Un'utopia imperfetta
di Avraham Yassour

Il kibbutz è una comune basata su un'idea socialista. Il kibbutz opera come un'unità socio-economica compatta e organica, che s'incarica della produzione e della riproduzione dei valori materiali e "ideologici" e garantisce la distribuzione dei compensi materiali su basi egualitarie.
"Il kibbutz è una libera associazione di persone finalizzata all'insediamento, all'assimilazione e al mantenimento di una società collettiva organizzata in base ai principi della proprietà comune, del lavoro volontario e della cooperazione in tutti i settori della produzione, del consumo e dell'istruzione.... Il kibbutz provvederà a tutti i bisogni materiali, sociali e culturali dei suoi membri.... La soddisfazione di questi bisogni avrà luogo tenendo fede al principio del consumo cooperativo e dell'uguaglianza dei diritti e delle condizioni di vita, in conformità alle norme e alle procedure stabilite dal kibbutz stesso."
(Da: The Kibbutz-Society Regulations)

Cerchiamo di eliminare ogni disuguaglianza, ovvero le disuguaglianze sul piano educativo, sociale, economico e politico, derivanti dalla distribuzione del potere e dei privilegi. Uguale rispetto per tutti i bisogni dell'uomo, pur salvaguardando le differenze e le preferenze individuali - questa è la nostra interpretazione della concezione marxista di una futura società socialista, nella quale siano abolite le classi (o i differenti status sociali). "Il lavoro è divenuto non più un semplice mezzo di sussistenza, ma una necessità vitale primaria; le forze produttive si sono sviluppate di pari passo con lo sviluppo globale e complessivo dell'individuo, e tutte le sorgenti del benessere cooperativo sono ora più copiose" - alla Fourier: nella comunità dei kibbutz non esiste tensione tra uguaglianza e libertà (de Toqueville), ma piuttosto tra l'impegno a soddisfare i bisogni individuali e la capacità materiale del kibbutz di farlo. Per i membri del kibbutz, l'uguaglianza è il diritto assoluto di ogni essere umano di "svilupparsi in modo completo". Questa non è una condizione preliminare e necessaria alla libertà e alla solidarietà, bensì un modo per minimizzare (e alla fine abolire) tutte le disparità materiali e politiche e tutte le ricompense simboliche che competono ai diversi status sociali. La differenza di status, di benessere e di potere sarebbe causa di tensioni e di distorsioni. Una sostanziale uguaglianza ci consente di continuare a spartire il benessere e il potere, evitando nel contempo la burocratizzazione e la meritocrazia, che rischierebbero di contaminare la nostra vita comunitaria democratica ed egualitaria in un ambiente ostile.
Il kibbutz ha caratteristiche socio-anarchiche. Mentre dobbiamo sicuramente dare inizio alla "lunga marcia" per eliminare la disuguaglianza, le differenze di status, le disparità nel campo dell'occupazione e con riferimento al sesso e all'età, non è facile, credetemi, promuovere la necessaria rigenerazione della società moderna, dallo sfruttamento all'uguaglianza, soprattutto quando a questo tentativo si unisce l'impegno a riportare a nuova vita il popolo ebraico.
Martin Buber distingue tre forme di cooperazione: le cooperative di consumo, le cooperative di produzione e il Vollgenossenschaft, che tradotto significherebbe "cooperative globali, piene", fondato sull'"unione della produzione e del consumo". Seguendo le orme del suo amico, il troppo trascurato pensatore anarchico Gustav Landauer, Buber afferma (nel suo Sentieri in Utopia): "Se il principio della ristrutturazione organica della società deve diventare un fattore determinante, l'influenza della "cooperativa globale" si renderà necessaria, poiché in essa la produzione e il consumo sono uniti e l'industria è complementare all'agricoltura. Per quanto tempo sia necessario alla "cooperativa globale" per diventare la cellula di base della nuova società, è essenziale che essa cominci fin d'ora a costituirsi come un complesso assai più vasto di centri di attività e di interessi magnetici e legati tra loro". Nella decisione fondamentale di ricostruire la società come communitas communitatum Buber considera i risultati raggiunti dai kibbutz come "segnali di non-fallimento".
L'uguaglianza (e non l'equità) è una condizione necessaria per conquistare la solidarietà e la giustizia, che a loro volta sono condizioni necessarie per porre termine all'alienazione e per instaurare veri legami di amicizia. La vera amicizia è possibile solo in una società non-competitiva. In una società cosiffatta è possibile garantire la distribuzione delle risorse secondo le necessità individuali, secondo la separazione degli outputs (contributo della forza lavoro) e i livelli di consumo (distribuzione degli alimenti). Riusciamo a tenere sotto controllo le tensioni prodotte dalle richieste di "libero approvvigionamento", dai "desideri" e dai "bisogni".
Non crediamo che la condizione di homo oeconomicus e la società di mercato siano caratteristiche eterne della natura umana. Né, d'altra parte, era di questo avviso Rousseau ("Eguaglianza - perché non vi può essere libertà senza di essa"), o i socialisti utopisti, o Marx ("la reciprocità, nella quale ogni cosa è al tempo stesso mezzo e fine"). Inoltre, esistono in proposito le teorie moderne di Ch. Jencks ("la felicità di ogni individuo ha uguale valore"), di J. Rawl ("le leggi e le istituzioni, non importa quanto efficaci e bene organizzate, devono essere riformate o abolite, se sono ingiuste") e di molti altri. Pochi anni fa una sociologa americana, E. Rosenfeld, pubblicò uno studio sulla stratificazione sociale, confrontando la vita in un kibbutz israeliano con la tendenza generale che si riscontra nelle società borghesi. La Rosenfeld individuò vari strati sociali all'interno del kibbutz: i "vecchi", la "base", e i "lavoratori saltuari". Benché lo studio avesse un carattere empirico, esso rifletteva chiaramente l'ipotesi preliminare dell'autrice, e cioè l'esistenza, nella società-economia moderna, di una "funzionalità imperativa" orientata verso la stratificazione sociale e la disuguaglianza. Ritengo che la metodologia e la terminologia usate in questo caso fossero inadeguate. Esse,infatti, risultano inefficaci perché, di fatto, l'impegno ad una vita comunitaria e al rispetto di una ideologia appropriata (solidarietà cooperativa totale, libertà nell'uguaglianza e nel rispetto delle necessità personali) ha la precedenza su qualsiasi "funzionalità imperativa".
Di più: lo stesso si può dire del pregiudizio secondo il quale l'efficienza di una società dipende da un'amministrazione e da un governo su basi gerarchiche. Il kibbutz ha dimostrato che nel campo dell'agricoltura i metodi migliori per favorire lo sviluppo e i risultati materiali non sono né la gerarchia, né l'autorità, né i compensi individuali e neppure la gestione amministrativa. Nel caso dell'industria, il problema è più complesso. Dobbiamo costruire industrie secondo il principio della massimizzazione dei profitti? Oppure, seguendo la tradizione ideologica socialista e libertaria che ci è propria, possiamo raggiungere un grado di efficienza economica e amministrativa elevato pur conservando una forma di democrazia diretta? Mentre l'esito è ancora incerto (siamo nella fase di industrializzazione), posso dire che attraverso la rotazione degli incarichi siamo riusciti a superare le divisioni tra la direzione permanente della fabbrica e gli operai addetti alla produzione. In questo modo siamo riusciti a preservare un tipo di rapporto egualitario nell'amministrazione delle fabbriche di proprietà del kibbutz e un alto grado di partecipazione alla gestione aziendale. Ma ciò che è più importante, questi risultati sono stati ottenuti senza sacrificare i profitti. La separazione tra i dirigenti e gli esecutori - tutti membri del kibbutz - l'accettazione della rotazione degli incarichi da parte degli effettivi proprietari della fabbrica, sarà disastrosa per quanto concerne la parità dei compensi e della soddisfazione nel lavoro. Tuttavia, la sopravvivenza di questi principi comporta restrizioni di tipo sociale allo sviluppo economico, ad ogni costo: ho in mente la natura organica della comunità e l'uguaglianza correlata con l'autosufficienza e il lavoro volontario.
Si potrebbe dire che l'uguaglianza significa possibilità che tutti ottengano sempre ciò che desiderano. Hobbes indicò nell'uguaglianza - cioè nell'uguale diritto a tutte le cose - la causa di tutti i conflitti tra gli uomini, dell'assenza di ogni giustizia e di ogni valore etico e, in ultima analisi, l'origine della sovranità assoluta. Per quanto mi riguarda, prediligo tra tutte la definizione che ne ha dato Rotenstreich: "Uguaglianza significa impedire che venga attribuita un'importanza decisiva alle divisioni di carattere gerarchico". Essa è perciò "un principio praticabile", al contrario della "uguaglianza davanti a Dio", che è un concetto astratto e perciò insufficiente. Qui e ora noi minimizziamo ogni disuguaglianza. Ora, evidentemente, da un punto di vista puramente empirico, gli uomini non sono, di fatto, tutti uguali. Ci deve essere un desiderio di giungere all'uguaglianza e di unire tra loro libertà e giustizia. È possibile questo? Sì, in certe condizioni - e la società del kibbutz, credo, può instaurare queste condizioni preliminari.
Il kibbutz non è una creazione "politica". Esso è sorto spontaneamente come insediamento anarchico, come "unità comunitaria", per dirla con G. Landauer, M. Buber o P. Kropotkin, una comunità avversa e contrapposta al potere centrale, e persino all'autorità dello stato. Il kibbutz è sorto e ora si mantiene grazie alla forza delle proprie convinzioni ideologiche ed è perciò in grado di preservare un notevole grado di uguaglianza, di un'uguaglianza scelta liberamente dai membri del kibbutz stesso. È bene notare, tuttavia, che questa uguaglianza esiste in netto contrasto con l'attuale tendenza dello stato di Israele nel suo complesso. L'unicità del kibbutz offre notevoli spunti per la ricerca scientifica. Tuttavia, i metodi e la terminologia della ricerca non possono essere basati (o "presi a prestito") su altri modelli considerati normali e orientati verso una concezione di profitto. Sono certo che tutti gli studiosi trarrebbero grande vantaggio se dedicassero le loro energie allo sviluppo di un nuovo tipo di approccio metodologico (e di discorso semantico), invece di utilizzare esperimenti e modelli adattati dalle dottrine economiche e sociologiche tradizionali. In qualità di membri del kibbutz, tuttavia, speriamo non solo di essere "analizzati", ma anche di avere la possibilità di dare indicazioni specifiche riguardo ai nuovi problemi che ci troviamo a dover risolvere. E, per favore, non commettete errori: i problemi ci sono, e gravi. Infatti, se il kibbutz continuerà ad adattarsi con questo ritmo agli standards e alle richieste della nostra società orientata in senso materialistico e consumistico, la sua fine è certa.
Il kibbutz esiste in virtù dei suoi risultati interni, ma le condizioni che vi sono state create sono state prodotte dallo spirito pionieristico della prima società israeliana e sono state influenzate dalle conquiste dei Histadurt (i sindacati operai) e dei tentativi di autogestione che hanno riscosso successo. Se il movimento dei kibbutz non si oppone tenacemente alle tendenze capitaliste e ne accetta le tradizioni, dubito che possa continuare a esistere e a svilupparsi una vera uguaglianza tra i membri del kibbutz.
L'adattabilità del kibbutz alle nuove idee e tecniche borghesi non costituisce un pericolo per il suo modo di vita comunitario ed egualitario? Dopo una fase pionieristica caratterizzata da un alto grado di uguaglianza, il kibbutz potrà sopravvivere alla cosiddetta "fase di routine" (M. Weber), con la sua relativa abbondanza, il ritorno alla privacy, la differenziazione degli incarichi, l'incremento quantitativo e qualitativo dei bisogni consumistici, l'apatia nei confronti della cosa pubblica, e via dicendo? Intanto, ogni kibbutz dispone di organizzazioni a carattere partecipativo, che sono compatibili con la nostra società solidale ed egualitaria e con il suo sistema di valori. La democrazia diretta e partecipata presuppone una vita attiva da parte di tutti i membri del kibbutz che condividono i medesimi interessi e i medesimi problemi, e che interagiscono su un piano di uguaglianza in tutti i processi decisionali. L'l'assemblea generale (che si riunisce, generalmente, ogni settimana) è l'organo principale del potere (se è il caso di usare qui la parola "potere") ed è il simbolo della grande necessità di comunicazione in questo tipo di comunità democratico-organica.
Consentitemi ora di trattare un altro aspetto del problema, particolarmente importante per coloro i quali hanno inclinazioni marxiste. Molte persone oggi credono che l'uguaglianza sul piano politico non sia sufficiente, e che occorra instaurare condizioni di uguaglianza anche nella sfera economica e in quella sociale: anzi, non solo uguali possibilità, ma anche la realizzazione di questa uguaglianza. La possibilità di realizzare in pratica possibilità uguali per tutti ha portato, ai giorni nostri, la richiesta di uguaglianza anche nello status sociale. È ovvio che la disparità sociale, soprattutto se comporta la monopolizzazione di importanti professioni, porterebbe prima o poi alla disintegrazione del tessuto sociale del kibbutz.
Perché, ci si potrebbe chiedere, l'uguaglianza ha un valore positivo ed è essenziale per la società del kibbutz? Perché è l'espressione di un'idea di giustizia che ha una funzione dominante nella comunità del kibbutz e costituisce la linfa vitale della solidarietà umana sulla quale si basa la sua stessa esistenza. Riusciamo ad acquisirla solo se realizziamo l'autogestione in tutti i campi, se garantiamo ininterrottamente la rotazione delle mansioni (e siamo liberi di decidere quando e chi...) e se abbiamo eliminato ogni sorta di speciali privilegi. L'unico incentivo deve continuare a essere la prosperità della comunità nel suo complesso, che comprende ovviamente anche gli interessi dei singoli che compongono la comunità. Non possiamo dare per scontato questo incentivo: dobbiamo educare i giovani e i loro genitori. In altre parole, dobbiamo far sì che il kibbutz sia sempre una comunità in via di sviluppo, e non un sistema "efficiente". L'efficienza, nel senso degli obiettivi materiali, non deve essere la nostra pietra di paragone. Se vogliamo veramente vivere insieme, c'è ancora questo da fare per poter essere in grado di realizzare l'ideale sociale di una solidarietà egualitaria e cooperativa.
Il kibbutz non è una cooperativa di tipo occidentale: la sua esistenza non si basa sull'impegno ad accrescere i dividendi degli azionisti. Piuttosto, esso esiste in virtù degli ideali fondamentali che stimolano la volontà dei suoi membri. È solo ponendosi come isola all'interno dello stato, adiacente e a volte contrapposta ad esso, che il kibbutz può preservare il suo modo di vita socialista e continuare a svilupparsi e ad espandersi lentamente. Il kibbutz non è né una "piccola cittadina" (shtetel), né una "grande fabbrica". È completamente diverso, unico, e non abbiamo ancora trovato una definizione che gli calzi a pennello.
La vita nei kibbutz, oggi, è una vita in una comunità prospera e proprio per questo, forse, il problema della soddisfazione e della realizzazione dell'individuo ha tanta importanza. Ho lasciato per ultimo un problema che considero essenziale e uno degli aspetti purtroppo poco trattati della disuguaglianza: la disparità di soddisfazione nel lavoro, che viene generalmente attribuita all'industria come tale. Il problema dell'industrializzazione è cruciale, oggi, per molti kibbutz. Come, allora, potranno costruire le loro industrie evitando questa forma di disuguaglianza? Sicuramente, l'industria del kibbutz dovrà sorgere in modo assai diverso dall'industria capitalista, legata al feticcio del mercato. Questo non è un problema che riguarda solo la struttura tecnica dell'industria. Come abbiamo già visto, il kibbutz ha dimostrato che si può instaurare e portare avanti un tipo diverso di agricoltura - comunitaria e prospera. Ciò che non ha avuto successo, come il modello Oppenheimer - un modello di agricoltura cooperativa (il villaggio cooperativo di Merchavia) - è stato modificato. L'industrializzazione ci riporterà al vecchio modello economico semi-privato? A mio avviso, il problema dell'industrializzazione è più serio e più complesso dei problemi che dovettero affrontare i primi kibbutz nel tentativo di creare un'agricoltura moderna cooperativo-comunitaria. La differenza risiede nel fatto che il processo di industrializzazione è iniziato in un periodo di debolezza ideologica e di crisi del "consumismo". Analizzare la vita e l'economia del kibbutz secondo i modelli delle società occidentali può solo peggiorare il problema. Cerchiamo di capire, una volta per tutte, che i modelli dell'industria capitalista non sono oracoli divini, né lo sono i compensi materiali! Eppure, in tutti gli studi accademici vediamo che proprio questi ultimi sono considerati i migliori incentivi. È così anche nei kolkhoz sovietici, che i loro fondatori considerano la realizzazione del socialismo comunista.
Così, torniamo di nuovo alla questione principale: è questo ciò che vogliamo? Uno dei fondamenti della vita nel kibbutz, infatti, è la separazione tra la soddisfazione dei bisogni dell'individuo e il suo contributo produttivo. Ciò che ci interessa è la realizzazione dell'individuo e certamente i compensi materiali disuguali non sono il modo migliore per arrivarci. La soddisfazione nel lavoro è altrettanto importante (ho osservato a questo proposito che il sistema skinneriano di "credito del lavoro" si è rivelato un fallimento...); i kibbutz si sono dimostrati assai più capaci delle altre forme di sperimentazione sociale e delle imprese capitaliste nel garantire questo tipo di soddisfazione.
A mia avviso, dovremmo tornare a uno "spirito più anarchico". Dovremmo limitare al minimo l'autorità. Dovremmo eliminare ogni gerarchia istituendo la rotazione perenne delle mansioni, e così facendo impedire il formarsi della burocrazia. Dovremmo creare un tipo di formazione professionale più varia e informale (nello spirito di Marx e Fourier), contrapposta all'istruzione specialistica formale tradizionale. Dovremmo accettare di sacrificare un po' di efficienza a vantaggio dei nostri ideali. Dovremmo, in altre parole, De-economizzare la nostra vita e la nostra cultura. Questa è la vera base su cui dovrebbe fondarsi l'etica socialista, contrapposta all'etica capitalista dell'individualismo competitivo e al suo feticcio, la proprietà privata.
Per concludere, ricordiamo ciò che disse Gustav Landauer: che tutti coloro che si sono resi conto dell'impossibilità di continuare a vivere da borghesi si uniscano e lavorino per soddisfare i propri bisogni, secondo un modello di vita basato sulla giustizia e sulla cooperazione reciproca. Chi vuole creare la vita deve "vivere di nuovo, e rinascere interiormente". Perciò, dipende solo dalla nostra volontà se questa prospettiva potrà divenire realtà e non solo Utopia.