Stato, l'etnocidio necessario
a cura di Piero Flecchia

Tra la caduta di Barcellona e il maggio francese è il lungo inverno dell'anarchia: quando sembrò farsi vera l'affermazione arrogante di Trotskij: "Voi siete cani spenti! Gente il cui tempo è tramontato". Soprattutto colpiva una sorta di sterilità culturale, una incapacità del pensiero anarchico di uscire fuori dal ghetto dove si perpetuava in una sorta di minorità ed esilio. Il maggio francese mette improvvisamente in movimento, con dei fatti che ancora fermentano nel corpo della società europea, un nuovo tipo di pensiero che, là dove cerca delle affinità recenti, sempre più spesso guarda, oltre gli anatemi e le maledizioni marxiste e borghesi, all'anarchia. Ed ecco che pensatori prima del e nel marginale anarchico, improvvisamente ritornano alla ribalta. Clamoroso è il caso di Malatesta, la cui opera riprende a circolare in tutto il mondo.
Ma questa autentica rinascita anarchica resterebbe ben poca cosa se si limitasse a una rilettura e, magari, reinterpretazione dei fatti che accadono alla luce di testi scritti tra fine ottocento e primi novecento. Il "Rinascimento anarchico" si individua con due nomi che da due continenti stabiliscono due fermi, e forti caposaldi nelle scienze umane di maggiore importanza oggi: Noam Chomsky nel linguaggio e Pierre Clastres in antropologia.
Pensatori grandissimi, pensatori decisivi per il prodursi di una nuova cultura libertaria: una cultura dichiaratamente anarchica che non solo si misura con i temi del pensiero marxista e borghese, ma tale pensiero confuta e precede.
Per restare nel clima post-sessantottesco, anche i marxisti dovevano, almeno a parole, dismettere le tecniche di conquista dello stato per occuparsi di tecniche di abolizione dello stato. Di qui la tentazione di un titolo come "La società contro lo stato", il primo libro di Pierre Clastres tradotto in italiano. Ma la ricerca di Clastres conosceva anche altre radicali e motivate scelte culturali, portate avanti da una serrata e severa analisi socioculturale, spesso tra polemiche e con una caustica ironia, da un linguaggio cartesianamente chiaro. Questo Clastres che certamente ha dato uno tra i più grandi contributi teorici all'anarchia di oggi, è raccolto nella antologia postuma "Archeologia della violenza e altri scritti di antropologia politica". È una organica riflessione sul nesso violenza potere politico strutture religiose e rapporti tra i sessi nelle società primitive. Ma una riflessione sempre condotta avendo ben presente l'oggi. Tra il ieri "selvaggio" e l'oggi dell'"acculturazione dell'incivilito" Clastres stabilisce nessi e distinzioni, sempre facendo centro su quella che egli definisce "La questione principe": attraverso quali processi la stratificazione sociale si introduce in società che non la conoscono. Detto altrimenti: quali le origini del dominio.
Splendida antologia che raccoglie una serie di saggi in sé conclusi, tutti centrati sulla categoria del "politico", il libro culmina con il formidabile studio sul ruolo della guerra nelle culture selvagge: due capitoli postumi di un libro che Clastres stava scrivendo, preziosa traccia sulla quale riflettere e con la quale misurarsi, soprattutto per non cadere oggi ancora una volta vittime dei mercanti della pace: che sempre precedono, nel tragico girotondo del dominio, i mercanti della guerra. Questa gente che commercia con i massacri lontani per i vicini scanni montecitoriferi. Ecco perché, potendo scegliere un capitolo del libro, abbiamo optato per la decisiva analisi dell'etnocidio: in linea teorica più nulla di nuovo si potrà forse aggiungere. Se non sarà certo questo saggio di Clastres a por fine agli etnocidi lontani, facciamo almeno in modo, a procedere da esso, che i profittatori a noi vicini finiscano, almeno loro, di lucrare i profitti qui di un etnocidio accaduto altrove. Ma soprattutto, leggendo Clastres, si possono trovare i fondamentali per por fine a quell'etnocidio della cultura anarchica che per oltre mezzo secolo, tra fascismo e restaurazione democristiana, i vari bigottismi italici hanno selvaggiamente portato avanti. Ecco perché, anche certe forzature del traduttore Piero Flecchia, certe "trasposizioni" di nomi francesi con confratelli italiani, ci sembrano nella linea del testo: una sorta di fedeltà allo spirito di Pierre Clastres.

Etnocidio: il vocabolo solo pochi anni or sono non esisteva. Oggi, per il favore capriccioso della moda, ma molto anche per un una obiettiva attitudine del termine a rispondere a una esigenza di precisione terminologica, etnocidio è parola rapidamente dilagata, uscendo dall'ambito dove fu tenuta a battesimo: l'etnologia, per entrare nell'uso comune. Ma la repentina diffusione di un vocabolo garantisce l'idea che ha la funzione di veicolare, nel rigore e coerenza auspicabili? Non necessariamente la comprensione si avvantaggia con la verbosità; tutti abbiamo perfettamente chiaro il referente del vocabolo etnocidio. Nelle intenzioni di chi l'ha coniata, la parola doveva esprimere una realtà finora mai chiaramente individuata. Se si è sentita la necessità di questo nuovo vocabolo, un pensiero nuovo urgeva, o meglio, un qualche cosa di antico, e finora irrilevato, si faceva pensiero. Un vocabolo che fino a ora aveva, nel giudizio degli uomini, adeguatamente rappresentato e significato il fenomeno: il vocabolo genocidio, sembrava ormai inadeguato al compito. Non si può quindi tentare una seria riflessione sul termine etnocidio, senza tentare prima di capire in che cosa si distingue il fenomeno così designato dalla realtà che il vocabolo del genocidio designa.
Prodotto del processo di Norimberga ai criminali nazisti, il concetto giuridico di genocidio è la registrazione, entro la norma giuridica, di un tipo di crimine fino ad allora irrilevato. Più precisamente, rimanda alla prima manifestazione giuridicamente registrata di questo crimine: lo sterminio sistematico degli ebrei in Europa, ad opera dei nazisti. Il delitto giuridicamente definito "di genocidio" origina dal razzismo, ne è il logico, e necessario prodotto. Là dove il razzismo si sviluppa liberamente, come appunto nella Germania nazista, si deve finire nel genocidio. Le guerre coloniali che, dopo il 1945 hanno sconvolto il terzo mondo, e che ancora durano, hanno spesso sollevato, contro le potenze coloniali, l'accusa di genocidio, ma problemi di politica internazionale, e la relativa indifferenza dell'opinione pubblica, hanno impedito una azione giuridica come quella di Norimberga.
Se il genocidio nazista è stato il primo ad essere giudicato, non è però stato il primo genocidio perpetrato. La storia dell'espansione coloniale occidentale nel XIX secolo - che ha portato alla creazione di grandi imperi coloniali da parte dei maggiori e più potenti stati nazionali europei -, è innanzitutto una catena di sistematici massacri di popolazioni aborigene. Per le dimensioni continentali, per la drammaticità e vastità della caduta demografica, il più evidente è però il genocidio delle popolazioni amerinde. Dal 1492, anno del loro arrivo in America, i bianchi mettono in essere una autentica macchina di distruzione degli aborigeni, che continua ancora oggi a funzionare là dove ancora sopravvivono, come nelle grandi foreste amazzoniche, tribù selvagge. Anche negli ultimi anni sono stati documentatamente denunciati massacri di indios in Brasile, Colombia, Paraguay: sempre invano. Proprio dalle loro esperienze americane gli etnologi - soprattutto Robert Jaulin - sono stati indotti a formulare il concetto di etnocidio: il referente di questa idea sono gli indios del sud America. Abbiamo dunque a disposizione un terreno tristemente privilegiato per una ricerca circa la differenza tra genocidio ed etnocidio, poiché le ultime popolazioni libere del continente sono simultaneamente vittime di entrambi i crimini. Se il termine genocidio rimanda all'idea di razza, e alla volontà di sterminare una minoranza razziale, l'etnocidio si propone non la distruzione fisica degli individui (nel qual caso ricadremmo nel genocidio) ma l'annientamento della loro cultura. L'etnocidio è la distruzione sistematica dei modi di vita e di pensiero di un popolo da parte di un altro popolo. Mentre il genocida uccide fisicamente, l'etnocida uccide lo spirito. In entrambi i casi è la morte, ma una morte differente: la soppressione fisica immediata è altra cosa rispetto alla oppressione culturale; che ha effetto solo sui tempi lunghi e in modo diverso, a seconda delle congiunture e capacità di resistenza degli oppressi. Non si tratta qui di scegliere il minore tra due mali: è fin troppo evidente che in ogni caso è sempre da preferire la minore barbarie. Ciò premesso, qui si cerca il vero significato del concetto di etnocidio, sul quale poi indagare.
Identica la visione del diverso nel genocidio e nell'etnocidio: il diverso è la differenza, ma innanzitutto la cattiva differenza; però seguono vie e visioni divergenti, circa la terapia della "cattiva differenza". La volontà genocidiaria aspira puramente e semplicemente all'annientamento della differenza. Si stermina gli altri perché sono irrimediabilmente malvagi. La volontà etnocida ammette invece una relatività nel male della cattiva differenza: gli altri sono malvagi, ma possono essere riscattati, obbligandoli a trasformarsi, fino a renderli, se possibili, identici a un modello che loro si propone, e infine si impone brutalmente. La negazione etnocida del diverso conduce a una assimilazione dell'altro a sé, in una necessità di totale identificazione, volgendo il due in uno. Si potrebbe contrapporre genocidio ed etnocidio considerandoli rispettivamente come forme degenerate di pessimismo ed ottimismo. In sud America gli uccisori di indios spingono ai termini estremi la posizione della differenza, facendo dell'altro un assoluto estraneo: l'indios selvaggio non è un essere umano, è solo e soltanto un animale, per cui l'omicidio di un indios non è più un atto criminale. Qui si giunge ad annullare lo stesso razzismo, perché esso implica ancora il riconoscimento di una comune natura umana con il perseguitato. Non siamo che alla ripetizione di una antica e monotona affermazione, le cui origini Lévi-Strauss ci rammenta in Race et Histoire: i popoli caraibi si domandavano se gli spagnoli, nuovi giunti, erano dei o uomini, mentre i bianchi si interrogavano circa la natura umana o nudamente bestiale degli indigeni.
Chi pratica l'etnocidio? Chi aggredisce l'anima dei popoli? Etnocidari di prima classe, nell'America del sud, ma anche in altri continenti, si segnalano innanzitutto i missionari. Propagandisti militanti della fede cristiana, il loro scopo unico ed esclusivo è di sostituire alle credenze pagane la religione del monoteismo evangelico. La posizione evangelica comporta due certezze:
a) la differenza: il paganesimo è inaccettabile e deve essere respinta;
b) la cattiva differenza può essere sovrastata e infine cancellata.
Per questa seconda convinzione ogni cultura etnocidante inclina all'ottimismo: riconosce, come il cristianesimo, al diverso, i mezzi per elevarsi, attraverso un processo di identificazione, fino alla propria assoluta perfezione gaudiosa. Distruggere la forza delle convinzioni pagane, è distruggere la sostanza stessa della socialità tribale. Ma appunto questo è il risultato scientemente cercato dai missionari: sola via per condurre l'indios alla vera fede, è farlo passare dalla sua cultura selvaggia, al qualitativo dei rapporti che vigono tra occidentali. Il preteso discorso laico è solo una ripetizione e continuazione del messaggio cristiano: non aggiunge assolutamente nulla di nuovo. Un esempio è la dottrina ufficiale del governo brasiliano circa la politica filo-aborigena: "I nostri indios, proclamano i responsabili, sono esseri umani come tutti gli altri, ma la vita nelle foreste li condanna alla miseria e alla sventura. È nostro dovere aiutarli a superare questa triste condizione. È loro assoluto diritto elevarsi alla dignità di cittadini brasiliani, potendo così partecipare a pieno titolo allo sviluppo della società nazionale, godendone tutti i benefici". La spiritualità dell'etnocidio? Ma è l'etica dell'umanitarismo!
L'orizzonte sul quale si determina e lo spirito, e la pratica dell'etnocidio è individuato dai seguenti due assiomi:
1) la gerarchia delle culture: ce n'è di inferiori e superiori;
2) però una e una soltanto è al sommo: la nostra!
per cui è evidente che la nostra cultura: bianca occidentale, potrà avere con le altre culture, e segnatamente quelle selvagge, solo un rapporto di tipo negativo. Però si tratta di una negazione positiva, perché qui si vuol sopprimere l'inferiore solo in quel che ha di inferiore, per elevarlo. Si sopprime l'indianità dell'indios per farne un cittadino brasiliano. Nella logica convinta degli agenti dell'etnocidio, l'etnocidio non è mai vissuto come un puro atto distruttivo: questa sua realtà è sempre occultata alle loro coscienze, dove invece è vissuto come un momento necessario, che l'umanitarismo: cuore della tradizione culturale e occidentale, assolutamente impone.
Definiremo etnocentrismo la vocazione a riferire tutte le differenze all'unità della propria cultura. L'occidente è etnocida perché etnocentrista: si pensa e si vuole la civiltà. Così formulato, il problema suscita immediatamente una domanda: la nostra cultura è la sola etnocentrista? Prendiamo in esame il nome che ogni società primitiva si autoattribuisce: come si autodenomina; e si scopre che ovunque, ogni cultura primitiva attribuisce a sé un solo identico nome: gli Uomini. Alcuni esempi dal campo della mia esperienza personale: i Guaiaki dicono di se stessi che sono Ascé: le Persone, i Waika del Venezuela si proclamano Yanomami: le genti, gli eskimesi sono Innuit, Uomini nella loro lingua.... Oppostamente, è regola generale che ogni società designi le popolazioni finitime con termini sistematicamente ingiuriosi peggiorativi spregiativi. Ogni cultura divide l'umanità in due. Da una parte i sodali: che si autopresuppongono il paradigma per eccellenza dell'umano; circa l'altra parte, essa partecipa solo subordinatamente e mediocremente al consorzio degli umani. La riflessione su se stessa di ogni società selvaggia; riflessione che ci è raccontata dal modo di autodenominarsi, ci rappresenta ogni società selvaggia come culturalmente etnocentrista in quanto afferma la superiorità della propria cultura, rifiutando pari status a tutte le altre: ritenute sideralmente inferiori. Ed ecco che l'etnocentrismo si rivela la cosa forse più imparzialmente e meglio distribuita tra gli uomini sulla terra; la cultura occidentale sembra ora in nulla distinguersi dalle altre. Dobbiamo però meglio svolgere la nostra analisi. In ragione dell'universale diffusione, dobbiamo pensare l'etnocentrismo come una proprietà formale di ogni cultura; immanente nell'evento cultura. Tutte le culture si considerano: la cultura per eccellenza; perché l'etnocentrismo è l'essenza stessa della cultura. Detto altrimenti: le culture di altrove, le altre culture, non sono mai apprese come differenza positiva, ma, lungo un asse che articola una struttura gerarchica, come inferiorità.
Se tutte le culture sono etnocentriste, resta però il fatto che solo la nostra occidentale è etnocida, per cui ne consegue che non necessariamente la pratica dell'etnocidio procede dalle convinzioni etnocentriste, altrimenti tutte le culture dovrebbero praticare l'etnocidio: e così non accade. Proprio davanti a questo problema mi sembra esista un vuoto speculativo, tra quanti si sono occupati, e anche correttamente, del problema dell'etnocidio. Riconoscere e denunciare la funzione etnocida della cultura occidentale non è sufficiente. Se si limita a definire il mondo dell'uomo bianco come mondo dell'etnocidio, si rimane all'esterno del problema, ripetendo (legittima ripetizione certamente), quanto denunciato con grande acume e forza morale già infinite altre volte, da persone egrege, quali il vescovo Bartolomeo de Las Casas che, agli albori del XVI secolo gridò forte e chiaro, in termini esatti ed implacabili, il genocidio e l'etnocidio spagnoli in Messico e nelle isole dei Caraibi. Leggendo gli studi sull'etnocidio ho avuto l'impressione che gli autori ritenessero la civiltà occidentale una sorta di astrazione, senza radici socio-storiche, una vaga entità che, da tempi immemorabili, portava in sé una inclinazione spirituale per l'etnocidio. Invece la nostra cultura non è per nulla una astrazione: è il risultato, a poco a poco costruito e faticosamente, di una vicenda, che può essere svelata da una attenta ricerca genealogica. Che cosa fa della civiltà occidentale una civiltà etnocida? Ecco il problema! L'analisi dell'etnocidio esige, oltre la denuncia dei fatti, una ricerca sul "come" si è determinato: attraverso quali vicende storiche, il nostro universo culturale. Dobbiamo quindi volgerci alle vicende accadute. Poiché non è una astrazione atemporale, la civiltà occidentale non è un blocco compatto, una realtà omogenea, sempre identica a se stessa e nel tempo e nello spazio: ma è purtroppo proprio tale falsa immagine che gli storici dell'etnocidio tendono a proiettare. Se l'occidente pratica l'etnocidio, così come il sole è fonte di calore e luce, una tale situazione finisce per rendere non solo inutile, ma perfin assurda la denuncia del crimine, e i tentativi di salvare le vittime. Questi studiosi finiscono per denunciare l'etnocidio come una situazione allo stato diffusivo nell'occidente, noi invece oppostamente riteniamo si deva, almeno come ipotesi, domandarci se questa autentica vocazione all'etnocidio dell'occidente non corrisponda e non sia la prosecuzione di una sorta di orrore-errore all'interno della macchina culturale occidentale: che ha praticato innanzitutto nel proprio ambito, sul proprio corpo l'etnocidio. Su questa linea dobbiamo innanzitutto individuare gli elementi che distinguono la nostra cultura da quelle primitive o selvagge, perché è in questo ambito: della differenza, che dobbiamo cercare il meccanismo criminale. Il primo e decisivo criterio di classificazione per differenza tra società selvagge e società storiche è lo Stato.
Società selvagge = società senza stato - Società storiche = società dello stato.
Ecco i termini sui quali si deve centrare la speculazione. Possiamo legittimamente associare i concetti di stato ed etnocidio nell'ambito della società occidentale? E poi generalizzare facendo delle società stataliste società etnocide? Sarebbe così anche spiegato perché le società selvagge, società senza stato, o primitive, possono essere etnocentriste senza cadere nell'etnocidio.

lo stato, ovvero l'etnocidio

Soppressione delle differenze culturali giudicate negative, o malvage, l'etnocidio è azione di un principio di identificazione; progetto di riduzione dell'altro diverso a un a me simile: gli indios in Amazzonia sono soppressi in quanto tali e volti in buoni cittadini brasiliani. Il processo di etnocidio vuole la riduzione del molteplice diverso: la sua dissoluzione nell'uniforme seriale dell'unità sempre identica a se stessa. E che cos'è esattamente la nostra struttura statale se non la messa in azione di un meccanismo centripeto che, là dove se ne manifesta la necessità, non esita ad usare la più spietata violenza per reprimere tutte le istanze centrifughe? Lo stato si vuole e onestamente proclama: il centro della società; in una da sempre ribadita rappresentazione antropomorfa, cervello che controlla le varie parti del corpo sociale: il "tutto" dove le parti si ricapitolano; luogo delle decisioni ultime: alle quali tutti devono allinearsi. Se si spinge l'indagine nel cuore dello stato si scopre che la forza che lo muove e lo mantiene in azione è la logica dell'uomo assoluto: che procede contro l'orrore della differenza che il concetto di molteplice sta a significare. Svolgendo la riflessione entro le tecniche del pensare strutturale, noi scopriamo che la pratica dell'etnocidio e i processi di gestione della macchina statale funzionano allo stesso modo, e producono gli stessi effetti: sia che si consideri i risultati della "civiltà occidentale", sia che si consideri i risultati dell'azione della macchina statale, sempre ci si trova davanti a una volontà di riduzione progressiva, e finale cancellazione del molteplice, trasformando le diversità delle differenze in una identità, che si fa consustanziale necessità, pratica del gusto dell'identico: culto dell'Unità.
Dall'analisi formale passiamo a quella diacronica temporale, lungo il cui asse esaminiamo la cultura francese, come caso particolare della cultura occidentale, e a un tempo esemplificazione feconda dello spirito e destino dell'occidente. La Francia origina in una vicenda plurisecolare i cui confini coincidono meticolosamente con i processi espansionistici dello stato, agli esordi monarchico e poi repubblicano. A ogni ulteriore sviluppo della forza della macchina statale corrisponde una espansione della relativa cultura. La cultura francese è una cultura nazionale; è la cultura-culto del francese. La dilatazione dell'autorità dello stato francese si traduce automaticamente in un espansionismo anche linguistico. La nazione si può dire costituita, e lo stato si proclama detentore assoluto ed esclusivo del potere, solo là dove e quando la popolazione sulla quale si esercita la dominazione dello stato, parla solo e soltanto la lingua dello stato. Macroscopicamente, questo processo di integrazione passa per la soppressione di ogni possibile differenza. In questa necessità, coerentemente logica entro le strutture stataliste, rientra, dall'alba, la nazione francese: quando la Francia era meno della valle della Senna, e i suoi re pallidi signori del nord, i cui domini stavano tutti al di sopra della valle della Loira. La crociata contro gli albigesi, si abbattè sul sud cancellandone la differenza: religione, poesia, letteratura. Con il pretesto di condurre una crociata contro i catari tutto fu cancellato, e le popolazioni della Lingua d'Oc divennero sudditi del re di Francia. Con il trionfo dei giacobini sui girondini nel corso delle lotte politiche nate dalla rivoluzione del 1789: vittoria della tendenza centralista accentratrice su quella municipalista e federalista, il disegno dell'amministrazione statale di Parigi si perfeziona. Cancellate le regioni storiche, nate ed espressione di una realtà locale culturalmente omogenea, si introducono delle entità astratte: i dipartimenti, sorti proprio per frantumare e sopprimere quanto di differente sopravviveva, e così ovunque facilitare la penetrazione statalista. Così sprofonda la realtà antica del mondo rurale: la francesizzazione è infine conseguita. Ultima tappa di questo travaglio per cancellare le differenze la terza repubblica: essa trasforma irreversibilmente gli individui in cittadini con l'istruzione obbligatoria gratuita e il servizio militare di massa: l'etnocidio è consumato, ora finalmente si consente alle tradizioni locali di esistere, trasformate in elementi dell'industria dello spettacolo, ad uso e consumo del turista.
Anche da questo exscursus brevissimo risulta ad abundantiam che la soppressione, a seconda delle necessità più o meno violente, delle differenze, cioè l'etnocidio, rientra nel naturale funzionamento della macchina statale, la quale procede sistematicamente alla standardizzazione dei rapporti tra gli individui: lo Stato non riconosce che cittadini eguali davanti alla legge.
Ogni stato è il principio dell'etnocidio in azione. Questa affermazione vale anche per stati completamente diversi dagli stati europei? Prendiamone in esame uno: lo stato incaico. Gli Incas, sulle Ande erano riusciti a costruire una macchina amministrativa che suscitò la più profonda ammirazione degli spagnoli e per la continentale vastità del territorio e per la precisione nei dettagli tecnici amministrativi, per cui l'imperatore e le legioni di funzionari erano in grado di esercitare un controllo capillare e totale su tutti gli abitanti dell'impero. Svela la dimensione attivamente etnocida della macchina la sua propensione ad incaizare tutte le popolazioni conquistate: non solo costringendole a pagare tributi ai nuovi padroni, ma soprattutto imponendo di celebrare prioritariamente il culto dei conquistatori: il culto del sole, cioè il culto dell'Inca stesso, che del sole era la forma vivente. Pure qui ci troviamo davanti a una religione imposta con la forza dallo stato, se necessario a detrimento dei culti locali, anche se la pressione esercitata dagli apparati incaici in tale direzione non raggiungerà mai la follia maniacale, la violenza tremenda degli spagnoli e degli altri cristiani per sradicare l'idolatria. Abili diplomatici, gli incas sapevano, a tempo debito, l'opportunità dell'impiego della forza, reagendo con la più spietata brutalità, come ogni struttura statale là dove e quando il dominio è messo in discussione. Frequenti le rivolte contro l'autorità di Cuzco, tutte erano spietatamente represse, seguiva poi il castigo: deportazioni in massa dei vinti in territori lontanissimi da quelli di origine, perché ivi erano luoghi di culto come templi, grotte, sorgenti e fiumi sacri e quindi segnali di resistenza. Sradicamento, deterritorializzazione, etnocidio....
In quanto negazione della differenza, la violenza etnocida è l'essenza dello stato, tanto negli imperi barbarici che nelle incivilite culture occidentali: tutte le compagini statali sono etnocide, l'etnocidio è il normale modo d'essere dello Stato. Siamo dunque in presenza di una universalità dell'etnocidio, in quanto ben presente non solo nell'universo della cultura dei bianchi, ma forza attiva in tutte le culture che si reggono su una socialità statalista. La riflessione sull'etnocidio indica la necessità di una analisi dell'istituzione stato, ma nel contempo si può concludere che l'etnocidio è lo stato all'opera, e che uno stato vale l'altro? Non sarebbe ancora ricadere in quell'indifferenziato generico, in quell'errore di eccessiva astrazione e allontanamento dal caldo degli eventi, che abbiamo in precedenza rimproverato agli studiosi dell'etnocidio?
Se esiste, dove possiamo collocare la differenza che ci impedisce di allineare su uno stesso piano, facendo di tutto un mucchio, gli stati barbari: inca, faraoni, despotismo orientale... e gli stati inciviliti: mondo occidentale?
Colpisce innanzitutto la differente volontà di esercitare l'etnocidio, mentre la capacità può essere circa stimata pari. Negli stati barbarici si pratica l'etnocidio: abolizione della differenza, quando i popoli assoggettati si ribellano; tornati sottomessi, si concede loro la pratica delle tradizioni. E questa ci sembra più una prova di forza che di debolezza. Gli inca, per esempio, tolleravano una relativa autonomia locale, tra le comunità che riconoscevano l'autorità politico-religiosa dell'imperatore. Nulla di tutto questo in occidente. Qui la determinazione etnocida degli stati è senza limiti: sfrenata. Ecco perché può condurre al genocidio, e possiamo ritenere il mondo dell'occidente come la cultura che pratica il genocidio assoluto. Che cosa rende la cultura occidentale così totalitariamente genocida? È il suo sistema di produzione economico, spazio dell'illimitato, perché i suoi confini tendono sempre a spostarsi altrove: spazio quindi di una infinita e permanente fuga in avanti. Il tratto peculiare che fa diverso, individua e distingue l'occidente è il capitalismo: impossibilità di rimanere in un proprio in sé specifico, necessità di procedere sempre oltre. E accade nel capitalismo legato alla proprietà privata e alla libera iniziativa imprenditoriale; come nel capitalismo di stato dei paesi dell'area marxista: modelli di pianificazione statale. La società industriale: la più formidabile macchina di produzione, è però a un tempo anche la più pericolosa e terrificante macchina di distruzione. Razza società individuo, spazio natura mare foreste sottosuolo: tutto è sfruttato: tutto deve essere sfruttato, in un disegno di produttività spinta fino ai limiti estremi, alla intensità massima.

produrre o morire

Ecco spiegato perché non può essere data tregua a società che abbandonano il mondo alla sua tranquilla improduttività originaria; perché faceva scandalo che immani risorse giacessero non sfruttate. Il fatto era intollerabile agli occhi dell'occidente; che pose alle altre culture il seguente dilemma: o incamminarsi sulla strada della produttività o sparire. Detto altrimenti, o l'etnocidio o il genocidio. Alla fine dell'ottocento furono completamente sterminati gli indios della pampa Argentina per permettere l'allevamento estensivo di montoni e vacche: sui quali si fonda ancora oggi la ricchezza del capitalismo argentino. Agli inizi di questo secolo, centinaia di migliaia di indios dell'Amazzonia erano sterminati dai cercatori di caucciù. Oggi, in tutto il sud America gli ultimi popoli liberi soccombono sotto la immane spinta del crescente sviluppo economico, soprattutto brasiliano. Le autostrade transcontinentali sono dei veri assi di penetrazione coloniale: sventurato l'indios che incontra la strada asfaltata. Che cosa possono contare, quanto può pesare moralmente qualche migliaio di selvaggi improduttivi davanti a miraggi di oro, pietre preziose, piantagioni di caffè e allevamenti di bestiame, e pozzi petroliferi.... Produrre o morire, ecco l'aut aut occidentale. Lo impararono a loro spese gli indiani del nord America, sterminati quasi fino all'ultimo individuo perché così esigeva la produzione. Un loro persecutore, il generale Sherman ce lo racconta candidamente, nel passo di una lettera che scrisse al celebre asssassino Buffalo-Bill:
"A mio giudizio c'erano nel 1862 almeno 9.500.000 bisonti che si aggiravano nelle pianure tra il Missouri e le Montagne Rocciose. Uccisi per sfruttarne la pelle, le ossa, la carne, ormai sono tutti scomparsi.... Circa in quegli anni, negli stessi territori si aggiravano un 165.000 indiani, divisi tra le tribù Pawnees Sioux Cheyennes Kiowas Apaches, la cui alimentazione dipendeva dal bisonte. Anch'essi sono scomparsi; li ha sostituiti un numero almeno doppio, se non triplo di uomini e donne di razza bianca, che hanno fatto di questa terra un giardino: gente che può essere censita, tassata e governata secondo le leggi della natura e della civiltà. Cambiamento salutare, e che sarà condotto fino in fondo".
In R. Thévenin, P. Coze, Moeurs et Histoire des Indiens Peaux-Rouges, Payot, Paris 1952.
Aveva proprio ragione il buon generale. Il cambiamento andrà avanti: fino alla fine.

Pierre Clastres