A rivista anarchica
anno 33 n. 290
maggio 2003
 

dossier

Guerra continua
Una norma che viene presentata come eccezione
a cura di Adriano Paolella e Zelinda Carloni

 

Globalizzazione.
Idee per capire, vivere e opporsi al nuovo modello di profitto.

Premessa
 

Il principale sforzo sostenuto da coloro che la praticano è fornire ragionevoli motivazioni alla guerra; spiegando colpevoli e punitori, rischi del presente e sicurezza di un futuro migliore.
Ma non vi è ragionevolezza nelle guerre.
In primo luogo perché picchiare, seppur duramente, non conduce agli obiettivi dichiarati.
L’inquisizione cattolica ha massacrato gli eretici ma questi continuano ad esserci, gli statunitensi e gli spagnoli si sono adoperati per l’eliminazione delle popolazioni indigene dell’America ma esse continuano ad essere riferimento sociale e culturale per l’umanità, i nazisti si sono impegnati a sterminare gli ebrei che oggi hanno uno stato armato e incidono sulla politica degli stati più potenti.
In secondo luogo perché le effettive e non dichiarate motivazioni, connesse ad obiettivi circoscritti e temporalmente limitati che portano vantaggio ad un numero esiguo di individui, nulla hanno a che vedere con le dichiarate ragioni della guerra. Per cui gli inquisitori di ieri sono riusciti a governare bruciando e torturando in cento anni cinquantamila persone, spesso oppositori; gli statunitensi si sono appropriati della terra altrui uccidendo circa un milione di indiani, gli spagnoli hanno trafugato migliaia di tonnellate di oro e di argento ammazzando decine di milioni di indios; i nazisti hanno distrutto un popolo e dato un obiettivo ad un altro uccidendo sei milioni di ebrei e oppositori.
In terzo luogo perché le guerre, e gli stermini connessi, sono generati e condotti da persone che si divertono. Ma tanto. Si divertono a giocare, a pensare come vincere, provano ebbrezza nel comandare, soddisfazione nel rischiare e più nel far rischiare, orgasmo nel vincere. A questi si aggiungono quelli che, sulle stesse solide basi su cui poggia l’azione dei belligeranti, uniscono un incontenibile soddisfazione nella prevaricazione e nella sofferenza degli altri. Spesso un desiderio di vendetta sostenuto da religioni, rancori, faide; spesso una indifferente e maniacale passione, coltivata individualmente e che nella guerra si può liberare.
L’insieme di questi tre condizioni fa sì che le guerre siano scatenate indipendentemente dagli interessi delle comunità, senza cercare soluzioni alternative, per il piacere e per il proprio tornaconto e quindi senza “ragionevolezza”.
È dunque profondamente errato affrontare questo tema entrando nello specifico delle ragioni apparenti ma è necessario portare la discussione da un lato su livelli di patologia dei partecipanti, e in questo la testimonianza del dottor Stranamore è emblematica, e dall’altro sull’evidenziazione di una consapevolezza della volontà di guerra che è fondata su centinaia di milioni di soldati, su centinaia di milioni di armamenti leggeri, sulle migliaia di testate nucleari, sull’enormità del budget mondiale dedicato agli eserciti e alle armi.
Questo elaborato non vuole essere esaustivo di un tema, la guerra, che per le implicazioni politiche, morali, umane e che per le innumerevoli connessione con la struttura economica, religiosa e sociale delle nazioni non è possibile trattare completamente in questa sede.
Sono di seguito presentate riflessioni, informazioni e spunti non seguendo priorità d’importanza, con il desiderio che essi possano contribuire all’ulteriore consolidarsi di una cultura critica nei confronti di una condizione che di fatto annulla ogni nostra dignità di individui e società.
La guerra non va pensata con ragionevolezza.

 

Alcuni dati
Nel decennio degli anni novanta mediamente erano circa 40 i conflitti in corso ogni anno. Dei 103 conflitti scoppiati tra il 1989 e il 1997 solo 6 sono stati di dimensioni internazionali [1].
Nel ventesimo secolo sono morti circa 110.000.000 milioni di persone nei conflitti. Circa 26 milioni (il 50% civile) nella prima guerra mondiale, 53.549.000 nella seconda (60% civile) e il resto negli altri conflitti.
I rifugiati assistiti dall’ONU sono stati nel 1998 22,4 milioni.
Conflitti in corso: Aceh-Nord Sumatra, dal 1976 (50.000 morti); Afghanistan, dal 1991; Algeria, dal 1992 (100.000 morti); Angola, dal 1975, attualmente sospesa, (1 milione di morti); Burundi, dal 1962 – attualmente sospesa – (800.000 morti); Cecenia, dal 1991 (100.000 morti); Colombia, dalla fine degli anni ’60; Congo, dal 1997 (3 milioni di morti); Costa D’Avorio, dal 2002; Eritrea-Etiopia, dagli anni ’70, attualmente sospesa (40.000 morti); Filippine, dal 1971 (150.000 morti); Abkhazia, regione della Georgia, dal 1991 (centinaia di morti); Kashmir, regione dell’India, dal 1948 (70.000 morti); Kurdistan, regione Iran-Iraq-Turchia (150.000 morti); Liberia, dal 1989 (250.000 morti); Macedonia, dal 2001; Nepal, dal 1996 (almeno 1800 morti); Senegal, migliaia di morti; Sierra Leone, dal 1991, attualmente sospesa (100.000 morti, 30.000 mutilati); Sri Lanka (70.000 morti, 800.000 profughi; Sudan (1 milione e mezzo di morti); Uganda, dagli anni ’80 (10.000 morti).
Nel mondo vivono oltre 23 milioni di rifugiati, circa 7,5 milioni in Africa, 7,5 in Europa, 7,5 in Asia, 1,2 in America del Nord, 0,1 in America Latina, 0,07 in Oceania. [2]
I primi dieci paesi del mondo per numero di soldati arruolati hanno circa 11 milioni di soldati e circa 20 milioni di riserve. [3]

Le motivazioni di una guerra continua
 

Le ragioni inespresse delle guerre vanno ricercate nell’interesse.
Un interesse economico di rubare risorse di altri; gli stati o le grandi compagnie d’affari ritengono molto più conveniente spendere cifre solitamente esuberanti di soldi in spese militari e in guerre piuttosto che pagare alla comunità insediata l’uso delle risorse locali che si ritiene utile alla propria economia. Quest’ultimo percorso sarebbe più economico ma più contrattuale e quindi porrebbe limiti al potere del più forte che limiti invece non vuole avere.
Un interesse economico nel produrre, vendere e consumare armi e attrezzature. Vi sono stati che sono governati dall’apparato militare e industriale-militare. E sicuramente la guerra è il sistema migliore per spendere soldi pubblici incondizionatamente e arricchire i produttori illimitatamente.
Un interesse economico nello svolgere la guerra. La guerra la pagano gli sconfitti o gli alleati poveri dei potenti che mettono a disposizione gli eserciti e gli armamenti a fronte della copertura dei costi. Dalle guerre ci si può guadagnare anche molto.
Ma questo non basta per fare un guerra, questo interesse non sarebbe in grado di muovere un atto così estraneo alla natura umana quale la guerra.
La guerra si può fare perché vi è una lunga azione di preparazione che si svolge ogni giorno e che passa per le azioni quotidiane apparentemente innocue e per la stretta relazione esistente tra politica ed economia militare, tra cultura e militarismo, tra alterazione delle società locali e creazione di disequilibri, dipendenza, violenza.

 

Rapporti tra decisioni di guerra e interessi
 

Carriere politiche
L’assistente segretario dell’Air Force, Peter Teets, è stato amministratore delegato della Lockeed; il ministro della marina da guerra, Gordon England, è stato presidente della Lockeed; l’amministratore dei programmi di difesa del dipartimento energia, Everet Beckner, è stato vicepresidente della Lockeed; il ministro dei trasporti Norman Mineta, è stato vicepresidente della Lockeed e ne risulta ancora oggi uno dei maggiori azionisti; Lynn Cheney, moglie del vicepresidente degli USA, è un alto dirigente della Lockeed; il ministro dellAir Force, James Roche, è stato presidente della Northrop; il vicesegretario della difesa, col compito di capo della contabilità, Dov Zakheim, è stato consulente della Northrop; il viceministro della difesa per la policy, Douglas Feith, è presidente dell’ufficio legale Feith and Zell, che si interessa di import-export di armi con Israele, e ha fra i propri clienti la Northrop; il numero due del Pentagono, Paul Wolfowitz, è stato consulente della Northrop; il vicesegretario di Stato e segretario del Pentagono dal ’75, Richard Armitage, è ancora consulente della Boeing e della Raytheon; l’Alto Consigliere del presidente, Karl Rove, è azionista della Boeing; il vicedirettore dell’ufficio di gestione budget, l’ufficio che gestisce la Borsa pubblica, Sean O’ Keefe, è stato consulente della Raytheon. [4]

Attentati e armamenti
Il giorno della riapertura della Borsa dopo l’11 settembre le uniche azioni che hanno registrato un rialzo sono state quelle dei fornitori delle forze armate (il valore del titolo della Lockheed Martin è cresciuto del 30%).
Dopo sei settimane dall’11 settembre è stato commissionato alla Lockheed Martin il più grande ordine militare della storia: un contratto da 200 miliardi di dollari per sviluppare studi per un nuovo caccia.
Anche l’industria bellica inglese ha avuto un boom; ad esempio la Bea Sistems ha venduto un sistema di difesa aerea del valore di 40 milioni di dollari alla Tanzania (la Tanzania è uno dei paesi più poveri del mondo, il reddito pro capite è di 250 dollari l’anno, metà della popolazione non dispone di acqua corrente potabile e un bambino su quattro muore prima di aver raggiunto il quinto anno d’età). Nello stesso periodo Tony Blair rilasciava dichiarazioni in cui affermava che la povertà dell’Africa era “uno sfregio sulla coscienza del mondo”. [5].

Rapporti tra guerra e risorse
 

II rapporto tra guerra e prelievo di risorse è strettissimo. Dei 49 conflitti armati che hanno interessato il pianeta nel 2000 gran parte è sostanziata dalla volontà di acquisire il controllo di risorse.
In un sistema che consuma tanto, e che produce sempre nuove merci, le risorse, salvo alcune la cui necessità permane nel tempo, possono cambiare con grande rapidità. Un esempio recente è il coltan, fanghiglia granulosa e nerastra ignorata fino a quando il tantalio da esso ricavabile è divenuto materiale fondamentale nella produzione di condensatori. Nelle aree dell'Africa centrale dove sono stati individuati giacimenti di coltan sono in corso feroci conflitti locali.
Oggi la guerra è contro coloro i quali vogliono esercitare un controllo delle risorse locali fuori dal mercato globale (ovvero del mercato controllato all'80% da duecento multinazionali); a volte la guerra è contro gli stati, più frequentemente è con gli stati contro le comunità e gli individui.

 

Amici e nemici
 

Uno degli elementi fondamentali delle guerre è avere un nemico. Tendenzialmente i nemici non vi sono, nel senso che si creano in ragione di un comportamento derivato da un interesse. Quando non vi sono vanno creati con qualunque pretesto per legittimare, ancorché paradossalmente, l’intervento bellico.
E così, durante la guerra fredda, gli Stati Uniti crearono il nemico sovietico, unendo, contrariamente ai patti da poco stipulati, le tre parti della Germania e creando di fatto il blocco occidentale. L’unione sovietica accettò il ruolo mostrando i propri muscoli ma senza intelligenza.
Ma si può fare di più. Saddam Hussein è stato e forse è il più grande amico degli Stati Uniti. Ha venduto per anni il petrolio sottocosto alle compagnie americane e ha comprato per anni armamenti dalle industrie americane; ha condotto per anni una guerra costata milioni di morti contro l’Iran per ordine e interesse statunitense e poi ha compiuto il suo capolavoro permettendo, con l’insensata occupazione del Kuwait, agli anglo americani di non pagare più il petrolio e di occupare militarmente tutta l’area.
Sostenuto dagli inglesi nello sterminio dei curdi e nella gestione della dittatura interna, consumava gas comprati a caro prezzo dagli americani, usava aerei inglesi e otteneva dagli inglesi stessi finanziamenti significativi.
Ma l’amico è rimasto tale anche dopo la guerra del Golfo. Quando, subito dopo la guerra, vi fu un sollevamento popolare contro il governo nella zona di Bassora, questo non fu appoggiato dagli Stati Uniti anche se era prossimo al rovesciamento del dittatore, così come nel nord del paese la rivolta quasi contemporanea di curdi e oppositori fu repressa nel sangue dalle guardie repubblicane fedeli a Saddam e miracolosamente sopravvissute ai bombardamenti. E tutto questo in aree di controllo aereo anglo americano, aree in cui nei diciotto mesi prima, tra 1998 e ’99, sono state compiute 24.000 missioni di combattimento, e sono state sganciate da parte dell’aviazione anglo americana 1800 bombe e colpiti 450 obiettivi.
Ma nei giorni della repressione gli aerei tornarono indietro senza interferire con la pulizia e meno che mai sostenendo, anche poco, i rivoltosi.
Allora? Il governo che si vuole, evidentemente, è un governo militare, fantoccio capace di fornire gratuitamente il petrolio, ovvero si vuole non il rovesciamento del dittatore ma l’occupazione militare delle risorse.
Saddam è quello che lo consente e quindi è un amico in quanto non fa nulla contro gli Stati Uniti e l’Inghilterra, e avrebbe potuto (guerriglia, attentati, intervento contro gli israeliani, creazione di uno stato curdo che metterebbe in significative difficoltà la Turchia, alleanza con l’Iran che metterebbe in difficoltà gli USA). E invece sta lì solo, senza alcuna politica di alleanze, a sostenere il suo ruolo di servo nell’eseguire esattamente ciò che agli angloamericani conviene.
Un nemico cattivo che sembra veramente fare parte della stessa compagnia di teatranti.
E tutto questo senza voler parlare di Bin Laden.

 

Il rischio
 

Il mondo vive in una situazione di insopportabile rischio. Questa condizione dipende dall’enorme quantità di armi esistenti e pronte all’uso e per l’assoluta inaffidabilità delle persone che le gestiscono.
Ancora oggi esistono circa 36.000 testate nucleari attive (sono state ridotte dalle 70.000 esistenti alla fine degli anni ottanta) Il potenziale è equivalente a 8 miliardi di tonnellate di tritolo [1] circa 1,30 tonnellate di tritolo a testa (il peso di un uomo medio è 0,07 tonnellate e per ucciderlo basta molto meno di un decimillesimo di tonnellata di tritolo).
Gli USA continuano a mantenere più di duemila testate nucleari strategiche costantemente in stato d’allerta, puntate sui bersagli “nemici”. [6]
Questo arsenale è in condizione di distruggere tutti gli uomini parecchie decine di volte ma è in condizione, quando parzialmente utilizzato, di contaminare interi paesi e di lasciare tracce indelebili sulla salute di intere popolazioni per generazioni e di alterare perennemente interi ecosistemi.
A questo vanno aggiunte tutte le armi chimiche, batteriologiche e convenzionali. Il mondo è una polveriera di dimensioni inusitate su cui gli uomini vivono costantemente a rischio.
E se la quantità degli armamenti è sconsiderata, le persone che li gestiscono sono terrificanti. Posseduti da ragionamenti maniacali vedono il mondo come un continuo e inevitabile scontro di persone, popoli, paesi nazioni, comunità in cui solo il consolidamento della propria forza attraverso il possesso delle armi consente di vivere tranquillamente. Ma ancora di più vedono la necessità di non fidarsi di nessuno e di trovarsi sempre in condizioni di vantaggio. Una vita di strategie in cui tutto è subordinato ai principi delle strategie militari.
E questo non dà alcuna garanzia. Il mondo vive in una situazione di insopportabile rischio. Questa condizione dipende dall’enorme quantità di armi esistenti e pronte all’uso e per l’assoluta inaffidabilità delle persone che le gestiscono.
Ancora oggi esistono circa 36.000 testate nucleari attive (sono state ridotte dalle 70.000 esistenti alla fine degli anni ottanta) Il potenziale è equivalente a 8 miliardi di tonnellate di tritolo [1] circa 1,30 tonnellate di tritolo a testa (il peso di un uomo medio è 0,07 tonnellate e per ucciderlo basta molto meno di un decimillesimo di tonnellata di tritolo).
Gli USA continuano a mantenere più di duemila testate nucleari strategiche costantemente in stato d’allerta, puntate sui bersagli “nemici”. [6]
Questo arsenale è in condizione di distruggere tutti gli uomini parecchie decine di volte ma è in condizione, quando parzialmente utilizzato, di contaminare interi paesi e di lasciare tracce indelebili sulla salute di intere popolazioni per generazioni e di alterare perennemente interi ecosistemi.
A questo vanno aggiunte tutte le armi chimiche, batteriologiche e convenzionali. Il mondo è una polveriera di dimensioni inusitate su cui gli uomini vivono costantemente a rischio.
E se la quantità degli armamenti è sconsiderata, le persone che li gestiscono sono terrificanti. Posseduti da ragionamenti maniacali vedono il mondo come un continuo e inevitabile scontro di persone, popoli, paesi nazioni, comunità in cui solo il consolidamento della propria forza attraverso il possesso delle armi consente di vivere tranquillamente. Ma ancora di più vedono la necessità di non fidarsi di nessuno e di trovarsi sempre in condizioni di vantaggio. Una vita di strategie in cui tutto è subordinato ai principi delle strategie militari.
E questo non dà alcuna garanzia.

Salute
Nella guerra del Golfo morirono meno di duecento soldati angloamericani. I reduci del Golfo, a tutt’oggi, lamentano disturbi fissi, quali amnesie, insonnia, emicrania, problemi articolari, difficoltà di movimento. Questi problemi si sono propagati a mogli e parenti più vicini, e in particolar modo a figli concepiti al ritorno dalla missione bellica. Dei 700.000 soldati impiegati nel Golfo, circa 50.000 accusano disturbi (uno su 14); nel 77% dei casi anche le mogli sono state “infettate”. Secondo alcune stime, a causa della sindrome del Golfo sono morti tra i 5.000 e i 10.000 reduci dalla fine della campagna. Le cause sono imputabili ad armamenti utilizzati dagli americani e dagli effluvi tossici liberati dalle fabbriche chimiche bombardate. [7]
Nella città di Bassora le analisi effettuate sulla popolazione indicano che dal 40 al 48% della popolazione prenderà il cancro a partire dai prossimi cinque anni in seguito agli effetti dei bombardamenti. [5]
È stato calcolato che durante la guerra del golfo sono state esplose molto più di trecento tonnellate di uranio impoverito (ogni colpo di un aereo Warthog A-10 contiene trecento grammi di uranio solido 238 e per ogni attacco quest’aereo tirava oltre 900.000 colpi; ogni colpo sparato da un carro armato mette in giro 4.500 grammi di uranio solido). [5]
Nel 1991 l’Ente per l’Energia Atomica inglese ha calcolato che se solo l’8% dell’uranio impoverito esploso nella guerra del Golfo fosse stato inalato avrebbe potuto causare potenzialmente 500.000 morti. [5]
Nel Laos, a distanza di trent’anni dall’uso, le bombe a grappolo inesplose continuano ad uccidere e a mutilare un numero stimato in 20.000 persone l’anno (il Laos non è mai stato in guerra con gli USA). [5]
Il 70% delle 880.500 sganciate in Iraq e Kuwait mancarono completamente il loro bersaglio e molte caddero in zone abitate. [5]

 

Guadagnare con la guerra
 

Oltre che l’appropriazione di risorse la guerra consente altri guadagni.
È nota la sudditanza politica nei confronti dei vincitori per quei paesi che abbiano perduto dei conflitti: l’Italia è un esempio, come altri paesi che per anni hanno pagato gli aiuti ricevuti per la ricostruzione e le spese di guerra dei vincitori e che pagano anche nel lungo periodo.
Le spese di guerra si scaricano sugli sconfitti e quindi il solo fare la guerra porta ad un vantaggio per chi la vince.
Non solo, quando la guerra o l’azione di guerra viene operata da più soggetti, quelli che svolgono gran parte delle azioni militari sono rimborsati generosamente delle spese sostenute, e quindi traggono dei vantaggi significativi.
Esempio palese di questo criterio è la Nato. L’asse militare della Nato è composto dall’esercito americano e dal supporto della Gran Bretagna. I paesi che aderiscono alla Nato sono numerosi, ma non tutti partecipano alle azioni militari e comunque non partecipano mai come principali esecutori. Ciò vuol dire che gli Stati Uniti, ogni qual volta intervengono con la Nato, sono rimborsati da altri paesi delle spese militari sostenute.
Ed è anche per questo che l’ONU è boicottata dagli Stati Uniti. L’azione dell’ONU viene compiuta da paesi che non sono direttamente interessati al conflitto quindi anche paesi piccoli sono impegnati nell’azione ONU; non vi sono eserciti privilegiati nello svolgere gli interventi, ma tutti i paesi partecipano abbastanza equamente. I contributi all’ONU vengono invece erogati dai paesi in ragione della loro potenza e possibilità. Ciò vuol dire che gli Stati Uniti ci rimettono in ogni azione in quanto pagano eserciti di altri.
Non solo, ma l’azione militare dell’ONU è solitamente finalizzata alla riduzione della conflittualità, l’esercito ONU non interviene direttamente, cerca di dirimere e di non aumentare il livello di scontro. Per questo è un esercito che non consuma bombe né carri armati né munizioni. Un esercito che quindi non interessa i produttori di armamenti, un esercito di pace che non interessa nemmeno i generali.
E gli Stati Uniti, che sono il maggiore contribuente dell’ONU, sono anche il loro maggiore debitore con 313 milioni di dollari, ovvero il 76% dei mancati incassi delle Nazioni Unite, e sono l’unico membro delle Nazioni Unite che trattiene il denaro con motivazioni di politica interna [1].
Ancora più grave l’azione di indebolimento delle Nazioni Unite attuata per quanto riguarda le missioni di pace, che sono osteggiate palesemente sia con l’indisponibilità di stanziare risorse e personale da parte di alcuni membri sia attraverso i veti ad attuare nuove azioni. Oltre che l’appropriazione di risorse la guerra consente altri guadagni.
È nota la sudditanza politica nei confronti dei vincitori per quei paesi che abbiano perduto dei conflitti: l’Italia è un esempio, come altri paesi che per anni hanno pagato gli aiuti ricevuti per la ricostruzione e le spese di guerra dei vincitori e che pagano anche nel lungo periodo.
Le spese di guerra si scaricano sugli sconfitti e quindi il solo fare la guerra porta ad un vantaggio per chi la vince.
Non solo, quando la guerra o l’azione di guerra viene operata da più soggetti, quelli che svolgono gran parte delle azioni militari sono rimborsati generosamente delle spese sostenute, e quindi traggono dei vantaggi significativi.
Esempio palese di questo criterio è la Nato. L’asse militare della Nato è composto dall’esercito americano e dal supporto della Gran Bretagna. I paesi che aderiscono alla Nato sono numerosi, ma non tutti partecipano alle azioni militari e comunque non partecipano mai come principali esecutori. Ciò vuol dire che gli Stati Uniti, ogni qual volta intervengono con la Nato, sono rimborsati da altri paesi delle spese militari sostenute.
Ed è anche per questo che l’ONU è boicottata dagli Stati Uniti. L’azione dell’ONU viene compiuta da paesi che non sono direttamente interessati al conflitto quindi anche paesi piccoli sono impegnati nell’azione ONU; non vi sono eserciti privilegiati nello svolgere gli interventi, ma tutti i paesi partecipano abbastanza equamente. I contributi all’ONU vengono invece erogati dai paesi in ragione della loro potenza e possibilità. Ciò vuol dire che gli Stati Uniti ci rimettono in ogni azione in quanto pagano eserciti di altri.
Non solo, ma l’azione militare dell’ONU è solitamente finalizzata alla riduzione della conflittualità, l’esercito ONU non interviene direttamente, cerca di dirimere e di non aumentare il livello di scontro. Per questo è un esercito che non consuma bombe né carri armati né munizioni. Un esercito che quindi non interessa i produttori di armamenti, un esercito di pace che non interessa nemmeno i generali.
E gli Stati Uniti, che sono il maggiore contribuente dell’ONU, sono anche il loro maggiore debitore con 313 milioni di dollari, ovvero il 76% dei mancati incassi delle Nazioni Unite, e sono l’unico membro delle Nazioni Unite che trattiene il denaro con motivazioni di politica interna [1].
Ancora più grave l’azione di indebolimento delle Nazioni Unite attuata per quanto riguarda le missioni di pace, che sono osteggiate palesemente sia con l’indisponibilità di stanziare risorse e personale da parte di alcuni membri sia attraverso i veti ad attuare nuove azioni.

I dati del business
In un documento ripreso da Internet, elaborato da uno studente del Politecnico di Milano, è stato fatto un bilancio sui costi e i ricavi della guerra dell’Iraq, appaiono dei dati che, ancorché indicativi, denunciano quanto la guerra sia un affare. I costi della guerra del Golfo sono ammontati a 40 miliardi di dollari; il 25% dei costi è stato coperto dagli USA, il 75% dai Paesi Arabi; il prezzo del petrolio, nel corso della guerra, è lievitato da 15 dollari a barile fino a 42 dollari a barile, generando un guadagno aggiuntivo stimabile in circa 60 miliardi di dollari; il 50% di questo guadagno è andato al governo locale, il 50% alla multinazionale che controlla il giacimento (30 miliardi di dollari ciascuno); le compagnie che controllano le estrazioni in Medio Oriente sono sette, tutte americane, di cui cinque statali; da ciò si evince che i Paesi Arabi hanno sostenuto un costo di 30 miliardi di dollari per spese di guerra ricavando altrettanto dal rincaro del petrolio. Il Governo USA ha sostenuto costi per spese di guerra pari a 10 miliardi di dollari e ha guadagnato 21 miliardi di dollari per il rincaro del petrolio con un ricavo di 11 miliardi di dollari; le Compagnie private USA hanno ricavato 9 miliardi di dollari. A questi dati va aggiunto che i 45 miliardi di dollari di spese di guerra, essendo costituiti per gran parte di costi relativi ad attrezzature e strumentazioni prodotte dall’industria bellica americana, sono diventati il guadagno per queste stesse imprese americane. Infine, i 60 miliardi di dollari che hanno costituito il guadagno derivato dal rincaro del petrolio sono stati pagati dagli utilizzatori del petrolio, e quindi anche direttamente da noi. Solo l’attuale minaccia della guerra nel Golfo ha fatto salire quasi del 30% il prezzo del petrolio tra gennaio e febbraio del 2003. [8] In un documento ripreso da Internet, elaborato da uno studente del Politecnico di Milano, è stato fatto un bilancio sui costi e i ricavi della guerra dell’Iraq, appaiono dei dati che, ancorché indicativi, denunciano quanto la guerra sia un affare. I costi della guerra del Golfo sono ammontati a 40 miliardi di dollari; il 25% dei costi è stato coperto dagli USA, il 75% dai Paesi Arabi; il prezzo del petrolio, nel corso della guerra, è lievitato da 15 dollari a barile fino a 42 dollari a barile, generando un guadagno aggiuntivo stimabile in circa 60 miliardi di dollari; il 50% di questo guadagno è andato al governo locale, il 50% alla multinazionale che controlla il giacimento (30 miliardi di dollari ciascuno); le compagnie che controllano le estrazioni in Medio Oriente sono sette, tutte americane, di cui cinque statali; da ciò si evince che i Paesi Arabi hanno sostenuto un costo di 30 miliardi di dollari per spese di guerra ricavando altrettanto dal rincaro del petrolio. Il Governo USA ha sostenuto costi per spese di guerra pari a 10 miliardi di dollari e ha guadagnato 21 miliardi di dollari per il rincaro del petrolio con un ricavo di 11 miliardi di dollari; le Compagnie private USA hanno ricavato 9 miliardi di dollari. A questi dati va aggiunto che i 45 miliardi di dollari di spese di guerra, essendo costituiti per gran parte di costi relativi ad attrezzature e strumentazioni prodotte dall’industria bellica americana, sono diventati il guadagno per queste stesse imprese americane. Infine, i 60 miliardi di dollari che hanno costituito il guadagno derivato dal rincaro del petrolio sono stati pagati dagli utilizzatori del petrolio, e quindi anche direttamente da noi. Solo l’attuale minaccia della guerra nel Golfo ha fatto salire quasi del 30% il prezzo del petrolio tra gennaio e febbraio del 2003. [8]

 

Il costo degli armamenti
 

Le spese militari annue sono pari a circa 1.200 miliardi di dollari; esse superano la spesa annuale della seconda guerra mondiale ed equivalgono alla spesa totale della prima [1].
Ogni anno circa 50 miliardi di dollari di armi convenzionali costituiscono il mercato di armi tradizionali [1].
Il commercio internazionale delle armi dal 1960 è pari a circa 1.500 miliardi di dollari. I due terzi di questa produzione sono diretti verso paesi in via di sviluppo. Tra il 1984 e il 1995 i paesi in via di sviluppo hanno ricevuto circa 15.000 carri armati, 34.000 pezzi di artiglieria, 27.000 veicoli blindati; quasi 1.000 tra navi da guerra e sommergibili, 4.200 aerei da combattimento, più di 3.000 elicotteri, circa 48.000 missili e milioni di armi di piccolo calibro [1].
Questa vendita è molto efficace per diversi ordini di motivi. In primo luogo aumenta il debito estero del paese e quindi ne aumenta la dipendenza nei confronti di coloro con cui ha contratto il debito; in secondo luogo indirizza i finanziamenti verso consumi improduttivi come gli armamenti che riducono la possibilità di una autonomia economica e sociale del paese interessato; in terzo luogo potenziano nel paese quei soggetti più vicini culturalmente e politicamente ai fornitori e dunque più legati all’apparato produttivo militare e ai militari stessi del paese esportatore.
Attraverso questo ultimo punto si riesce a controllare l’evoluzione politica del paese importatore e attraverso il potenziamento di un sistema aberrante quale quello militare si contribuisce al tentativo di soffocare scenari differenti.

Armi e profitti
Negli ultimi venti anni si calcola che siano stati immessi sul mercato ogni anno 6 milioni di armi leggere e che oggi vi siano in circolazione circa 550 milioni di armi da fuoco. Nel solo 2000 sono stati prodotti almeno 15 miliardi di munizioni [9]
Durante la seconda guerra mondiale gli eserciti schierati raggiunsero il numero di 69 milioni di soldati e nelle fabbriche di armamenti lavoravano 45 milioni di persone [1].
Immaginiamoci quali siano stati i profitti ottenuti con l’uso di questa enorme massa di manodopera, spesso sottoretribuita in ragione delle ristrettezze economiche della guerra, e con prezzi di prodotto elevate in ragione dell’indispensabilità dell’approvvigionamento.
La Boeing, la Northrop Grumann, la Raytheon, la Lockeed Martin e le quattro principali ditte interessate alla costruzione e vendita di aerei e missili, hanno sostenuto la campagna elettorale di numerosi politici sia repubblicani sia democratici (il 40% dei proventi annuali della Boeing sono per la vendita di armamenti). [4]
La Alliant Techosystems, che è l’impresa maggiore fornitrice di munizioni per le forze armate americane, nel 2000 ha speso 460.000 dollari per azioni di lobbying e nel 2001 ha versato contributi elettorali per 136.000 dollari. [4]
L’aumento delle spese militari ha interessato, tra il ’98 e il 2001, anche l’Africa (31%), l’Europa (28%), Asia del Sud (26%), Medio Oriente (25%). [10]
Gli USA hanno avviato il più massiccio riarmamento della loro storia: il bilancio militare è salito dai 250 miliardi di dollari del 1999 agli attuali 379; questa cifra è pari al 40% della spesa militare di tutto il pianeta, è superiore alla somma delle spese militari delle 14 maggiori potenze militari, è pari a poco meno del totale del PIL dell’India, a metà di quello del Brasile, ad un terzo di quello italiano. [6]
Secondo conti operati dalla Casa Bianca relativamente alla questione irachena, in caso di attacco via terra dovrebbero essere impegnati 270.000 militari professionisti, 100.000 riservisti, 1500 aerei, 800 elicotteri, 800 carri armati, almeno 60 navi da guerra, per un costo di 12,5 miliardi di dollari per lo schieramento, 9,2 miliardi di dollari per il primo mese di guerra, 7,5 miliardi di dollari per ciascuno dei mesi successivi, 7,3 miliardi di dollari per lo smantellamento dell’operazione. Come risulta evidente, con queste cifre si potrebbe eliminare ogni problema relativo alla fame nel mondo. [11]
Il missile da crociera Tomahawk BGM-109, prodotto dalla Raytheon, costa due milioni di dollari; sull’Iraq contano di lanciarne circa 3000 nelle prime ore. [4]
Un F16 costa circa 100 milioni di dollari, un carro armato M1 costa circa 5,9 milioni di dollari. [12]
Le spese militari su scala mondiale ammontano a circa 240 miliardi di dollari. La quota degli Usa equivale a circa il 20% del PIL mondiale. Un solo missile del tipo di quelli lanciati in Kossovo o in Afghanistan costa 2 milioni di dollari, somma con cui si potrebbero vaccinare tutti i bambini del pianeta. [13]
Mediamente negli ultimi anni sono commercializzati 38 miliardi di dollari di armi; negli anni ’90 circa il 70% degli ordinativi mondiali relativi alle armi è relativo ai paesi del Terzo Mondo. Tra il 1995 e il 2000 gli Usa hanno coperto il 47,3% del mercato degli armamenti, la Russia il 15,4%, la Francia il 9,4%, la Gran Bretagna il 6,7%, la Germania il 5,8%. Ad eccezione dell’India, tutti i primi dieci importatori di armamenti hanno quale fornitore principale gli Stati Uniti. (Il fatto che il valore medio annuo delle armi sia tra i 35 e 45 miliardi di dollari, circa l’1% del commercio mondiale, non spiega il potere condizionante di questo settore nella vita economica e politica dei singoli paesi). [12] Tra i più grandi importatori, nel biennio 1999-2000, c’è Taiwan (10,9%), Arabia Saudita (7,6%), Turchia (5,7%), Corea del Sud (5,6%). I primi 15 acquirenti di armamenti nel mondo assorbono il 64,1% della domanda globale, quattro di essi (Israele, Turchia, India e Pakistan) sono coinvolti in conflitti di lunga durata, e nove (Taiwan, Arabia Saudita, Corea del Sud, Cina, Grecia, Egitto, UAE, Kuwait e Malaysia) si trovano in aree instabili da decenni. [12] Negli ultimi venti anni si calcola che siano stati immessi sul mercato ogni anno 6 milioni di armi leggere e che oggi vi siano in circolazione circa 550 milioni di armi da fuoco. Nel solo 2000 sono stati prodotti almeno 15 miliardi di munizioni [9]
Durante la seconda guerra mondiale gli eserciti schierati raggiunsero il numero di 69 milioni di soldati e nelle fabbriche di armamenti lavoravano 45 milioni di persone [1].
Immaginiamoci quali siano stati i profitti ottenuti con l’uso di questa enorme massa di manodopera, spesso sottoretribuita in ragione delle ristrettezze economiche della guerra, e con prezzi di prodotto elevate in ragione dell’indispensabilità dell’approvvigionamento.
La Boeing, la Northrop Grumann, la Raytheon, la Lockeed Martin e le quattro principali ditte interessate alla costruzione e vendita di aerei e missili, hanno sostenuto la campagna elettorale di numerosi politici sia repubblicani sia democratici (il 40% dei proventi annuali della Boeing sono per la vendita di armamenti). [4]
La Alliant Techosystems, che è l’impresa maggiore fornitrice di munizioni per le forze armate americane, nel 2000 ha speso 460.000 dollari per azioni di lobbying e nel 2001 ha versato contributi elettorali per 136.000 dollari. [4]
L’aumento delle spese militari ha interessato, tra il ’98 e il 2001, anche l’Africa (31%), l’Europa (28%), Asia del Sud (26%), Medio Oriente (25%). [10]
Gli USA hanno avviato il più massiccio riarmamento della loro storia: il bilancio militare è salito dai 250 miliardi di dollari del 1999 agli attuali 379; questa cifra è pari al 40% della spesa militare di tutto il pianeta, è superiore alla somma delle spese militari delle 14 maggiori potenze militari, è pari a poco meno del totale del PIL dell’India, a metà di quello del Brasile, ad un terzo di quello italiano. [6]
Secondo conti operati dalla Casa Bianca relativamente alla questione irachena, in caso di attacco via terra dovrebbero essere impegnati 270.000 militari professionisti, 100.000 riservisti, 1500 aerei, 800 elicotteri, 800 carri armati, almeno 60 navi da guerra, per un costo di 12,5 miliardi di dollari per lo schieramento, 9,2 miliardi di dollari per il primo mese di guerra, 7,5 miliardi di dollari per ciascuno dei mesi successivi, 7,3 miliardi di dollari per lo smantellamento dell’operazione. Come risulta evidente, con queste cifre si potrebbe eliminare ogni problema relativo alla fame nel mondo. [11]
Il missile da crociera Tomahawk BGM-109, prodotto dalla Raytheon, costa due milioni di dollari; sull’Iraq contano di lanciarne circa 3000 nelle prime ore. [4]
Un F16 costa circa 100 milioni di dollari, un carro armato M1 costa circa 5,9 milioni di dollari. [12]
Le spese militari su scala mondiale ammontano a circa 240 miliardi di dollari. La quota degli Usa equivale a circa il 20% del PIL mondiale. Un solo missile del tipo di quelli lanciati in Kossovo o in Afghanistan costa 2 milioni di dollari, somma con cui si potrebbero vaccinare tutti i bambini del pianeta. [13]
Mediamente negli ultimi anni sono commercializzati 38 miliardi di dollari di armi; negli anni ’90 circa il 70% degli ordinativi mondiali relativi alle armi è relativo ai paesi del Terzo Mondo. Tra il 1995 e il 2000 gli Usa hanno coperto il 47,3% del mercato degli armamenti, la Russia il 15,4%, la Francia il 9,4%, la Gran Bretagna il 6,7%, la Germania il 5,8%. Ad eccezione dell’India, tutti i primi dieci importatori di armamenti hanno quale fornitore principale gli Stati Uniti. (Il fatto che il valore medio annuo delle armi sia tra i 35 e 45 miliardi di dollari, circa l’1% del commercio mondiale, non spiega il potere condizionante di questo settore nella vita economica e politica dei singoli paesi). [12] Tra i più grandi importatori, nel biennio 1999-2000, c’è Taiwan (10,9%), Arabia Saudita (7,6%), Turchia (5,7%), Corea del Sud (5,6%). I primi 15 acquirenti di armamenti nel mondo assorbono il 64,1% della domanda globale, quattro di essi (Israele, Turchia, India e Pakistan) sono coinvolti in conflitti di lunga durata, e nove (Taiwan, Arabia Saudita, Corea del Sud, Cina, Grecia, Egitto, UAE, Kuwait e Malaysia) si trovano in aree instabili da decenni. [12]


 

La scuola di preparazione alla guerra
 

La preparazione alla guerra si attua tutti i giorni in quasi tutte le società del mondo; un’educazione costante puntigliosa che passa anche per atti apparentemente normali.
Al mondo vi sono circa 22 milioni di militari. [1] Se a questi aggiungiamo tutti quelli che lo sono stati, i riservisti, ecc., si comprende l’incidenza all’interno delle società di una mentalità che per quanto l’esercito possa essere democratico è strutturata sull’uso della forza.
Vi è l’educazione al parossismo all’intransigenza al confronto immotivato e semplicistico che viene effettuata attraverso il bieco tifo calcistico in cui uno trova soddisfazione nella sconfitta dell’altro, in cui si abituano le persone a dedicarsi integralmente ad una passione, basata sulla differenza dei colori di magliette, che diventa scelta di vita immotivata come la guerra e la sua dinamica.
Ma l’allenamento al nemico alla forza alla capacità di eliminarlo passa ogni giorno attraverso i videogiochi o i film di violenza.
I film negli ultimi dieci anni: almeno sei film che trattavano di guerra, per gran parte in maniera acritica, hanno ricevuto degli oscar. Nella settimana dal 29/12/02 al 4/1/03 le sette reti principali in Italia hanno trasmesso dieci film, esclusi quelli della notte, aventi per oggetto la guerra. A questi, volendo, possono essere aggiunti tutti quelli: polizieschi, thriller, dove vi è comunque un uso della violenza, armata e gratuita, che costituiscono almeno un terzo della programmazione televisiva, incluse le piccole reti, costantemente lungo il corso dell’anno.
Dei circa 18.000 film censiti dal catalogo Morandini circa 2.000 hanno come oggetto o come principale luogo di azione la guerra (a questi vanno uniti tutti i polizieschi, investigativi, fantascientifici, horror dove comunque vi è un uso della violenza armata e gratuita).
Ma questo non è casuale. È un progetto educativo visto che la produzione dei videogiochi afferisce a pochi produttori e che l’ottanta per cento di questi film è prodotto negli Stati Uniti. Non è un caso che in prossimità delle guerre vincano gli oscar film che trattano di guerra e non è un caso che l’oscar l’abbia vinto “Cercate il soldato Ryan” e non “La sottile linea rossa” film di guerra ma profondamente critico.
In questo promuovere la stampa è altro strumento di supporto.
La stampa si è dedicata a sostenere la preparazione della guerra. Ciò non è avvenuto solamente con la dichiarazione di appoggio alle politiche belliciste ma con azione di supporto indiretto e camuffato come ad esempio il sostegno alla centralità dell’esercito senza parlare di guerra. Tra gli altri “La carica dei Rambo” di Alexander Hamilton, con sottotitolo “Duri e spietati, capaci di mangiare serpenti o stare immobili per giorni in una gabbia, sono pronti a tutto, naturalmente anche a morire”, più decine di foto di “veri uomini” armati, rilassati, umani, efficienti (pubblicato in “D di Repubblica”, 14 dicembre 2002).
Per avere una informazione effettiva di cosa stesse succedendo in Afghanistan Marc Herold, professore universitario statunitense, ha ricostruito il numero totale delle vittime civili dal 7 ottobre 2001 al 18 gennaio 2002 attraverso le informazioni pubblicate su dieci diversi quotidiani americani. Nessun giornale infatti comunicava che ogni giorno morivano mediamente più di 40 civili sotto l’azione dell’esercito americano. L’informazione è asservita e il dato significante passa parcellizzato e minimizzato. [14] La preparazione alla guerra si attua tutti i giorni in quasi tutte le società del mondo; un’educazione costante puntigliosa che passa anche per atti apparentemente normali.
Al mondo vi sono circa 22 milioni di militari. [1] Se a questi aggiungiamo tutti quelli che lo sono stati, i riservisti, ecc., si comprende l’incidenza all’interno delle società di una mentalità che per quanto l’esercito possa essere democratico è strutturata sull’uso della forza.
Vi è l’educazione al parossismo all’intransigenza al confronto immotivato e semplicistico che viene effettuata attraverso il bieco tifo calcistico in cui uno trova soddisfazione nella sconfitta dell’altro, in cui si abituano le persone a dedicarsi integralmente ad una passione, basata sulla differenza dei colori di magliette, che diventa scelta di vita immotivata come la guerra e la sua dinamica.
Ma l’allenamento al nemico alla forza alla capacità di eliminarlo passa ogni giorno attraverso i videogiochi o i film di violenza.
I film negli ultimi dieci anni: almeno sei film che trattavano di guerra, per gran parte in maniera acritica, hanno ricevuto degli oscar. Nella settimana dal 29/12/02 al 4/1/03 le sette reti principali in Italia hanno trasmesso dieci film, esclusi quelli della notte, aventi per oggetto la guerra. A questi, volendo, possono essere aggiunti tutti quelli: polizieschi, thriller, dove vi è comunque un uso della violenza, armata e gratuita, che costituiscono almeno un terzo della programmazione televisiva, incluse le piccole reti, costantemente lungo il corso dell’anno.
Dei circa 18.000 film censiti dal catalogo Morandini circa 2.000 hanno come oggetto o come principale luogo di azione la guerra (a questi vanno uniti tutti i polizieschi, investigativi, fantascientifici, horror dove comunque vi è un uso della violenza armata e gratuita).
Ma questo non è casuale. È un progetto educativo visto che la produzione dei videogiochi afferisce a pochi produttori e che l’ottanta per cento di questi film è prodotto negli Stati Uniti. Non è un caso che in prossimità delle guerre vincano gli oscar film che trattano di guerra e non è un caso che l’oscar l’abbia vinto “Cercate il soldato Ryan” e non “La sottile linea rossa” film di guerra ma profondamente critico.
In questo promuovere la stampa è altro strumento di supporto.
La stampa si è dedicata a sostenere la preparazione della guerra. Ciò non è avvenuto solamente con la dichiarazione di appoggio alle politiche belliciste ma con azione di supporto indiretto e camuffato come ad esempio il sostegno alla centralità dell’esercito senza parlare di guerra. Tra gli altri “La carica dei Rambo” di Alexander Hamilton, con sottotitolo “Duri e spietati, capaci di mangiare serpenti o stare immobili per giorni in una gabbia, sono pronti a tutto, naturalmente anche a morire”, più decine di foto di “veri uomini” armati, rilassati, umani, efficienti (pubblicato in “D di Repubblica”, 14 dicembre 2002).
Per avere una informazione effettiva di cosa stesse succedendo in Afghanistan Marc Herold, professore universitario statunitense, ha ricostruito il numero totale delle vittime civili dal 7 ottobre 2001 al 18 gennaio 2002 attraverso le informazioni pubblicate su dieci diversi quotidiani americani. Nessun giornale infatti comunicava che ogni giorno morivano mediamente più di 40 civili sotto l’azione dell’esercito americano. L’informazione è asservita e il dato significante passa parcellizzato e minimizzato. [14]

Gli uomini
 

Le guerre contemporanee sono il massimo della diversificazione degli uomini in caste. I sodati angloamericani morti nella Prima guerra del Golfo sono stati circa centocinquanta, in parte ammazzati dagli stessi commilitoni o morti in incidenti. I militari iracheni morti sono stati circa centomila, i civili cinquecentomila incluso l’embargo.
In Serbia tremila morti civili contro meno di dieci morti militari.
Le caste dei combattenti sono protette. La casta dei vincitori garantisce di non morire, di giocare con le vite degli altri, di avere gloria e medaglie ma di non morire con dolore, di avere il minimo di contatto con gli sconfitti per non essere eventualmente turbati. Alla casta degli alleati locali garantisce potere sui civili, massacri e violenze, incluse quelle sessuali, resa dei conti con faide antiche, il minimo del rischio possibile. Alla casta dei militari sconfitti garantisce stipendio, mangiare, qualche massacro non punito, violenze, ma non la vita. Alla casta dei civili perdenti non garantisce nulla. Alla casta dei civili locali qualche piccola soddisfazione. Alla casta dei civili vincitori garantisce di non essere disturbati.

 

Sabotare la pace
 

La massima fatica dell’apparato militare non è quella di fare una guerra. Lì ci si diverte: aerei che volano, bombe, morti, assalti, eroi, armamenti spaziali. La gente guarda attonita, allibita, eccitata, sgomenta. Ma a quel punto è fatta: sono convinti che sia necessaria e se dura poco, come deve durare poco, non c’è tempo per capire bene che cosa stia avvenendo, e dopo è fatta.
La massima fatica dell’apparato è quella di preparare le condizioni della guerra ovvero sabotare la pace.
Un lavoro in ombra, fatto da piccole azioni che mettono zizzania, creano tensioni, complicano il quadro delle relazioni, allontanano, quando si manifestasse, la risoluzione dei problemi in modo pacifico.
Piccoli eserciti che combattono per un dio, una fede, una terra, un popolo, una nazione, una tribù ma all’interno di una strategia, ovvero finanziati, sostenuti, educati alla guerra, di cui non conoscono obiettivi e non capiscono il ruolo che svolgono.
Una quantità enorme di finanziamenti va a queste attività.
Uno dei maggiori esempi è la questione palestinese.

La rivincita degli ignoranti
 

In guerra hanno massimo spazio le semplificazioni. Semplificazioni di ragionamenti e di comportamenti: la salvezza, la paura, la soddisfazione delle vittoria. Cercare di mangiare, di bere, di sopravvivere.
In questa semplificazione, ridotta alla dinamica elementare amico-nemico, passa una logica utilitaristica al raggiungimento dell’esito finale, qualunque cosa può essere fatta se aiuta al raggiungimento del fine. Ogni atto, anche il più barbaro, è legittimo, basta che comporti nocumento all’avversario e vantaggio all’amico: sentimenti, gusto, bellezza, natura non hanno più senso, non vengono nemmeno considerati come elementi di scelta. Tutto è consentito. E la guerra è in questo la rivincita degli ignoranti, di coloro che ignorano le infinite relazioni tra gli uomini, tra l’uomo e il suo ambiente, la cultura, i caratteri dei luoghi e delle comunità.
Nella seconda guerra mondiale la distruzione di Dresda fu attuata attraverso un bombardamento alleato pochi giorni prima della capitolazione, con le truppe sovietiche già a pochi chilometri dalla città, nella consapevolezza che in essa non si rintanava una armata tedesca ma circa duecentomila rifugiati dai territori limitrofi nella speranza che l’unica città d’arte della Germania non ancora distrutta fosse risparmiata. Questa azione non portava nessun vantaggio militare ma un ulteriore onere per la popolazione tedesca e uno svantaggio per il futuro blocco dell’est che aveva un’altra ferita da rimarginare: il tutto con “solo” trecentomila morti, il più grande massacro da bombardamento, superiore alla sperimentazione delle incendiarie su Amburgo, con i suoi circa centocinquantamila morti, superiore a Nagasaki e Hiroshima messi insieme.

La giustizia di guerra

È una giustizia molto chiara, forse la più chiara e palese di tutte le forme di giustizia applicate dagli stati: chi vince ha ragione. Così al termine della seconda guerra mondiale vengono processati i criminali nazisti, ma solo alcuni, perché altri sono lasciati scappare per mantenere quella rete anticomunista che era la fissazione degli occidentali, o per utilizzarli come funzionari delle nuove polizie ad est e ovest indifferentemente. Per gli alleati che hanno bombardato intere popolazioni civili non succede nulla, ma non succede nulla nemmeno per i militari tedeschi che hanno sterminato intere popolazioni civili nei paesi occupati. A distanza di anni ancora oggi si chiede giustizia per assassini che hanno vissuto tranquillamente la loro esistenza.
Così Milosevic è processato non perché sia un assassino, ve ne sono altrettanti da quest’altra parte, ma perché ha perso e non è divenuto servo dei vincitori, o perché non è funzionale al loro progetto.
La giustizia di guerra è bella. Riesce anche ad avere le assoluzioni da parte delle religioni.

Piccole guerre private e grandi manovre
 

Gli eserciti nazionali di molti paesi sono stati finanziati e gestiti in ragione della loro appartenenza ad uno dei blocchi su cui si inscenava la guerra fredda. Al cambiamento delle condizioni strategiche complessive questi eserciti, quando non si trovavano in aree di crisi, non hanno più goduto di finanziamenti.
Ciò ha comportato che si sono riorganizzati su basi di potere locali; molto meno efficienti a scala più vasta, con armi di scarto delle potenze che li finanziavano, hanno avuto mano libera alla conflittualità locale, tacitata precedentemente in ragione di un interesse di ordine superiore.
Questi eserciti si sono dedicati a massacri e carneficine locali con esiti solitamente molto efficaci in termini di aumento di dipendenza dall’esterno e di riduzione dell’autonomia nel controllo delle risorse.
Questo lasciare fare, o meglio stimolare i belligeranti locali che comunque garantiscono il flusso di risorse e di profitti voluti, ha peggiorato significativamente la qualità della vita in tutto il pianeta. La violenza esercitata da queste bande impedisce il raggiungimento dei valori minimi di convivenza, rappresenta una minaccia quotidiana per chi volesse vivere autonomamente, non da servo, la propria esistenza, rende impossibile la diffusione di quei comportamenti civili che sono alla base della ricostruzione di quelle comunità sociali che questo modello e gli interessi coloniali precedenti hanno distrutto.
Queste bande armate, questi conflitti servono a continuare lo sfruttamento, a rendere impossibile qualsiasi altra soluzione, a negare rispetto alle persone, a renderle insicure, affannate, terrorizzate in un clima continuo di olocausto, di incertezza, di impossibilità di modificare le proprie condizioni di esistenza.
E queste condizioni di guerra continua sono funzionali all’attuale assetto del mercato, all’attuale sistema produttivo, all’attuale dinamica di potere.

 

Piccoli eserciti
Le multinazionali petrolifere e minerarie, che operano nello sfruttamento delle risorse in paesi in via di sviluppo, solitamente si dotano di piccoli eserciti di protezione dei campi di sfruttamento. In alcuni casi, come l’Occidental Petroleum in Colombia, la Shell in Nigeria, la ExxonMobile in Indonesia, questi eserciti hanno svolto un ruolo di addestratori dell’esercito nazionale. [9] Questa condizione è diffusamente riscontrabile in Centro America, con i produttori di banane e gli eserciti che controllano i campi e obbligano i lavoratori a modalità di lavoro e di vita insostenibili. Vi sono società che mettono a disposizione mercenari, solitamente militari, professionisti in cerca di occupazione o maggiori guadagni. Le società che reclutano e distribuiscono mercenari sono quotate in borsa a Wall Street, e godono ottima salute.

 

Gli scenari futuri

Lo sfruttamento di risorse avviene a ritmi superiori a quelli consentiti dagli ecosistemi. La quantità di risorse prelevata, nonostante sia superiore alle capacità dei sistemi, è molto inferiore alle richieste del mercato. In questo si evidenzia un ambito di pericolosità estrema. Ovvero il prezzo delle risorse potrebbe aumentare, direttamente connesso alla loro indispensabilità per la produzione di merci, e quindi aumenterebbe l’interesse al loro controllo.
Aumentare i prezzi di vendita e ridurre i costi di produzione. Per fare questo lo strumento più utilizzato è quello di mettere in stato di necessità il venditore della materia prima. Ciò avviene in tutta l’Africa centrale, ad esempio in Sierra Leone o in Angola, dove i lunghi periodi di guerra hanno permesso il prelievo di risorse e la loro vendita ad un prezzo bassissimo. Nel modello applicato le compagnie che gestiscono l’acquisto delle risorse pagano pochissimo ma lo pagano direttamente all’esercito che controlla le risorse stesse e, attraverso quei soldi, si arricchisce e si potenzia così da poter esercitare un maggiore controllo sull’area; avendo però necessità assoluta di soldi e armi abbassa il prezzo e svende la risorsa di cui dispone.
Attraverso le guerre locali i grandi imprenditori occidentali hanno tratto un cospicuo vantaggio.
Lo scenario, che si rilegge abbastanza chiaramente in quanto praticato su larga scala, è quello di una estesa destabilizzazione, la più estesa possibile e non solo nei paesi in via di sviluppo ma in tutti quelli in cui vi siano risorse; questo consente di ottenere la caduta dei prezzi delle risorse, la creazione di stati di necessità attraverso piccole guerre locali, che, nel caso convenga, possono essere anche estese ad altre aree. Nessun interesse per il controllo dello stato ma solo dell’area in cui vi sono le risorse. Bande di armati, eserciti privati, piccoli eserciti finanziati per mantenere questo stato di alterazione che consente di eliminare l’autonomia delle comunità.
Questo modello è oggi palese per il mercato dei diamanti, per le foreste, per alcuni materiali fondamentali per la produzione industriale più avanzata, ma è destinato ad estendersi anche a risorse che sono di uso più diffuso e attualmente di maggiore accessibilità. Prima tra tutti l’acqua.
Nei territori fuori mura desertici, abbandonati, distrutti gli individui vagano dispersi e impauriti nei territori dentro le mura illuminati, convulsi allusivi gli individui tessono nevrotici le reti del potere.

I paranoici

Non si può sottovalutare che nel mondo vi siano dei malati che, ahinoi, stanno spesso al potere. Non è una combinazione che la scalata al potere richieda di essere paranoici (immaginatevi una vita “a fare scarpe agli altri” ed evitare il contrario, una vita di accordi da smentire alla prima occasione, di interessi da celare, di piaceri da fare, di discussioni infinite, di parole vuote…) in quanto esso stesso è paranoico.
Che si può dire ad uno che afferma che: “con i suoi cento milioni di abitanti e un arco di cinquecento chilometri di isole contenenti la riserva di risorse naturali più ricca della regione, l’Indonesia è il più ambito trofeo del sud est asiatico”, specialmente se questi è R. Nixon? E siamo nel 1967, subito dopo una delle più grandi carneficine di disarmati voluta, finanziata, sostenuta dagli Stati Uniti, a proposito della quale, nello stesso anno, H. Holt, primo ministro australiano, ebbe modo di dichiarare: “Ora che da 500.000 a un milione di simpatizzanti comunisti sono fuori dai piedi credo sia sensato ritenere che sia in atto un riorientamento”.
Del resto la visione indifferente è il fondamento della guerra: “Essi sanno che il loro paese è nostro…che dettiamo noi il modo in cui loro vivono e parlano. E questa è la cosa importante dell’America, ora. È una buona cosa, specialmente se là c’è un sacco di petrolio che serve a noi” W. Looney, comandante dei bombardamenti in Iraq. Quando fu domandato a M. Albright, ambasciatore degli Stati Uniti alle NU, se la morte, attestata dall’UNICEF dal 1991 al 1998, in Iraq di cinquecentomila bambini dipesa dalle sanzioni imposte dai vincitori, anche sulle medicine, fosse il prezzo da pagare dichiarò “riteniamo che il prezzo ne valga la pena”.
Una cronista si rivolse al ministero della difesa inglese al più alto funzionario connesso alla questione Iraq nel 1999 dopo che aveva assistito ad un bombardamento nelle zone di non sorvolo che aveva colpito un povero e inerme villaggio uccidendo civili e greggi: “sono appena tornata da Mosul –disse – dove voi state bombardando pecore, e mi chiedevo se avete qualcosa da dire a riguardo”, “ci riserviamo il diritto di intraprendere azioni di forza – rispose il funzionario – se minacciati”.
Guerre totali, mancanza di dialogo, dichiarazioni esagitate sono alla base della contemporanea comunicazione Cheney, vicepresidente americano, nella quale sostiene che la guerra “potrebbe non esaurirsi nello spazio delle nostre vite”, e T. Blair, primo ministro inglese, a proposito di quei pezzenti e già stipendiati fissi angloamericani dei talebani dichiara: “nessun compromesso è possibile con questa gente… abbiamo solo una scelta: sconfiggerli o farci sconfiggere”.
Illuminanti sono le dichiarazioni, lontane nel tempo ma vicine nella continuità, di Lord Curzon, viceré delle Indie, nel 1898: “Confesso che per me [i paesi] sono pezzi di una scacchiera sulla quale si sta giocando un grande gioco per il dominio del mondo”, e di G. Kennan, pianificatore strategico degli Stati Uniti, nel 1948: “Abbiamo il 50% del benessere mondiale ma solo il 6,3% della sua popolazione. In questa situazione, il nostro vero compito nel prossimo periodo… sarà di mantenere questa posizione di disparità. Per far ciò, dovremmo fare a meno di ogni sentimentalismo… smetterla di pensare ai diritti umani, al miglioramento degli standard di vita e alla democratizzazione”.
E infine T. Friedman, giornalista del NY Times, svela le relazioni tra mercato e controllo militare: “McDonald’s non potrà mai funzionare senza la McDonnel Douglas che ha progettato l’F-15. E il pugno nascosto che mantiene il mondo sicuro per le tecnologie di Silicon Valley si chiama Esercito, Aviazione, Marina e corpo dei marines americani”.
Sono questi gli attuali vincitori ed è possibile, ma né auspicato né desiderato, che in futuro ve ne siano altri.
Questa forma di paranoia è un modo di intendere la vita e le cose del mondo che non è propria di uno stato, ma forse è propria degli stati.
“Non capisco questo clamore intorno all’uso del gas. Personalmente sono fortemente a favore dell’uso contro le tribù non civilizzate”, Winston Churchill, segretario di Stato, Ufficio della guerra Britannico, autorizzando l’uso di armi chimiche contro la rivolta irachena.

La fantasia applicata
Gli Usa progettano minibombe atomiche (testo pubblicato sul sito del Los Alamos Study Group). Negli Usa è allo studio una nuova generazione di testate nucleari di piccola potenza (low-yeld) capaci di penetrare profondamente nel terreno (300 metri di granito) prima di esplodere; in Russia sono allo studio piccole testate nucleari (mini-nukes) di 0,4 kilotoni da utilizzare sul campo di battaglia (il tentativo è quello di cancellare la distinzione tra armi nucleari e convenzionali legittimandone l’uso in un conflitto convenzionale o abbassando la soglia d’un conflitto nucleare).[6] L’Amministrazione Bush sta lavorando per una difesa “a strati” (layered defence) consistente in molti tipi complementari di difesa antimissili (previsione dei costi sottostimata: 115 miliardi di dollari). La Russia ha condotto un test su missili balistici intercontinentali a tre stadi più un veicolo “post-boost” contenente una testata nucleare che vola ad alta velocità nell’atmosfera per superare le difese antimissili; sono già in produzione missili intercontinentali con più di sei testate nucleari. Nella Prima guerra del Golfo è possibile che gli USA abbiano fatto uso di aggressivi allucinogeni; recentemente sono in corso esperimenti nel Nevada di produzione di agenti biologici letali usando l’ingegneria genetica. Durante la guerra dei Balcani gli Usa lanciarono un’offensiva “cyber-combat” disturbando la rete di comando e controllo dell’esercito iugoslavo, azzerando i computer, inserendo messaggi ingannevoli, disturbando la rete telefonica. [6] È in via di sperimentazione una bomba che esplode in quota in condizione di generare un campo magnetico di 200 milioni di watt, in grado di “oscurare” tutte le apparecchiature elettroniche ed elettriche. [15]
Gas nervini, agenti vescicanti (tra cui “mostarda azotata”), agenti asfissianti, agenti tossici per il sangue, sono alcune delle armi chimiche largamente diffuse in molti eserciti del mondo; sono considerate armi biologiche virus e batteri che provocano epidemie, tra gli altri: antrace, brucellosi, encefalite, tifo, tubercolosi, vaiolo, colera, peste, ecc. Le armi biochimiche sono considerate “le più efficaci”; per ottenere lo stesso numero di morti a miglio quadrato servono, ad esempio, 32 tonnellate di bombe a grappolo, 5 chili di materiale fissile nucleare, 8 grammi di spore di antrace. [16]
Le industrie sviluppano la ricerca in stretta connessione con gli apparati militari e frequentemente producono soluzioni tecnologiche avanzate che o vengono utilizzate esclusivamente dai militari o da essi controllate.
È il caso questo dei rilevamenti satellitari o di Internet, ma avviene anche che alcune soluzioni tecniche vengano mantenute strettamente in ambito militare per avere un vantaggio in termini strategici. È il caso questo, ad esempio, delle auto ad idrogeno che mentre stentano ad entrare nel mercato civile, rimanendo a livelli di prototipo, sono state già inserite all’interno delle dotazioni dell’esercito statunitense (30.000 unità entro il 2010). [17]

Se tutta questa capacità creativa fosse applicata al benessere delle persone…

Alcune riflessioni sui comportamenti

Anche il comportamento dei singoli individui può condizionare pesantemente le scelte dei governi e dei soggetti promotori delle guerre.
Ridurre al minimo il consumo di benzina, gli spostamenti con mezzi, il consumo energetico (in particolare per quanto attiene le guerre legate al petrolio, ma comunque il prezzo del petrolio è il maggiore sistema di finanziamento di alcuni dei principali conflitti).
Boicottare le merci dei paesi belligeranti e in particolare degli aggressori rendendo manifeste le proprie posizioni.
Criticare qualunque comportamento che sostenga il confronto belligerante come sistema risolutivo delle questioni tra stati.
Boicottare le banche che finanziano il mercato delle armi.
Denunciare gli interessi che sostengono le guerre.

 

 

Bibliografia

Fonti citate
[1] Renner M. (1999), State of the War. I dati economici, sociali e ambientali del fenomeno guerra nel mondo, Edizioni Ambiente, Milano
[2] Cereda P., Sartor G. (2002), Fuga immobile, in Nigrizia, anno 120, n. 11
[4] Minak A. (2003), Titoli di guerra, in Liberazione 11.2.2003
[5] Pilger J.(2002), I nuovi padroni del mondo, Fandango Libri, Roma
[6] Baracca A. (2003), Ritorna l’incubo nucleare, in Guerra & Pace n. 93, ottobre, www.mercatiesplosivi.com/guerrepace
[7] WarNews. Notizie dai conflitti nel mondo (2002), Il prezzo della vittoria, www.warnews.it
[8] Tratto da una lezione del corso di Modellistica e gestione delle risorse naturali 1 del Politecnico di Milano ripreso da Internet, in Liberazione 1.3.2003
[9] Ciampo M. (2002), Pianeta guerra. Il conflitto come norma del mondo globalizzato, Edizioni Intra Moenia, Napoli
[10] WarNews. Notizie dai conflitti nel mondo (2002), L’industria bellica dopo l’11 settembre, www.warnews.it
[11] Il costo della guerra, i conti della Casa Bianca, in Liberazione 5.3.2003
[12] Ludovisi A. (2002), Guerra globale e corsa al riarmo, in Guerra & Pace, aprile, www.mercatiesplosivi.com/guerrepace
[13] AAVV (2002), Le perle del neoliberismo, in Rebedilia, n. 1, supplemento Liberazione
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www.emergency.it il sito della campagna «Fuori l’Italia dalla Guerra»
web.tiscali.it/traduttoriperlapace traduzioni in e da tutte le lingue di messaggi
contrari alla guerra
www.peacelink.it/mediawatch osservatorio sulla disinformazione dei media sulla
guerra
www.unimondo.org informazioni sulla «pace preventiva» e altro
www.nowartv.it; www.globalradio.it; www.tvglobal.org notizie e informazioni sulla
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www.fermiamolaguerra.it sito del coordinamento «Fermiamo la guerra»
www.whithouse.gov/news/release/2002/12/WMDStrategy.pdf Il pilastro della teoria della guerra preventiva
www.hrw.org Il sito Rapporto di Human Rights Watch
www.projects.sipri.se/armstrade Il sito dell’Istituto Internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri)
www.amnesty.it Il sito di Amnesty International sezione Italiana
www.warnews.it Il sito di WarNews Notizie dai conflitti del mondo, banca dati aggiornata
www.mercatiesplosivi.com/guerrepace Il sito della Rivista Guerra & Pace, sono scaricabili interi numeri della rivista
www.un.org Il sito delle Nazioni Unite
www.zabriskypoint.org/guerra.htlm Sito con informazioni ed elaborazioni contro la guerra
www.iacenter.org Il sito dell’International Action Center
www.lunaria.org/sbilanciamoci Il sito di Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per la società, l’ambiente, la pace

 

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