"Anni affollati": La nuova attesa di Giorgio Gaber.
La scena, spoglia, a luci smorzate e
come pensose, con quell'unica sedia in centro a sottolineare il vuoto
circostante, si apre sull'assenza, su di un distacco: che è
distacco e congedo dal decennio passato, da questi "anni affollati",
troppo pieni di cose di idee, al punto di avere perduto completamente
di vista, a forza dì voler parlare di tutto, proprio
l'essenziale: "anni affollati di gente che ha pensato a tutto senza mai
pensare a un Dio / di troppe cose non so che farne / per me
che avrei bisogno dì poche immagini ma eterne" dice la canzone d'apertura che dà il titolo allo spettacolo.
L'assenza è quanto ci lasciano di sé quegli anni: assenza
di temi ormai risolti o semplicemente sorpassati dagli anni "che
sbiadiscono ogni cosa", di convinzioni e perfino certezze impostesi e
venute meno così in fretta da neanche fare in tempo ad
invecchiare. L'assenza è così anche differenza: rispetto
ad una cultura che privilegiava la sistematicità e la soffocante
unitarietà del discorso ideologico-filosofico prende ora il
sopravvento un 'sottofondo culturale' che nella letteratura, nel
discorrere che le è proprio "di poche immagini ma eterne" trova
un modo più agile e sciolto, eppure sotto le apparenze
più 'vero' e profondo di quello saggistico (gli "alambicchi
della ragione" di "lo se fossi Dio", nel secondo tempo dello
spettacolo) per presentire, percepire e anticipare la nuova
realtà nascente: "No, non muovetevi / c'è un'aria
stranamente tesa / e un gran bisogno di silenzio / siamo come in attesa
/ no, non parlatemi / bisognerebbe ritrovare le giuste solitudini /
stare in silenzio ad ascoltare. (...) Non disturbatemi / sono attirato
da un brusio / che non riesco a penetrare / che non è ancora
mio." (1)
Sottratte così alla falsa istanza dell'organicità, le
dieci 'canzoni' e i sei monologhi che compongono "Anni affollati" sono
legate tra loro più che da fili logici e di 'contenuto', da una
precisa e rigorosa progressione emozionale, da un crescendo e
diversificarsi di sentimenti e sensazioni.
Dall'elegia nostalgica e affettuosamente ironica della prima
canzone che saluta – con qualche rimpianto e col molto distacco
di chi sa che deve andare avanti – gli anni settanta, si percorre
la sistematica riscoperta della forza, dell'interezza, e della potenza
anche fisica (2) dei sentimenti. Abbiamo quindi "Gildo", intensa e
delicatissima descrizione del ritrovamento – tra le corsie e le
umiliazioni d'ospedale – del più fisico dei sentimenti,
quello della solidarietà. Ancora nella canzone " L'illogica
allegria" c'è tutto l'improvviso stupore di sentirsi bene, d'un
tratto, visceralmente (di nuovo, per la fisicità dei sentimenti):
"è come se improvvisamente / mi fossi preso il diritto di vivere
il presente / e sto bene..."; mentre nel monologo "L'anarchico" (3)
vediamo il fallimento
di chi, timoroso di finire vittima dei sentimenti 'di tutti', se ne
ritrae sistematicamente creandosi il mito effimero della propria
superiore cattiveria e amoralità: "Ih, ih, ih! anarchico a me!?
Sono un demonio io, altro che anarchico. (...) Gli anarchici amano
l'umanità. Sono una merda io, altro che anarchico."
Nelle successive canzoni "Il sosia" e più ancora nella stupenda
"Il dilemma" le tinte si fanno più scure, entrano in campo i
discorsi della solitudine e della morte – due temi cari e
fondamentali per tutto Gaber a partire da "Il signor G"; discorsi che
lui subito riprende e porta alla massima tensione e profondità
drammatica nel monologo "Il porcellino", il cui grido finale e
ripetuto: "lo sono solo" fa quasi tutt'uno col pezzo più noto,
vero clou di tutto il lavoro: "lo se fossi Dio".
Nei quasi quindici violentissimi (nelle parole come nella musica,
ossessiva – ma non stancante – e dal volume volutamente
eccessivo) minuti d invettive e di verità urlate che formano
questo "personalissimo giudizio universale", non solo il ritmo dei
sentimenti cresce rapidamente su sé stesso, sino all'orgasmo
della coraggiosa invettiva contro Aldo Moro e alla successiva catarsi
nell'ultima strofa, ma più ancora la sfera appena scoperta e
ancora tutta da scoprire dei sentimenti 'nudi' mette alla luce e
alla prova la propria funzione e ragion d'essere: che non è
affatto intimistica e speculativamente fine a sé, ma è di
quasi-scientifica presa sul mondo, operativa. "lo se fossi Dio" segna
così la maturata capacità dei sentimenti di farsi
rinnovata possibilità di parlare del mondo e del presente, e di
intervenirvi; e colpa delle Brigate Rosse è quella di averci
tolto "il gusto di essere incazzato personalmente"; ancora, è
attraverso il sentimento, la sua forza sia fisica
che intellettuale e morale, che si può recuperare
l'interezza dell'io, persa nei meandri dell'"io diviso", di una cultura
saggistico-politica che non aiutava certo a riambientarsi con sé
stessi.
Ma, venuta meno l'assoluta certezza di questa cultura e della comunanza
d'idee che essa sottintendeva (per cui 'tutti pensavamo le stesse
cose') non resta che la solitudine, quella necessità di cercare
dentro di noi le nuove realtà che stanno emergendo, che Gaber
canta nei versi già citati della canzone di chiusura,
"L'attesa". Venuta meno la sicurezza esteriore ed effimera delle idee,
delle convinzioni tratte dai libri, rimane, sola e potentissima,
la fede: che è la nuova parola polemica di Gaber e del suo
collaboratore Sandro Luporini di contro e per sottrarsi a quanto resta
di quella cultura che, essendo ormai sempre più consapevole
della propria inadeguatezza ed inutilità ("Quelli come me che
hanno creduto troppo a Francoforte") senza volersi o sapersi rinnovare,
non può che finire nell'agnosticismo (che è ben diversa
cosa dell'ateismo) facile, cinico e stupido, nell' ironia chiusa in
sé, che non dà e non spiega niente, nella
mediocrità di una miscredenza da 'indifferenti', e finalmente,
nella dilagante moda dell'effimero. La canzone-manifesto di questa
nuova poetica è "1981": "E' vero, si perde un po' di pudore a
riparlare di morale / però mi fa un po' schifo saltellare dal
fanatismo più feroce / all'abbandono più totale. (...)
Confronto a questi ironici infedeli (...) allo snobismo dei guardoni
distaccati e intelligenti / è molto meglio persino la retorica
dei vecchi sentimenti".
È allora evidente che l'infedeltà combattuta non è
quella verso dèi o idee, ma quella verso noi stessi, verso il
bisogno di essere "lo se fossi Dio" che è in ognuno di noi:
"Perché Dio c'è ancora (...) altrimenti non esisto. (...)
È un Dio inconsueto che non ha niente di assoluto (...) è
un Dio inventato senza altari né vangeli / ma è la mia
unica spinta in questo mondo di infedeli. (...) è un Dio
ancestrale che è l'essenza del pensiero / la forza naturale che
mi spinge verso il vero": non è più - o non è
affatto - un'ideologia, con il correlato di derivante militanza,
a farci capire il mondo, né ciò può avvenire come
acquisizione collettiva, impersonale: "Bastonerei la militanza
come la misticanza"; e a proposito di militanza è da notare come
anche qui Gaber e Luporini non si contentino di facili termini di moda
come 'riflusso' ma, scavando in profondità, giungano precisi al
nocciolo autentico della questione – lì dove non si
può più accampare scuse esteriori: non si tratta
semplicemente di 'fare l'impegnato' in una situazione di oggettiva
impossibilità in cui "ti sfugge la mano e si invischia ogni
gesto che fai", (4) bensì si tratta di essere impegnati con
tutto il proprio essere, nel profondo della propria interiorità,
lì dove non ci sono più testi-guida, e la guida bisogna
trovarla da soli. E'allora che si può 'riuscire' anche nel
fallimento,per la coppia di suicidi del "Dilemma": "Forse il ricordo di
quel Maggio gli insegnò fallire / il senso del rigore e il culto
del coraggio".
Così il 'teatro d'intervento' di Giorgio Gaber, dopo aver
attraversato i miti e le mode culturali del nostro tempo e averne fatto
un bilancio né disonestamente consolatorio né
facilmente dissacratorio, si dà ancora una volta come
anticipazione, chiave per interpretare "il segno di qualcosa che stiamo
per capire" (5); ciò di cui abbiamo ora bisogno è un po'
di silenzio, molta concentrazione, e la pazienza di una 'nuova attesa'.
NOTE
1) In "L'attesa", ultimo 'pezzo' di "Anni affollati".
2) Sulla "fisicità" del teatro di Gaber e Luporini cfr. l'ottimo studio
di Michele Serra: "Giorgio Gaber: La canzone a teatro", Milano, ed. il
Saggiatore, 1982.
3) Per il quale, in aggiunta agli autori esplicitamente indicati da
Gaber e Luporini, aggiungeremmo quantomeno il Sartre del racconto
"Erostrato".
4) Dalla canzone "I reduci" compresa nel precedente Recital "Libertà
obbligatoria" (1975) di Gaber-Luporini.
5) Da "Il dilemma".
Francesco De Ficchy