di lavoro, per
dedicarsi all'arte, alla scienza o a qualsiasi altra distrazione preferita.
E il lavoro di ognuno nel campo artistico o scientifico sarebbe tanto più
profittevole in quantoché ognuno avrebbe impiegata l'altra metà della
giornata per un lavoro produttivo. L'arte e la scienza ci guadagnerebbero se
fossero coltivate soltanto per pura inclinazione e non con uno scopo
mercantile. D'altra parte, una società organizzata sul principio che tutti i
suoi membri dovessero partecipare alla produzione sarebbe ricca abbastanza
per poter decidere che ognuno, a una certa età - a quaranta o cinquant'anni,
per esempio - fosse esonerato dall'obbligo morale di partecipare
direttamente all'esecuzione del lavoro manuale necessario, cosicché potesse
dedicarsi interamente a ricerche scientifiche, a lavori d'arte o di
qualsiasi altro genere.
Così si garantirebbe pienamente la libera ricerca nelle nuove regioni
dell'arte e della scienza, la libera creazione, il libero sviluppo di
ognuno. E una tale società non conoscerebbe la miseria in seno
all'abbondanza. Ignorerebbe la dualità di coscienza di cui è compenetrata la
nostra vita e che paralizza ogni nobile sforzo, e si slancerebbe liberamente
verso le più alte regioni del progresso compatibile con la natura umana.
Il governo rivoluzionario (da "Parole di un ribelle", 1885)
Un "governo rivoluzionario!". Ecco due parole che suonano stranamente
all'orecchio di coloro che si rendono conto di ciò che deve significare la
Rivoluzione Sociale e di ciò che significa un governo. Due parole che si
contraddicono, si distruggono l'un l'altra. Si sono veduti, infatti, dei
governi dispotici, - per la sua essenza qualunque governo abbraccia la
reazione contro la rivoluzione e tende necessariamente al dispotismo; - ma
non si è mai visto un governo rivoluzionario, ed a ragione.
La Rivoluzione, - sinonimo di "disordine", di rovesciamento in pochi giorni
di istituzioni secolari, di demolizione violenta delle forme stabilite di
proprietà, di distruzione delle caste, di trasformazione rapida delle idee
ammesse sulla moralità o meglio sull'ipocrisia che la sostituisce, di
libertà individuale e di azione spontanea, - è precisamente l'opposto, la
negazione del governo, sinonimo di "ordine costituito", di conservatismo, di
mantenimento delle istituzioni vigenti, di soppressione d'ogni iniziativa ed
azione individuale. E nondimeno, noi sentiamo continuamente parlare di
questo merlo bianco, come se un "governo rivoluzionario" fosse la più
semplice cosa del mondo, tanto comune e conosciuta da tutti come la
regalità, l'impero o la teocrazia. (...)
I pericoli ai quali si espone la rivoluzione, se si lascia dominare da un
governo eletto, sono così evidenti che tutta una scuola di rivoluzionari
rinuncia completamente a questa idea. Essi comprendono che è impossibile ad
un popolo insorto, di darsi, mediante elezioni, un governo che non
rappresenti il passato e che non sia un ceppo attaccato ai piedi di un
popolo, soprattutto quando si tratta di compiere quella immensa
rigenerazione economica, politica e morale, che noi chiamiamo Rivoluzione
Sociale. Essi rinunciano dunque all'idea di un governo "legale", almeno nel
periodo che è una rivolta contro la legalità e preconizzano la "dittatura
rivoluzionaria".
- Il partito, - dicono essi, - che avrà rovesciato il governo, si sostituirà
colla forza al suo posto. S'impadronirà del potere e procederà con metodo
rivoluzionario. Prenderà le misure necessarie per assicurare il trionfo
dell'insurrezione; abbatterà le vecchie istituzioni; organizzerà la difesa
del territorio. Per coloro che non vorranno riconoscere la sua autorità, -
la ghigliottina; per coloro, popolo o borghesi, che rifiuteranno d'obbedire
agli ordini che darà per regolare la marcia della Rivoluzione, - ancora la
ghigliottina. - Ecco, come ragionano i Robespierre in erba, coloro che della
grande epopea del secolo scorso non ricordano che i giorni della sua fine, e
coloro che ne hanno appreso solo i discorsi dei procuratori della
repubblica.
Per noi, anarchici, la dittatura di un individuo o di un partito, - in
fondo, la stessa cosa, - è definitivamente condannata. Noi sappiamo che una
Rivoluzione Sociale non si dirige collo spirito di un sol uomo o di un
gruppo. Noi sappiamo che governo e Rivoluzione sono incompatibili; l'uno
deve uccidere l'altra, qualunque sia il nome dato al governo. Noi sappiamo
che la forza e la verità del nostro partito sta nella sua formula
fondamentale: - "Nulla si fa di buono e di durevole senza la libera
iniziativa del popolo, ed ogni potere tende ad ucciderla"; per questo i
migliori dei nostri, se le loro idee non dovessero essere più vagliate dal
popolo che le deve mettere in esecuzione e diventassero padroni di questo
arnese formidabile - il governo - a guisa da muovere tutto a modo loro, otto
giorni dopo bisognerebbe pugnalarli. Noi sappiamo dove conduca qualunque
dittatura, anche la meglio intenzionata, - alla morte della Rivoluzione. E
sappiamo, infine, che questa idea di dittatura, il prodotto malsano del
feticismo governativo, ha sempre perpetrato la schiavitù, come il feticismo
religioso. (...)
Lasciar stabilire un governo qualunque, un potere forte e ubbidito,
significa ostacolare sin dal principio la marcia della Rivoluzione. Il bene
che potrebbe fare questo governo è nullo, il male immenso. Infatti, di che
si tratta, che cosa intendiamo noi per Rivoluzione? - Non già un semplice
cambiamento di governi; ma la presa di possesso da parte del popolo di tutta
la ricchezza sociale, l'abolizione di tutti i poteri che non hanno mai
cessato d'intralciare lo sviluppo dell'umanità! È con decreti emanati da un
governo che questa immensa Rivoluzione economica può essere compiuta? Noi
abbiamo visto, nel secolo scorso, il dittatore rivoluzionario polacco
Kosciusko decretare l'abolizione della servitù personale; - la servitù durò
ancora ottant'anni dopo questo decreto. Noi abbiamo visto la Convenzione,
l'onnipotente Convenzione, la terribile Convenzione, come dicono i suoi
ammiratori, - decretare la divisione per testa di tutte le terre comunali
riprese ai signori. Come tanti altri, questo decreto restò lettera morta,
perché, per metterlo in esecuzione, bisognava che i proletari delle campagne
facessero una nuova Rivoluzione, e le Rivoluzioni non si fanno a colpi di
decreti. Perché la presa di possesso della ricchezza sociale da parte del
popolo divenga un fatto compiuto, occorre che il popolo si senta forte e
sicuro, scuota la servitù alla quale è troppo abituato, agisca di sua testa
e proceda arditamente senza aspettare ordini da nessuno. Ora la dittatura,
anche quando fosse la meglio intenzionata del mondo, impedirà precisamente
tutto questo, pur essendo incapace di far progredire in altro modo la
rivoluzione.
Ma se il governo, - fosse anche un governo rivoluzionario ideale, - non crea una forza nuova e non presenta alcun vantaggio per il lavoro di demolizione che dobbiamo compiere, - noi possiamo ancor meno contare su lui per la susseguente opera di riorganizzazione. Il cambiamento economico che risulterà dalla Rivoluzione Sociale sarà così immenso e profondo, dovrà mutare talmente tutte le relazioni odierne basate sulla proprietà e lo scambio, - che è impossibile, a uno o a pochi individui, di elaborare le forme sociali che devono nascere nella società futura. Questa elaborazione di nuove forme sociali non può farsi che col lavoro collettivo delle masse. Per soddisfare alla immensa varietà delle condizioni e dei bisogni che nasceranno il giorno in cui la proprietà individuale sarà abolita, occorre la flessibilità dello spirito collettivo del paese. Qualunque autorità esterna non sarà che un inciampo, un impedimento a questo lavoro organico da compiersi, e, quindi, una fonte di discordie e di odi.
Col cuore in gola
(...) Nella fortezza un compagno che era stato nel carcere dell'ospedale
mi aveva detto che non sarebbe stato difficile fuggire, e informai i miei
amici del luogo dove mi trovavo. La fuga però apparve molto più difficile di
quanto mi avevano indotto a credere. Una sorveglianza rigidissima si
esercitava inesorabilmente su di me, più severa di quanto si fosse mai
sentito prima. La sentinella che passeggiava in corridoio era comandata alla
mia porta e non mi si permetteva mai di uscire dalla mia stanza. I soldati
dell'ospedale e gli ufficiali di guardia che vi entravano di tanto in tanto
non osavano fermarsi più di un minuto o due. I miei amici immaginarono vari
mezzi per liberarmi, alcuni molto curiosi. Dovevo, per esempio, limare
l'inferriata della mia finestra, poi una notte di pioggia, mentre la
sentinella sonnecchiava nella sua garritta, due uomini si sarebbero fatti
avanti pian piano, rovesciando la garritta in modo da farla cadere sulla
sentinella, chiudendovela come un topo in trappola, senza però fargli del
male. Intanto io dovevo saltare dalla finestra. Ma si arrivò a una soluzione
migliore in un modo inaspettato.
"Chiedete il permesso di fare una passeggiata", mi sussurrò un giorno un
soldato. Lo feci, il dottore appoggiò la mia domanda e ogni pomeriggio alle
quattro mi fu permesso di passeggiare un'ora nel cortile della prigione.
Dovevo tenermi addosso la vestaglia di flanella verde che portavano i
malati, ma le mie scarpe, il panciotto e i pantaloni mi venivano consegnati
tutti i giorni.
Non dimenticherò mai la mia prima passeggiata. Quando fui condotto
all'aperto mi vidi davanti un cortile lungo ben trecento passi e largo più
di duecento, tutto coperto d'erba. Il cancello era aperto e fuori vedevo la
strada, l'enorme ospedale dirinpetto e il viavai di passanti. Mi fermai un
momento sulla porta della prigione, incapace di muovermi quando vidi quel
cortile e quel cancello.
A un'estremità del cortile si trovava la prigione, un edificio stretto,
lungo circa centocinquanta passi, con garritte per le sentinelle alle due
estremità. Le due sentinelle marciavano su e giù davanti al fabbricato e con
i loro passi avevano segnato un sentiero in mezzo all'erba. Mi dissero di
camminare in mezzo a questo sentiero e le due sentinelle continuavano la
loro strada, così che non mi trovavo mai a più di dieci o quindici passi da
una di loro. Tre soldati dell'ospedale sedevano vicino alla porta.
All'altra estremità di questo lungo cortile dei contadini stavano scaricando
della legna da una dozzina di carri e la deponevano lungo il muro. Tutto il
cortile era chiuso da uno steccato costruito con grosse tavole. Il cancello
era aperto per lasciar passare i carri.
Quel cancello aperto mi affascinava. "Non devo fissarlo", mi dicevo, eppure
non ne staccavo mai gli occhi. Appena mi ricondussero in cella scrissi ai
miei amici per comunicare loro la bella notizia. "Non riesco quasi a
servirmi delle cifre", scrissi con mano tremante tracciando geroglifici
quasi illeggibili al posto delle cifre; "questo approssimarsi della libertà
mi fa tremare come se avessi la febbre. Oggi mi hanno condotto fuori del
cortile; il cancello era aperto e nessuna sentinella lo custodiva. Da quel
cancello io fuggirò; le mie sentinelle non mi prenderanno" e stesi il piano
della fuga. "Una signora deve venire in carrozza aperta all'ospedale.
Scenderà e la carrozza l'aspetterà nella strada a una cinquantina di passi
dal cancello. Quando uscirò alle quattro camminerò per un poco con il
cappello in mano e qualcuno dal di fuori starà a vedere e l'interpreterà
come il segnale che tutto va bene nella prigione. Allora tocca a voi
rispondere: 'la strada è libera.' Senza di ciò non mi muoverò, una volta
passato il cancello non devo essere ripreso. Potrete servirvi solo della
luce o del suono come segnale. Il cocchiere potrebbe proiettare un raggio di
luce, i raggi del sole riflessi dal suo cappello lucido sul fabbricato
principale dell'ospedale, che a quell'ora è in ombra, o meglio ancora un
canto che continuasse tutto il tempo che la strada resta libera; a meno che
non vi riuscisse di affittare il villino grigio che vedo dal cortile, e
allora potreste fare un segnale dalla finestra. La sentinella correrà come
un cane dietro la lepre, facendo una curva, mentre io correrò in linea retta
e guadagnerò cinque o dieci passi. Arrivato nella strada salterò
nella carrozza e partiremo al galoppo. Se la sentinella facesse fuoco -
ebbene, sarà quel che sarà, questo è al di fuori delle nostre possibilità
d'azione; e poi di fronte alla certezza di morire in prigione val bene la
pena di correre il rischio".
Furono proposti degli altri progetti, ma si finì con l'adottare questo.
Il nostro Circolo si incaricò della cosa, persone che neppure conoscevo se
ne interessarono come si fosse trattato della liberazione del più caro dei
loro fratelli.
Dovevano però superare grandi difficoltà, e il tempo volava con una rapidità
spaventosa. Lavoravo intensamente e studiavo fino a notte tarda, ma
nonostante questo la mia salute migliorava così rapidamente che ne ero
sorpreso. Quando ero stato condotto nel cortile la prima volta potevo solo
trascinarmi a passo di tartaruga sul sentiero battuto; ora sentivo la forza
di correre. È vero che continuavo a camminare con lo stesso passo di lumaca,
per evitare che mi si proibissero le passeggiate; ma la mia naturale
vivacità poteva tradirmi da un momento all'altro. E intanto i miei compagni
dovevano trovare più di una ventina di persone che partecipassero
all'impresa, trovare un cavallo sicuro, un cocchere esperto e pensare a
cento particolari imprevisti, che sorgono sempre in complotti del genere.
Questi preparativi si protrassero per circa un mese e da un giorno all'altro
mi si poteva trasferire alla Casa di detenzione.
Finalmente fu fissato il giorno della fuga. Il 29 giugno, vecchio stile, è
il giorno dei Santi Pietro e Paolo. I miei amici volevano liberarmi proprio
quel giorno, aggiungendo una sfumatura sentimentale alla loro impresa. Mi
avevano fatto sapere che in risposta al mio segnale - tutto bene all'interno
- mi avrebbero comunicato con un palloncino rosso da bambini mandato in aria
che tutto andava bene anche fuori. Allora la carrozza si sarebbe avvicinata
e qualcuno avrebbe cantato una canzone per farmi sapere che la strada era
libera.
Uscii, presi il cappello in mano e aspettai il palloncino. Ma non si vide
per nulla. Passò una mezz'ora. Sentii il rumore di una carrozza che si
avvicinava. Sentii una voce d'uomo che cantava una canzone che non
conoscevo, ma non c'era il palloncino.
L'ora era passata e pieno d'angoscia ritornai nella mia stanza. "Deve essere
successa qualche disgrazia", mi dicevo.
L'impossibile era successo quel giorno. A Pietroburgo, vicino al Gastinoi
Dvor sono sempre in vendita centinaia di palloncini per bambini. Quella
mattina non c'erano e non fu possibile trovarne uno! Finalmente ne trovarono
uno nelle mani di un bambino, ma era floscio e non voleva alzarsi. I miei
amici corsero allora nel negozio di un ottico, comperarono un apparecchio
per fabbricare l'idrogeno e ne riempirono il palloncino: ma questo si
ostinava a non alzarsi: l'idrogeno non era abbastanza secco. Il tempo
incalzava. Una signora legò allora il palloncino al suo ombrello e tenendolo
ben in alto passeggiò su e giù per la strada lungo il muro esterno del
nostro cortile: ma io non avevo visto nulla. O il muro era troppo alto o la
signora troppo piccola.
Fu una vera fortuna e non avrebbe potuto succederci nulla di meglio della
mancanza di questo palloncino, perché quando, finita l'ora della mia
passeggiata, la carrozza percorse l'itinerario fissato per la mia fuga, in
una strada stretta fu fermata da una dozzina di carri che portavano legna
per l'ospedale. Successe una confusione, alcuni dei carri erano sulla
destra, altri sulla sinistra della strada e la carrozza dovette passare in
mezzo a loro a passo d'uomo e a un angolo dovette fermarsi. Se vi fossi
stato dentro mi avrebbero ripreso.
Fu stabilito allora tutto un sistema di segnali lungo la strada che dovevo
percorrere dopo la fuga, per significarmi se la via era libera o no. Per un
tratto di due miglia dall'ospedale i miei compagni si appostarono in
vedetta. Uno avrebbe passeggiato su e giù con un fazzoletto in mano, che
all'avvicinarsi dei carri avrebbe messo in tasca; un altro doveva sedere sul
marciapiede e mangiare delle ciliege, fermandosi se i carri si fossero
avvicinati, e così via. Tutti questi segnali trasmessi lungo la via
sarebbero finalmente arrivati alla carrozza. I miei amici avevano anche
preso in affitto il villino grigio che vedevo dal cortile e in quella casa,
alla finestra, stava un violinista, pronto a suonare quando il segnale - via
libera - gli fosse arrivato.
Il tentativo fu fissato per il giorno dopo: sarebbe stato pericoloso
aspettare ancora. Il personale dell'ospedale doveva aver notato la presenza
della carrozza e qualche sospetto doveva essere arrivato alle orecchie delle
autorità, perché la notte prima della mia fuga sentii l'ufficiale di guardia
che chiedeva alla sentinella di servizio davanti alla mia finestra: "Dove
sono le tue cartucce?". Il soldato incominciò a levarle lentamente dalla
cartuccera, mettendoci un buon paio di minuti. L'ufficiale di guardia prese
a redarguirlo aspramente: "Non ti hanno detto che questa notte devi tenere
quattro cartucce nella tasca della giacca?" e restò vicino alla sentinella
finché questa si fu messa le quattro cartucce in tasca. "Sta attento", gli
disse allontanandosi.
Bisognava comunicarmi il nuovo codice di segnali; il giorno dopo alle due
una signora, una mia cara parente, venne alla prigione e pregò che mi
consegnassero un orologio. Ogni oggetto doveva passare dalle mani del
procuratore, ma trattandosi di un orologio a calotta semplice, lo
accettarono. Dentro vi era un piccolissimo biglietto cifrato che spiegava
tutto. Quando lo trovai fui terrorizzato da tanta audacia. La signora,
ricercata anche lei dalla polizia per ragioni politiche, sarebbe stata
immediatamente arrestata se qualcuno avesse pensato di aprire la calotta. Ma
la vidi uscire tranquillamente dalla prigione e allontanarsi lentamente
lungo il viale.
Uscii come al solito alle quattro e diedi il segnale. Poi sentii il rumore
di una carrozza e pochi minuti dopo il suono di un violino veniva dalla casa
grigia al nostro cortile. Ma mi trovavo in quel momento all'altra estremità
del fabbricato. Quando arrivai all'estremità del sentiero più vicina al
cancello, la sentinella mi stava proprio alle spalle. "Ancora un giro",
pensai, ma prima che io arrivassi in fondo, il violino tacque
improvvisamente.
Passò più di un quarto d'ora, pieno di angoscia per me, prima che capissi la
ragione dell'interruzione. Allora una dozzina di carri ben carichi entrarono
dal cancello e andarono a disporsi in fondo al cortile.
Subito il violinista, davvero bravissimo, intonò una mazurka vivacissima del
Kontskij, quasi volesse dirmi: su, avanti, ecco il momento. Mi incamminai
lentamente lungo il viottolo dalla parte più vicina al cancello, tremando al
pensiero che la mazurka potesse interrompersi prima che lo raggiungessi.
Quando vi arrivai mi detti un'occhiata intorno. La sentinella si era fermata
a cinque o sei passi dietro di me e guardava dall'altra parte. Ricordo che
mi balenò un momento il pensiero: ora o mai! Buttai via la vestaglia verde e
incomincia a correre.
Per molti giorni mi ero esercitato a liberarmi di quell'indumento tanto
lungo e ingombrante. Era così lungo che ne tenevo l'estremità sul braccio
sinistro, come fanno le signore con lo strascico. Per quanto facessi, non
riuscivo a spogliarmene con una mossa sola; l'avevo anche scucito sotto le
ascelle ma non serviva. Decisi allora di esercitarmi a buttarlo via in due
mosse, liberando il braccio dalla coda e lasciando cadere l'accappatoio in
terra. Provai e riprovai con pazienza nella mia camera finché riuscì a farlo
con la stessa precisione con cui i soldati manneggiano le carabine, - uno,
due - e la vestaglia era in terra.
Non mi fidavo molto delle mie forze e incominciai a correre piuttosto adagio
per non esaurirle subito. Ma avevo appena fatto qualche passo quando i
contadini che accatastavano la legna dall'altra parte del cortile si misero
a gridare: "Scappa, fermatelo! Arrestatelo!" e correvano per tagliarmi la
strada al cancello. Accelerai allora disperatamente. Non pensai più che a
correre e saltai il solco che le ruote dei carri avevano scavato davanti al
cancello. Via, via, con tutte le mie forze!