Ricordare Illich
Ricordare Ivan Illich è ricordare il suo contributo all’elaborazione di un giudizio grazie all’identificazione dei criteri che lo costituiscono come una vera e propria presa di coscienza radicale. |
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Ricordare Illich, per me e per coloro
che appartengono alla mia generazione (che è appunto quella di Illich),
significa ritrovare, attraverso la memoria, le tracce del percorso che
ci ha condotto al giudizio che noi oggi diamo della realtà che ci
circonda e alla presa di coscienza il più lucida possibile
dell’alternativa storica dinanzi alla quale noi ci troviamo. Proiettiamo
forse il nostro pensiero su una posizione datata facendola apparire
anticipatrice e straordinariamente profetica? Certamente, ma il senso di
questa proiezione sta proprio nella possibilità di assumere Illich come
nostro interlocutore attuale: come per tutti i grandi pensatori la sua
storicità non è un limite che lo costringe prima o poi all’obsolescenza,
ma lo straordinario contributo, concreto e ad un tempo universale,
metatemporale, alla formulazione di un giudizio che non si riduca
all’interpretazione di fatti che, con il loro superamento, travolgano
con sé il pensiero che ne ha preso atto, ma che è destinato a rimanere
elemento di una rappresentazione dinamica grazie alla quale chi pensa e
agisce nel mondo gli può essere consapevolmente, appunto lucidamente
presente e attivamente attento alle sue necessità. L’istituzionalizzazione Ricordare Illich è dunque riscoprire un criterio di giudizio che permette di vedere la realtà storica, che ci riguarda, nel suo insieme; ed è il criterio della deistituzionalizzazione. E per istituzione si intenda la realtà e il simbolo di quella storicizzazione assoluta che va sotto il nome di realismo. L’istituzione è la risposta organizzata a bisogni ovvero a domande che l’individuo rivolge alla società nella convinzione che essa possa supplire alla sua impotenza ad esercitare un diritto e quindi trasferendo questa necessità soggettiva ad un meccanismo oggettivo che via via si costituisce in logica oggettiva e diventa così pretesa esclusiva di disporre degli strumenti necessari a soddisfare quei bisogni e quelle richieste. Il diritto si trasforma così, a sua volta, in dovere e l’obbligo sociale di intervenire e di provvedere passa al soggetto individuale come dipendenza assoluta e appunto obbligo di rivolgersi senza alternativa all’istituito ed autorizzato fornitore di servizi. Così si costituisce il monopolio istituzionale e il rapporto tra individuo e società si rovescia perfettamente, poiché non è più l’attività del soggetto individuale che associandosi fonda e controlla continuamente l’organizzazione delle risposte sociali e quindi della società intesa come soggetto collettivo e dialogante tra di sé, ma è la società organizzata, tendente alla conservazione della propria figura definita una volta per tutte, ad imporre le proprie regole ed i propri procedimenti e quindi assumendo nella propria oggettività tutta la soggettività degli associati espropriandoli proprio di ciò che essa sarebbe invece chiamata a sostenere e a garantire realmente. L’originaria giustificazione dell’istituzione si perde con la trasformazione di questa in interlocutore obbligatorio e assolutamente autoreferenziale. Attraverso questa autoreferenzialità passano tutte le regole di comportamento che invece di mettere in grado gli associati, cioè la comunità, di esercitare la propria libertà creativa trasferiscono direttamente quel potere a chi, in un modo o in un altro, cioè con la forza o con il consenso, è incaricato o si incarica di esercitarlo concentrandolo in sé ‘per il bene e al servizio’ di tutti. Ogni istituzione è a rischio di questa ambiguità, dalla famiglia alla scuola, dal luogo di lavoro alla società tutta. La società organizzata tende a sostituire monopolisticamente ogni processo di realizzazione della relazionalità che è un aspetto dell’individualità di ciascun soggetto umano e che per essere mantenuta nella sua verità deve poter fare riferimento continuo a se stessa ed alla propria formazione progressiva. La società deve ‘fare’ liberi, come la società deve essere ‘fatta’ dalla libertà effettiva degli associati. Il monopolio espropriante Contestare l’istituzione significa per Illich contestare questo monopolio espropriante che mantiene in uno stato di inferiorità e di dipendenza permanente ed anzi progressiva gli individui che compongono la società e che invece di maturare attraverso e grazie ad essa sono costretti sempre più e in ogni campo ad obbedire a chi comanda con una giustificazione che riduce di molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e cioè all’esercizio effettivo della coscienza. La società dei consumi interiorizza semplicemente la costrizione sociale, trasformando la paura della repressione in vergogna della emarginazione. Il paradosso è che la libertà circolante nella democrazia dei consumi ‘libera’ tutte le forme di licenza corruttrice ed oltretutto miope e contraddittoria in funzione di un unico scopo, quello dell’interesse esclusivamente individuale che, per corrispondenza all’abrasione sociale dell’individualità, elimina semplicemente la relazionalità come condizione e partecipazione all’umanità comune. La convivialità L’alternativa? Illich la indica nella ‘convivialità’. Si tratta di
recuperare, senza i salti e i rovesciamenti della mediazione artificiale
che invece di essere tramite di sviluppo sostituisce e cancella i
passaggi ‘naturali’, i processi attraverso i quali la razionalità
costitutiva di ogni soggetto costruisce via via i rapporti reali, li
esercita e li sperimenta in continuazione, attribuendo alla società il
connotato e le dimensioni autentiche di un soggetto collettivo che non
estrania né espropria i singoli ma li immerge in un dialogo fecondo che,
mentre li fa uscire dalla solitudine, riversa su di loro, a sua volta,
la propria acquisita e crescente forza inventiva, smontando ogni volta
la tentazione istituzionale e mantenendo l’insieme in perenne attenzione
cosciente, giudicante, partecipe, creativa. La demistificazione del potere Con questo Illich è in pieno nel processo di demistificazione del
potere e dell’autorità, quella clamorosa scoperta, o riscoperta se si fa
attenzione a tutte le anticipazioni dell’umanità cosciente e pensante,
che sfugge sempre, ed è addirittura sfuggita a molta parte della
contestazione rivoluzionaria dell’ultima storia, che l’eguaglianza tra
gli uomini è sì un diritto strutturale ma non si attiva realmente se non
attraverso una effettiva eguaglianza di partecipazione sociale, non
contraddetta dal rientro per la finestra, cioè sul piano dei fatti, del
monopolio organizzativo, scacciato dalla porta, cioè dalle parole
dichiarative grazie a cui si finge la definitiva eliminazione di uno
schema metodologico di differenze qualitative e quantitative che si
riaffacciano poi con tutta la forza (ahimè) necessaria, cioè dell’extrema
ratio quando si passa poi davvero all’operatività. La descolarizzazione La descolarizzazione non è il rifiuto o l’eliminazione della
dimensione educativa ma la sua restituzione alla trasversalità
universale; ogni azione ha, lo si voglia o no, un versante pedagogico ed
è alla restituzione di questo aspetto di strutturale reciprocità
dinamica dell’azione umana che bisogna porre esplicita attenzione. Ogni
istituzione come oggettiavazione operativa deve avere questo carattere
della dinamicità e quindi della provvisorietà strumentale che esalta
esclusivamente il potere derivante dallo stare insieme, potere dunque
evidentemente condiviso e da condividersi sempre più (questa è la
politica come pedagogia). La scuola come istituzione definitiva e
sclerotizzata, cioè autoritaria, impedisce questo processo generale di
coeducazione, sostituendolo con un indottrinamento istruttivo che
trasforma ogni uomo che vi passa (ogni alfabetizzato) in tecnico a vari
livelli, anche minimi, da cui è estromessa come destabilizzante proprio
quella competenza grazie alla quale ogni uomo si riconosce appartenente
ad una comune umanità, la cui figura storica è via via attrezzata sì di
competenze particolari e strumentali ma soprattutto di una coscienza di
sé che le deriva dalla cultura intesa come giudizio, come
approssimazione alla verità, come ininterrotta meraviglia di fronte
all’esistenza. Universalità della dimensione pedagogica L’apprendimento viene così liberato dalla dipendenza esclusiva
dall’insegnamento: la dimensione pedagogica si ritrova come un aspetto
del sapere e dell’agire di chiunque, anche del più modesto uomo la cui
esperienza ha una potenzialità di comunicazione conoscitiva che è
infinitamente e imprevedibilmente superiore al riconoscimento
formalizzato che la codificazione sociale ne può dare. Illich segnala i
casi e i successi dell’apprendimento cogestito da partners di cui
uno dispone semplicemente di un sapere che ne costituisce la capacità
comunicativa e relazionale (vedi una lingua, una capacità tecnica) e
l’altro ha bisogno di acquisire quegli strumenti per comunicare a sua
volta con la realtà che lo circonda. La scuola manca assolutamente di
questa condizione concreta e perciò insegna in modo statico, vale a dire
ciò che non serve e a chi non ne ha bisogno (avendo in realtà altri
bisogni e dunque altre attese che, disattese, lo disgustano e lo rendono
ormai irrimediabilmente ignorante). E questo avviene con un dispendio
enorme di denaro, di risorse, di energie e di organizzazione che si
potrebbero risparmiare soltanto se si desse ascolto alla figura reale
della richiesta di sapere ed alla presenza nella realtà sociale di ogni
epoca e di ogni situazione di una straordinaria ricchezza di elementi
educativi che non attendono altro che di essere attivati con pochissima
spesa e con una reale partecipazione di tutti coloro che ‘vogliono’
sapere. La società vivente Le persone di una tale società a cui pensa Illich non sono il
risultato ma il principio stesso, il fondamento di una operatività che
deriva direttamente dalle doti che le costituiscono nella loro semplice
esistenza. Il rapporto reale attiva queste doti il cui esercizio
incrociato e molteplice costruisce via via una società che non è già
costituita a priori rispetto a ciascuno dei suoi membri: egli non vi si
deve inserire, ma è piuttosto in grado di attribuirle i connotati
viventi che egli elabora semplicemente vivendo. Il segreto di questo
passaggio, dalla vita di ciascuno alla realtà sociale, sta
nell’attivazione di quella dimensione che si è chiamata pedagogica,
l’utilizzazione della forza comunicativa come istituzione di un rapporto
creativo di risultati, cioè di una crescita comune. Si tratta di una
istituzione la cui oggettività non è altro che l’esercizio reale della
soggettività attivata dalla reciprocità. Il rischio di sclerosi
espropriante è evaso continuamente dalla possibilità di appropriarsi in
ogni momento della iniziativa, e questo coincide con la libertà.
Sostanzialmente la funzione sociale è liberatoria, e il suo principio
sta nella libertà stessa dei singoli attivata dalla relazione. La scolarizzazione come principio Illich identifica nella scolarizzazione il principio invasivo
dell’istituzionalizzazione sociale generale: è lì che i processi
significativi vengono requisiti e il bambino si abitua a rivolgersi ad
una serie di protesi che, mentre lo attrezzano artificialmente ad ogni
bisogna, lo privano della possibilità, cioè della capacità di fruire
direttamente delle indicazioni di un ambiente significativo.
L’alternativa è proprio una società come ambiente significativo, in cui
le istituzioni, invece di manipolare le indicazioni della realtà varia e
dinamica ordinandola in pacchetti la cui logica di mantenimento
sostituirà totalmente la funzione vitale in coloro che da quel momento
da quel mantenimento dipenderanno, non avranno altro compito ed altra
giustificazione che quella di mettere in grado gli ‘utenti’ di essere
autonomamente attivi, giudicanti e liberi. Una sorta di ossimoro fecondo
che demitizza la necessità dell’istituzione, la cui provvisorietà
funzionale consisterà nell’operazione di autoeliminazione, di
sostituzione progressiva della propria necessità con la maturazione
comunitaria. Una maturazione che ha sì una progressività, uno sviluppo
(e questa è la storia come presa di coscienza successiva crescente) ma
che richiede sin dall’inizio l’impostazione del rapporto
istituzione/comunità in termini tali che la prima valga come strumento
interno della seconda e non come referente dialettico assoluto
definitivamente ineliminabile in nessuna occasione. Questa versione
statica dell’istituzione reintrodurrebbe, come di fatto reintroduce,
un’altro concetto di storia, la ricorrente dialettica tra positivo e
negativo, tra buoni istinti e cattivi istinti umani, alla cui
neutralizzazione sarebbe addetta insostituibilmente l’istituzione.
Controllo, contenimento, repressione: questo è il compito della legge.
Il corretto processo di umanizzazione dell’umanità punta invece sulla
presa di coscienza, che a questo punto è evidente come sia impedita
invece che favorita da istituzioni che si fondano sul presupposto
dell’incapacità originaria dell’uomo di organizzarsi i percorsi per la
propria realizzazione. Non all’uomo singolo associato ma ad un mitico
fantasma delegato (formalmente o no) spetterebbe questa liberazione
dall’impotenza, che però paradossalmente rimarrebbe eternamente tale a
giustificare l’esistenza necessaria di un referente dialettico fattosi a
tutti gli effetti potere. Assolutamente diseducativo poiché estraniante,
interruzione, sbarramento di quei processi grazie ai quali, come
dimostrano i primi anni di vita dei bambini, si esercita l’aspetto
dinamico della ‘natura’ dell’uomo, cioè il suo statuto di ‘apprendista’,
di persona che si fa persona. Perché ciò accada bisogna restituire al
rapporto sociale la sua forza educativa, quel passaggio osmotico di
capacità e di virtù che sta alla base di ogni invenzione civile e
culturale. La legge sta forse alla base dell’arte, della solidarietà,
del riconoscimento reciproco o non è piuttosto l’estremo e disperato
rimedio alla constatazione della loro assenza, cioè del loro bisogno
insoddisfatto? Dove non c’è giustizia si ricorre alla legge, e questo
ricorso sostituisce definitivamente la giustizia ed il suo bisogno. Così
la scuola si pretende cultura: ma quale invenzione culturale è mai nata
dalla scuola e non piuttosto dalla sua contestazione (o addirittura
dall’indifferenza nei suo confronti)? La restituzione sociale Il testo principale di Illich Descolarizzare la società è
scritto negli anni della contestazione (’60/’70) in cui è attribuito e
quindi richiesto alla stessa istituzione di autoriformarsi, cioè di
trasformarsi radicalmente grazie alla riappropriazione, da parte di
tutti i suoi fruitori, insieme ai suoi operatori, delle condizioni
originarie e giustificative in vista delle quali esse sono nate. Il che
comporta a volte, e all’estremo, la propria autodemolizione come
premessa alla restituzione sociale dei processi di soddisfazione di un
bisogno. Il secondo passo è proprio quello educativo, l’educarsi
collettivamente cioè reciprocamente a identificare con esattezza bisogni
e procedimenti adatti a soddisfarli, demistificando le induzioni
generate dalla confusione del bisogno con l’impotenza; confusione che
produce il proliferare di una serie di altri bisogni artificiali che
prendono il posto di quello originario e lo trasformano appunto
nell’incapacità del soggetto di provvedere in qualche modo a sé e lo
consegnano mani e piedi ad una organizzazione che provvede, con
l’apparenza e dunque l’alibi della soddisfazione del bisogno, a privarlo
di ogni autorizzazione e di ogni energia autonoma. Così il cittadino non
esce dalla condizione di suddito, e lo Stato sociale non è altro che il
rafforzamento del Potere concentrato. Non si è mai sentito parlare di
una politica sociale di destra? molti esiti delle rivoluzioni sociali
del secolo ventesimo fanno capo a questo equivoco. Scuola e cultura Leggere Illich vuol dire respirare contemporaneamente le origini di
una cultura che per poter manifestare la propria essenzialità deve
essere liberata dalla sua ambiguità che la fa pretendere, e così spesso
nella storia la trasforma, come principio del dominio, e insieme
identificare esattamente l’antidoto di questo rovesciamento, cioè il
ritrovamento del significato di quelle origini nel riferimento alle
dimensioni elementari, ‘naturali’ dell’uomo che si scopre come soggetto
ed esercita per tutta la vita le conseguenze, che sono anche le
condizioni, di questa scoperta. È questo ritrovamento che la scuola
impedisce, emarginando i più con l’esclusione, o con un pesante giudizio
di inadeguatezza, dal processo di apprendimento requisito in termini di
sistema tutto precostituito, cioè affatto indipendente e previo rispetto
all’esercizio stesso dell’apprendimento, che dovrebbe invece avere
principio in se stesso. Cosicché l’autoeducazione che non abbisogna di
altro che dell’attivazione dell’aspetto didattico/comunicativo delle
doti di ciascun vivente, è sostituita e dunque resa impotente dai
dettami elaborati da un sapere che fa riferimento a se stesso (ai propri
metodi, e fini, e privilegi) e affatto alle richieste reali e sensate di
chi vuole sapere. Così i più sono esclusi, e la curiosità naturale e
generale lascia il posto alla logica di una costruzione maneggiabile da
coloro che hanno il coltello per il manico, cioè da coloro che
possiedono ed esercitano il sapere come privilegio discriminatorio.
Ovvero come lo strumento principale della discriminazione. Pietro M. Toesca |