Un’inchiesta televisiva denuncia
l’impiego, durante l’assedio a
Falluja, di «fosforo bianco»
come arma.
I militari Usa prima negano, poi
ammettono e, come a
giustificarsi, restringono il
campo dei destinatari di questo
trattamento ai soli
«terroristi».
Londra a sua volta, ammette: non
importa esattamente che cosa,
perché allinearsi sempre e
comunque con gli attuali “soci
d’impresa” in Iraq è
un’inclinazione invincibile per
le truppe di Sua Maestà
Britannica.
Né gli uni né gli altri si
applicano a spiegare come i
terroristi si distinguano dalla
popolazione civile, quando si
bombarda una città. Non
s’impegnano in questa
spiegazione perché,
semplicemente, è impossibile la
spiegazione così come è
insostenibile l’affermazione da
spiegare.
L’indignazione espressa in
numerose manifestazioni e
dichiarazioni dice che qualche
sensibilità è viva e diffusa. Lo
ribadisce, indirettamente,
l’imbarazzo balbettante degli
apologeti professionali di
questi reati.
Ma se questa indignazione vuole
approdare a pensieri, oltre le
emozioni, deve interrogarsi su
sé stessa, porre in questione le
dubitabili evidenze e certezze
dei presupposti, dei “punti di
partenza”.
Primo: Davvero, se avesse senso
e fosse credibile, la
limitazione ai nemici che si
combattono e che combattono
costituirebbe un’attenuante?
Contro chi commette crimini è
forse lecito commettere crimini?
Più in generale: la morte di un
combattente è un po’ meno la
morte di un essere umano?
Quando si sottolinea come le
vittime della guerra siano ormai
soprattutto civili, si
chiariscono alcuni caratteri
della guerra contemporanea, la
sua incontrollabile
distruttività. Non si vuole
certo dire che la morte di un
combattente, con o senza divisa,
sia una tragedia umana di
inferiore portata e
drammaticità.
Secondo: La distinzione tra armi
consentite e non consentite;
convenzionali e non
convenzionali non è senza
contenuto. È significativa sotto
il profilo quantitativo: quanto
estesamente le armi colpiscano.
È significativa sotto il profilo
qualitativo: quante e quali
sofferenze producano.
Ma applicarsi a queste
specificazioni (descrittive, non
valutative) diventa spesso un
modo per eludere la domanda
principale: se pensare e
ammettere che l’uccidere può
essere un’azione dotata di
motivazioni valide non sia già
oltre il limite estremo
dell’impensabile e
dell’inammissibile.
Nessuna distinzione tra armi
consentite o vietate,
convenzionali e no, sospende il
giudizio sulla assurdità delle
armi di qualsiasi genere.
Terzo: Come si spiega, infine,
la sistematica violazione delle
norme che vietano certe armi,
certi comportamenti durante la
guerra, la sistematica
violazione del «diritto
umanitario»?
Queste norme, questo diritto non
riescono a disciplinare i
comportamenti, a limitare
l’impiego dei mezzi.
Dopo ogni conflitto, si scopre
che il «diritto umanitario» è
stato violato da tutti,
vincitori e vinti, anche se, di
norma, solo i vinti sono (a
volte) chiamati a risponderne.
Il «diritto umanitario» (come
l’elenco delle armi vietate) si
configurerebbe dunque
esclusivamente come criterio di
punizione o di vendetta, ma non
di comportamento.
Non è sorprendente questa
constatazione; meno che mai è
provocatoria. Ha in sé una
logica cui non si sfugge. La
lotta per la vita o la morte ‑ e
la guerra è lotta per la vita o
la morte ‑ pone tutto in gioco.
E per questo non esclude nessun
mezzo, non sottostà a nessuna
regola.
Se esiste la guerra, non esiste
qualcosa che la limiti o la
moderi.
La guerra non è una premessa di
alcuni mali. È essa stessa
assolutamente male, male
assoluto.
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