Se Errico Malatesta fu l’agitatore
instancabile e l’organizzatore, se Luigi Fabbri fu l’intellettuale acuto
e aperto alle sollecitazioni di una società in profondo mutamento,
Pietro Gori fu, a cavallo fra ottocento e novecento, fra i grandi
anarchici italiani, quello che più di ogni altro riuscì a comunicare
all’immaginazione delle masse popolari la grandezza e la sovversiva
originalità dell’umanesimo anarchico.
La sua vita avventurosa e la tragica e prematura morte ne hanno a lungo
accompagnato il ricordo, evidenziandone gli aspetti più romantici,
quelli che ne hanno fatto “il cavaliere dell’ideale” o il “poeta
dell’anarchia”, ma la sua attività sociale, ben lungi dall’essere
improntata a una approssimativa divulgazione dell’idea anarchica, fu
determinante per il crescere e il consolidamento fra le classi
subalterne di una volontà di rivolta cosciente e di emancipazione
solidale. La sintesi fra il solido pensatore, l’agitatore irrequieto e
il comunicatore di straordinaria grandezza, contribuì alla nascita di un
mito duraturo che appartenne, trasversalmente, non solo agli anarchici
della “sua” Toscana, ma a tutti coloro che aspirarono e lottarono, col
pensiero e con l’azione, per l’edificazione di una società in cui
giustizia e libertà non fossero parole vuote destinate a pochi, ma i
principi fondamentali della vita collettiva. Un mito, quello di Pietro
Gori, consolidatosi nella convergenza fra il suo percorso di vita,
“cristianamente” dedicato agli oppressi, e quello di larghi strati
popolari che trovavano finalmente, nella sua azione, lo strumento della
propria emancipazione. Simile alla dedizione dei contadini reggiani per
Camillo Prampolini, o delle mondine di Molinella per Luigi Massarenti,
l’amore che i minatori dell’Elba portarono a Gori spiega più e meglio di
tanti discorsi quanto profondamente incisero, in quegli anni, le idee di
libertà dell’anarchia.
Nato a Messina nel 1865 da genitori toscani e laureatosi a Pisa in
giurisprudenza, ben presto inizia la propria attività di propagandista
del pensiero anarchico, spesso affiancata da quella di avvocato negli
innumerevoli processi che vedono altri anarchici sul banco degli
accusati. Il primo arresto, con condanna a un anno di carcere, è del
1890 e successivamente le numerose sentenze a suo carico (tutte
comminate per reati d’opinione) lo porteranno ad affrontare più e più
volte l’esilio, ora nel nord dell’Europa, ora nelle Americhe. Nel 1891 è
al congresso anarchico di Capolago, dove vengono gettate le basi del
partito socialista anarchico rivoluzionario, e nel 1892 partecipa a
Genova ai lavori del Congresso che vede riunite le Società Operaie di
tutta Italia, dove, con la nascita del partito socialista italiano, si
consuma definitivamente la separazione fra le due scuole del socialismo,
quella anarchica, rivoluzionaria e antiparlamentare e quella
socialdemocratica, riformista e parlamentare. Costretto nel 1894 ad
abbandonare l’Italia, ripara dapprima in Svizzera (quando il governo
elvetico lo espellerà su pressioni dello stato italiano compone la
famosissima Addio a Lugano) poi in Belgio e Olanda e infine a Londra,
dove entra in contatto con il principe anarchico Kropotkin e la
combattiva Louise Michel, eroina della Comune di Parigi. Da Londra passa
negli Stati Uniti dove svolge, nella numerosa colonia italoamericana,
una intensissima attività di pubblicista e conferenziere. È soprattutto
grazie a questa sua presenza, e a quella quasi contemporanea di
Malatesta, che si consolida in America fra gli immigrati italiani un
forte e duraturo movimento anarchico.
Dopo una breve parentesi in patria, una nuova condanna a 12 anni di
galera lo risospinge all’estero, questa volta in Argentina (dove fonda
l’importante rivista scientifica in spagnolo Criminalogia moderna), poi
in Cile, Uruguay e Brasile. Rientrato in Italia grazie ad una amnistia,
nel 1903 fonda, assieme a Luigi Fabbri la rivista Il Pensiero, che nei
suoi otto anni di esistenza sarà un punto di riferimento costante e
imprescindibile dell’anarchismo organizzatore. Gli ultimi anni di vita,
ormai minata dalla tubercolosi, ne vedono notevolmente ridotta
l’attività, ma nonostante il male che ne fiacca tragicamente le forze,
cerca ancora, quando possibile, di dare il suo contributo alla causa. Un
ultimo giro di conferenze in Romagna e nelle Marche, la sistemazione dei
suoi numerosissimi scritti, sono gli ultimi segni del suo lavoro. Si
spegne a Porto Ferraio, nell’amatissima isola d’Elba, nel gennaio del
1811.
Qui sono riprodotte, da un bellissimo romanzo di Angelo Toninelli, le
pagine che descrivono i suoi funerali, ultima grandiosa manifestazione
di affetto del popolo toscano a Pietro Gori. Sono pagine a mio parere
straordinarie, non solo per come riescono a riportare nella loro
esattezza storica i momenti delle esequie, ma perché descrivono con una
immediatezza quasi “contemporanea” il grande attaccamento che le
popolazioni elbane e della Versilia portavano al loro paladino, a quella
figura che ai loro occhi aveva sempre rappresentato quanto di più caro,
nobile e solidale potesse esserci.
Massimo Ortalli
Per la felicità
di tutti gli uomini
di Pietro Gori
Amici e compagni miei.
Voi queste cose le avete pensate altre volte; oggi io che ho vissuto
molto tra voi e tra il popolo sempre, anche nelle città, ho cercato di
farvi meglio conoscere le ingiustizie della vostra condizione; ma a voi,
che avete forse sentite più di me le strette del bisogno, e gli stenti
di una travagliata esistenza, queste idee saranno più d’una volta venute
in forma più o meno chiara alla mente.
Ma voi siete anche qui venuti, e vi siete raccolti. Voi avete anche
compreso che solo l’unione di tutte le forze vostre può prepararvi un
avvenire migliore.
Entrando qui, voi eravate già ribelli contro le ingiustizie di questa
società corrotta, voi avete avuto la speranza e il desiderio di una
esistenza migliore, voi entrando qui eravate già degni di migliori
destini, perché era in voi la coscienza dei vostri diritti. Voi entrando
qui eravate già anarchici per sentimento. Voi nelle giornate lunghe,
eterne nel lavoro senza tregua e senza riposo, tra i geli dell’inverno,
e sotto la sferza del sole di estate, o seduti innanzi alla vostra
tavola, dove è scarso il pane, e attorno alla quale i figli mal vestiti
tremano dal freddo, avete forse avuto come in un sogno la visione di una
grande, di una immensa famiglia, composta di tutta la umanità vivente
fraternamente in un comune e reciproco amore, in una santa concordia;
tutti eguali nei diritti e nei doveri, tutti lavoratori attivi e
fecondi, a cui la fatica non fosse come ora insopportabile e dura,
allietati di un conforto, di un sano e largo nutrimento, di un riposo
ristoratore, di una qualche ricreazione dello spirito. Voi forse l’avete
sognata ed avete un desiderio ed una speranza che questo sogno diventi
realtà.
E voi avete nel vostro cuore il patto solenne e il giuramento che
combatterete uniti per il conseguimento di questa grande felicità di
tutti gli uomini.
Ma se voi tutte queste cose avete pensato entrando qui dentro, eravate
già anarchici nel cuore e nel desiderio. Se voi avete fermo nella mente
il proposito che lo stato attuale delle cose abbia in un modo o
nell’altro termine; ed il vostro ideale possa essere compiuto quanto più
presto possibile; e se anche avete compreso le poche cose, che stasera
ho cercato alla meglio di esporvi, voi fin da questo momento cominciate
a far parte della grande famiglia anarchica che cospira a rivendicare i
diritti di tutti gli oppressi contro le prepotenze di tutti gli
oppressori. - Ma se voi desiderate conoscere come questa grande famiglia
anarchica vive, e come pensa di raggiungere il suo ideale, e qual debba
essere la sua missione nelle nuovissime battaglie del pensiero moderno,
io vi dirò brevemente.
Se a tutte le angustie del presente sistema economico-sociale voi vi
sentite e vi dichiarate ribelli, voi siete anarchici, perché avete la
coscienza dei vostri diritti di uomini. Voi siete anarchici perché
volete distruggere questa putredine dell’oggi per edificare la società
umana sotto una forma nuova e differente, sulle basi dell’amore, della
fratellanza e della solidarietà.
Ecco perché voi siete, e vi chiamate anarchici.
Il grande partito anarchico internazionale, è come una immensa famiglia
composta dei lavoratori e degli oppressi di tutto il mondo. Esso si
prepara ad una grande battaglia e questa sarà la più gloriosa, la più
giusta, la più santa battaglia dell’avvenire; la rivoluzione sociale, la
battaglia finale di tutti gli oppressi contro gli oppressori, di tutti
gli sfruttati contro tutti gli sfruttatori. La rivoluzione sociale sarà
la rivendicazione di tutti i diritti del popolo, sarà il gran giorno
dell’uguaglianza umana: la rivoluzione sociale spazzerà via come il
soffio potente di una immensa tempesta, tutti i privilegi e tutte le
ingiustizie del presente, tutte le barriere e tutti i confini tra popolo
e popolo. - L’aria sarà purificata da quella ultima lotta di tutto
l’avvenire contro tutto il passato.
Cadranno le mostruose e decrepite istituzioni del presente, e
l’organismo della grande famiglia umana rifiorirà spontaneamente,
secondo le leggi immutabili della natura.
(...)
Il lavoro è dunque il primo elemento della vita sociale, e attorno alla
gloriosa bandiera del lavoro l’umanità affratellata si stenderà
amorosamente la mano, allorquando sotto lo scroscio formidabile della
grande rivoluzione, sarà caduta la proprietà individuale, e sarà
subentrata a questa la proprietà comune.
Colla proprietà individuale cadranno tutti i privilegi di casta.
Avendo tutti gli uomini gli stessi diritti e gli stessi doveri nelle
relazioni reciproche, nessun lavoro sarà più disprezzato di un altro,
giacché tutti i lavori, anche quelli considerati ora come i più
abbietti, sono nobili, perché sono utili all’uomo, e tutti più o meno
necessari alla convivenza sociale. Il lavoro sarà diviso fra gli uomini
a seconda delle attitudini e della capacità e dell’ingegno di ciascuno;
nobile e rispettato del pari il lavoro intellettuale, non meno faticoso
di quello manuale, del medico, dell’ingegnere, del meccanico, come il
lavoro materiale dell’operaio e dell’artigiano. Ognuno darà l’opera sua
nella corporazione d’arte e di mestieri, a cui appartiene, a seconda
delle proprie forze; e le produzioni dei diversi generi di lavoro, i
raccolti della campagna, i prodotti dell’industria e dell’arte saranno
custoditi nelle varie località in depositi comuni, da cui ciascuno
prenderà quanto gli abbisogna per se e per la famiglia.
La formula del lavoro e del consumo si riassume nella massima: Da
ciascuno secondo le proprie forze, a ciascuno secondo i propri bisogni.
Il lavoro essendo allora divenuto un dovere per tutti, ed essendo
moltissimi più i lavoratori, la produzione di tutti i generi avrà un
grandissimo aumento; tanto da essere più che sufficiente ai bisogni di
tutti, e la divisione del lavoro tra un numero di persone assai maggiore
di quelle che attualmente devono produrre per tutti, risparmierà a
ciaschedun lavoratore parecchie ore di fatica.
Tutto quello che verrà accumulato nei magazzini e nei depositi della
comunità, prodotti della terra, tessuti, manifatture, commestibili ed
ogni oggetto infine necessario alla vita, essendo il frutto del lavoro
di tutti, dovrà appartenere a tutti indistintamente.
Pietro Gori
Lungo
la strada ferrata
di Angelo Toninelli
Sulla Piazza del Mare, nelle strade del porticciolo i capannelli si
stringevano intorno a chi aveva un ricordo da raccontare o riferiva, per
sentito dire, episodi della sua vita, già leggendari nella memoria: le
arringhe alla pretura di Piombino e di Portoferraio in difesa anche del
più povero dei diavoli, perché quando era nell’isola non rifiutava mai
il suo aiuto ad un amico, ad un compagno, o a uno sconosciuto; la sua
casa sempre aperta, la sua modestia, perché era un signore nei modi ma
semplice nel cuore; e le piazze affollate e vibranti al martellare del
suo discorso, la gioia, l’allegria, la speranza che irradiava intorno a
sé.
Alla stazione, e dalla stazione al porto, e per tutto il giorno fu un
continuo corteo di persone che volevano andare a Portoferraio, gruppi di
anarchici di tutta Italia, delegazioni delle Camere del lavoro di tante
città, con le bandiere strette in un nodo di lutto. Molti che non
riuscirono a trovare posto nell’ultimo vaporetto si consolarono,
sarebbero rimasti a salutarlo per l’ultima volta il giorno dopo, quando
Gori si sarebbe fermato a Piombino, per poi raggiungere sua madre nella
tomba di famiglia a Rosignano Marittimo.
E il giorno dopo i bastioni, piazza Bovio, il porto, le strade e le
piazze che guardavano l’isola erano gremite di folla, quando nelle prime
ore del pomeriggio la sagoma del piroscafo Giglio sbucò dalla foschia.
Il suono della sirena raggiunse Piombino che nereggiava di dolore e la
nave, scivolando al largo della Rocchetta, virò per entrare nel porto.
La folla seguì in silenzio le manovre di attracco. Si udivano solo lo
stridore metallico della catena dell’ancora, gli ordini del capitano e
il gridio acuto dei gabbiani che volteggiavano inquieti.
Si avvicinarono le barche per trasbordare i passeggeri: le mani protese
accolsero la bara che altre mani, quelle dei minatori dell’Elba,
porgevano dall’alto; su un’altra barca prese posto Bice, la sorella di
Pietro, e il piccolo corteo si mosse nello specchio d’acqua.
La banda ora suonava meste melodie. Dietro la bara, portata a spalle da
otto operai, si mosse poi il fiume di corone di fiori, tra due ali di
gente, mani che lanciavano un rosso garofano, mani che salutavano, mani
che avrebbero voluto toccare appena quel legno per imprimere meglio
nella memoria il ricordo. Volti di donne che potevano piangere senza
vergognarsi, mentre gli uomini si asciugavano frettolosamente gli occhi.
Il corteo entrò in città dalla Porta a mare, la attraversò e sfociò in
piazza Bovio.
Pasella, a nome della Camera del lavoro, pronunciò un breve discorso,
poi il sindaco, infine parlò Carlo, con il volto disfatto e la voce che
gli tremava.
“Noi che gli siamo amici”, disse, “e che abbiamo vissuto insieme a lui
tante ore della nostra vita, e voi che ormai lo consideravate un vostro
paesano, costretto ad allontanarsi spesso, ma legato profondamente alla
nostra terra che ogni anno lo vedeva ritornare, e che lo ha accolto in
questi ultimi giorni dolorosi, noi e voi non abbiamo bisogno di tante
parole per dire chi è Pietro Gori, per ricordarci di lui. Ma alcune cose
bisogna pur rammentarle, perché gli altri sappiano, perché almeno di
fronte alla morte la menzogna ceda alla verità.
Hanno sempre diffamato gli anarchici, li hanno detti violenti e
assassini. Chi è stato più mite di Pietro, chi più di lui ha rifuggito
la violenza, chi più di lui l’ha subita! Ai dotti che parlano di
criminalità, di degenerazione della razza, e ai servi ottusi che
pretendono di rappresentare la giustizia, Gori in tante opere ha sempre
detto: cercate nella triste realtà sociale le cause che inducono al
delitto, cercate nella miseria, nell’ignoranza in cui le moltitudini
sono costrette a vivere le radici della violenza e della delinquenza,
non limitatevi a giudicare con le fredde leggi, esse sì criminali. Non
tappatevi gli occhi per non vedere. L’uomo nella sua natura è buono. E’
la società, questa società corrotta di egoismi e di rapine, di soprusi e
di ingiustizie lo spinge all’odio e gli mette in mano l’arma fratricida.
Non sono le nostre idee, la nostra parola di anarchici a farlo divenire
assassino, perché noi diciamo: cambiamo questa società, creiamone una
nuova, giusta, umana, libera, e l’uomo seguendo la sua natura vivrà in
pace. Questa era l’anarchia che Pietro sognava e predicava e per la
quale tanto è stato perseguitato e tanto ha sofferto.
Dicono che gli anarchici ripudiano la famiglia, che nel loro cuore di
malfattori non albergano affetti profondi. Chi più di Pietro ha amato la
madre, la sorella, lui che non aveva che questo unico tormento, questo
solo rimorso, di aver dato alla madre più dolori che gioie, lui che ha
lasciato, in poesie tenere e dolci, la più delicata testimonianza di
amore filiale e fraterno.
Dicono che gli anarchici sono egoisti, pericolosi per la vita civile,
che rinnegano la patria. Chi come Pietro ha donato tutto se stesso, i
suoi beni, la sua vita, i suoi affetti, la sua mente per l’amore degli
altri, per l’umanità intera. Si, è vero che gli anarchici non hanno
patria perché il mondo intero è la nostra patria, perché tutti gli
uomini sono nostri fratelli. E Pietro è stato americano con gli
americani, inglese con gli inglesi, francese con i francesi. Non aveva
patria perché aveva il mondo, ma dal lontano esilio guardava anelante
alla terra in cui era nato, dove la famiglia e gli amici lo aspettavano
con affetto, devozione, ammirazione, riconoscenza.
Uomo mite, ma forte, semplice e umile con gli umili e i semplici, ma
fiero e orgoglioso combattente, tenace, mai ha piegato la testa di
fronte all’ingiustizia, mai ha dubitato, in un attimo di debolezza o di
sconforto, nella sua fede nell’uomo e nella libertà.
Per lui anarchia non ha mai significato sterile individualismo, ma
collaborazione tra uguali. Per tutti noi è stato un maestro di vita,
oltre che amico e fratello, un esempio di coerenza e di sacrificio.
Addio, Pietro. Senza di te saremo più smarriti, senza la tua guida
faremo più fatica ad andare avanti, ma il tuo ricordo e il tuo pensiero
ci aiuteranno, come quando in vita ci aiutavi con la tua parola, il tuo
sorriso.”
Accanto a Gigi, a pochi metri dalla bara ricoperta di bandiere e di
fiori, Vera piangeva sommessamente, e quando, avviandosi tutti verso la
stazione dove un carro merci era già pronto per portarlo al paese di sua
madre, risuonarono le note di Addio Lugano, la sua voce si unì al canto
di tutta la piazza: “... gli anarchici van via, e partono cantando con
la speranza in cor...”. “Addio Gori, ti ho voluto bene”, disse un
vecchio avvicinandosi a salutare l’amico.
Il treno si mise in movimento alle quindici e trenta.
Lungo la strada ferrata, davanti ai passaggi a livello, tra i solchi dei
campi, sul limitare delle case, la gente lo vide passare, gli uomini si
tolsero il cappello, le donne si fecero il segno della croce. A
Campiglia, a Follonica, a San Vincenzo, a Bolgheri, a Cecina, in tutte
le stazioni dove sostò, lo attendeva da ore una moltitudine giunta dalle
campagne e dai paesi vicini. il tetto dell’ultimo vagone dove viaggiava
Gori si ricopriva ogni volta di garofani e di crisantemi, che cadendo
mano a mano che il treno si allontanava lasciavano lungo i binari una
scia rossa come di sangue. Alle prime ombre azzurre della sera ecco
l’ultima tappa, Castiglioncello, e qui un’altra folla immensa, dopo le
parole accorate del sindaco, si avviò lungo i sette chilometri di strada
che, tra colline verdi di ulivi e di pini, si inerpicava tortuosa verso
Rosignano. Nell’aria andavano le parole dell’inno del Primo maggio:
“Date fiori ai ribelli caduti/ collo sguardo rivolto all’aurora/ al
gagliardo che lotta e lavora/ al veggente poeta che muor...”.
Rosignano, sulla collina in faccia al mare, con le bianche case e il
castello rossiccio, si stagliava contro un cielo livido nell’ultima luce
del giorno. Il mattino dopo, appena fuori del paese, al di là del
cancello di ferro del piccolo camposanto, nella cappella di famiglia lo
attendeva la madre, morta nel novembre del 1903.
Chi in quei giorni non ebbe un moto di commozione invidiò in cuor suo
l’affetto e l’amore che stringevano tanta gente intorno a quella bara e
si sentì alla fine meschino nella sua diversità. Lo stato, che lo aveva
perseguitato in vita come il peggiore dei malfattori, non sentì il
pudore di ritirarsi in disparte, di rispettare il dolore, di chiudere il
suo occhio indagatore e allontanare la sua mano armata. Il paese e le
strade intorno furono vigilati da centinaia di gendarmi in tenuta di
guerra. “Siete stati crudelmente cinici nella morte come foste
persecutori spietati in vita”, protestò Bice Gori in una lettera aperta
al capo del governo Luzzatti.
Angelo Toninelli |