Natura e
libertà
di Piero
Flecchia
La forma generale del potere è la coppia
dominatore/dominato. Nelle società attuali per quanto si delimiti il terreno
d'indagine, tale coppia si ritroverà sempre, esattamente come se si
sezionasse una barra magnetica: immediatamente noi ritroveremmo ai due
estremi i poli ricostituiti. Entro una compagine sociale possiamo procedere
per scomposizioni, fino a trovarci davanti a una singola individualità.
Ebbene, entro questa individualità noi vedremo ancora ripetersi una serie di
strutture bipolari: bene/male, sopra/sotto, ragione/fede ecc..... Non siamo
certamente più nel campo del sociale ma nella sfera di competenza della
psicologia, però anche qui ritroviamo una sorta di bipolarità strutturale
isoforma rispetto alla coppia sociologica dominatore/dominato. Da un
combinarsi di speculazione sociologica sulla vita animale, di psicologia e
zoologia, è recentemente nata una nuova scienza: l'etologia.
Questa scienza ci conferma che tutta la dimensione del vivente si struttura
intorno alla coppia dominatore/dominato. Ma se così è, l'uomo può progettare
una rottura della coppia campo-di-forza dominatore/dominato? Può l'uomo
porsi un problema che non è nell'ordine naturale? E non da oggi, se lo pone.
Da sempre l'uomo si è rappresentato uomo umano solo in quanto uomo nella e
per la libertà, costantemente ribadendo che là dove egli cade in balia della
polarità dominatore/dominato, là egli perde la propria anima umana.
L'etologia, che pure aveva suscitato il problema delle antinaturalità del
desiderio di libertà, lo ha eluso svolgendo un complesso, e in sé
affascinante discorso sulla ritualizzazione dell'aggressività, per cui il
vinto, compiendo alcuni gesti di sottomissione, placa il vincitore. Ma ogni
uomo avverte "istintivamente" che, là dove il vinto si sottomette,
accettando saggiamente la legge "naturale" del più forte, si è davanti a un
atto profondamente ripugnante: una capitolazione totale dell'umano. L'umano
sentire si è esaltato ed ha esaltato la resistenza vietnamita, palestinese,
cecoslovacca. Solo la stupidità idiota di chi ci lucra sopra può spacciare
quel fulgente valore per la causa comunista, araba o del socialismo dal
volto umano, anche se chi ammira, ammira sempre per categorie culturali.
Questa non è che la forma esterna, il linguaggio tra l'appreso e l'imposto,
spesso oscena sifilide che appesta la mente. Lo si comprende se si studia il
più forte: dovrebbe travolgere le deboli forze di chi gli resiste, e invece
improvvisamente arretra e la sua supposta invincibile forza si decompone.
Tutto questo ci è raccontato in quello stupendo libro che è "La Germania" di
Tacito. I germani fermarono le legioni con pali di legno accuminati: non
avevano altre armi. Che cosa ammira Tacito dei germani se non la volontà di
libertà? Nel suo libro il popolo in lotta contro le legioni è rappresentato
come una sorta di totalità libera e irriducibile allo schema
dominato/dominatore. Nell'opera tacitiana non è esaltata la resistenza di un
popolo a un altro popolo, ma tale resistenza è esaltata in quanto figura
locale e contingente di un principio più alto: la resistenza vittoriosa
dell'uomo contro il dominio dell'uomo sull'uomo. Ieri come oggi, in una
visione culturale prevalente tra i popoli "inciviliti" che si rappresenta la
civiltà possibile solo se fondata sulla coppia dominatore/dominato, là dove
insorge un moto di rivolta locale, ogni uomo vi colloca la speranza di una
rivolta ben più netta e radicale. (Il marxismo con la dittatura del
proletariato, e la psicanalisi con la rappresentazione della civiltà come
sublimazione sono i più attivi propagandisti di una cultura del sociale
strutturato secondo lo schema dominatori/dominati). Spera che là sia
rotto il campo di forze maledette: il potere. Ma ora noi sappiamo che tale
campo è la forma generale della socialità naturale: questo ci insegna
l'etologia. Desiderio di libertà: desiderio non contenuto nella natura, ergo
desiderio innaturale.
A procedere dall'etologia noi sappiamo che lo schema del potere è all'azione
ovunque si sviluppa una socialità animale, dove il primo passo è la
riproduzione sessuata; a procedere dalla storia umana, noi sappiamo che il
desiderio di libertà: rottura del campo di forze che struttura la socialità
secondo la bipolarità dominatori/dominati, è altrettanto universale.
Desiderio non rimasto mera evasione fantastica, ma che produce azioni, e è
arrivato a produrre tipologie sociali entro le quali l'uomo vive e si
rappresenta uomo nella e per la libertà. Tale fu indubbiamente la cultura
selvaggia, quale la ricerca etnologica ci viene svelando, tale il comune
romano, la polis greca, i clan dei celti e dei germani, le città libere
medievali. Che cosa fonda l'esserCI nella libertà? La descrizione di un
fatto non spiega un fatto. Le concause che determina una società nella
libertà non possono essere recuperate, ma solo intuite, e sempre le
circostanze accidentali: la benevolenza degli dei, appaiono preponderanti.
Storicamente, a differenza dell'amore o del cibo, la libertà si decifra solo
dopo: come nostalgia della libertà, o prima: desiderio. Gli uomini liberi
non conoscono il valore della libertà. Considerazione che appunto prova
l'estraneità del sentimento all'universo naturale. Ma se la libertà è
l'elemento necessario per il manifestarsi dell'uomo umano, noi dovremmo
poterne comprendere le origini riflettendo secondo gli schemi e il
linguaggio di quella dottrina che, nell'ambito della nostra tradizione
occidentale, con più forza esprime tale necessità-desiderio: la metafisica.
Entro il sapere metafisico, momento fondamentale è la speculazione di
Immanuel Kant. Per Kant la conoscenza è possibile perché sono date tre
categorie a priori: il tempo, lo spazio, la catena causale, mediante le
quali si investiga, ed entro le quali si disloca e struttura tutta la
conoscenza. Queste tre categorie preesistono all'uomo, già attive, e
generatrici del mondo naturale: forme generali e ricapitolative di tutto
l'ordine naturale, fin nel minerale. Forme astratte e generali della
materia, preesistono alla vita che si manifesta tale proprio per una sua
capacità, agli inizi minima, di manipolazione del tempo, dello spazio e
della catena causale. Se alla base delle cure parentelari, o di ogni altra
manifestazione sociale c'è una spinta istintuale programmata, mediante
l'introiezione dello spazio e del tempo, animali gregari, anche allo stato
di singoli esseri, rivelano una capacità adattiva-innovativa, che nei fatti
significa una manipolazione della catena causale. Le grandi scimmie, i
delfini, i lupi, i leoni, gli elefanti, dimostrano, e da osservazioni sul
campo, e attraverso prove sperimentali, una capacità altamente sviluppata di
manipolazione dell'ambiente, oltre le mere possibilità istintuali: dal caso
dei merli che succhiavano la panna dalle bottiglie del latte, al leone
selvaggio che si presentò a un veterinario in Africa, scegliendo
l'atteggiamento più acconcio per non spaventarlo, per farsi estrarre una
spina da un occhio; c'è tutta una vasta aneddotica che prova come già le
forme superiori di vita sappiano assumere atteggiamenti estremamente
complessi. Lo studio degli elefanti ha provato che questi animali conoscono
l'idea astratta di morte, la qual cosa, come vedremo, ha vastissime
implicazioni. La capacità di intervenire sulla catena causale,
manipolandola, è ridottissima nella specie umana. I più antichi strumenti di
pietra individuati dagli archeologi: delle asce fabbricate da umanoidi la
cui capacità cerebrale era ancora pre-umana, risalgono a oltre 2.600.000
anni or sono. Prove archeologiche ci dimostrano che l'uso del fuoco risale
invece a non più di circa 500.000 anni or sono. E il fuoco si può assumere
come momento discrimine dell'uomo umano, per la complessità di operazioni
causali che l'uso sistematico di tale strumento comporta. Ma il fuoco in sé
non significa nulla di rivoluzionario. La possibilità di gestire il fuoco
era già contenuta come virtualità, e così il linguaggio. Ma lo sviluppo del
linguaggio, degli utensili manipolati e del fuoco, sono possibili solo
quando si abbia raggiunto un perfetto dominio dei tre a priori: lo spazio,
il tempo, e la catena causale, in quanto tutte operazioni, soprattutto il
fuoco, che esigono, per articolarsi e tramandarsi, una introiezione del
tempo e dello spazio, connessi ad una evoluta capacità di prevedere e
pianificare. Tale rappresentazione esige, in primis, una rappresentazione
completa e complessa dei rapporti dentro il gruppo. L'uomo che autorivelasi
umano, mentre scopre intorno a sé disponibilità illimitate di cibo e sempre
più vasti territori da esplorare, scopre contemporaneamente la dimensione
profondamente insoddisfacente ed insicura della propria socialità: una
socialità gerarchica che lo metteva in conflitto con le radici stesse della
vita, perché assicura solo a pochi esseri dominanti tutti i vantaggi della
socialità, escludendo i dominati ai margini.
Per comprendere la natura profonda del dramma dell'umano, dobbiamo
considerare brevemente quale delle tre categorie a priori pose l'uomo
davanti al dolore cosciente: lo indusse ad autorappresentarsi nel dolore.
Animale estremamente adattivo, l'uomo delle origini non sperimentò il dramma
del sovrappopolamento noto alle società storiche. L'a priori spazio appariva
invece come inesauribile, e altrettanto vale per la catena causale, che
rimane ancora oggi, con la ricerca scientifica, uno spazio indefinitamente
aperto all'esplorazione e all'invenzione. L'uomo si rappresenta il vivere
come tragedia là dove e quando giunge ad autorappresentarsi compiutamente
l'a priori "tempo" che, come tempo umano, si rivela immediatamente e
irreversibilmente tempo finito: tempo che finisce nel morire. Il tempo
ciclico del mito, il tempo sconfitto dall'eternità del religioso, il tempo
perenne della storia laica, sono tutte creazioni posteriori, esorcismi
culturali contro l'angoscia del tempo umano: tempo della morte. Tale uomo:
uomo che si confronta con la morte, non abita un mondo felice, e non per
scarsità di territorio o per povertà dell'ambiente, ma per una intrinseca e
limitante povertà dello schema della socialità naturale che governa il suo
modo di stare con i propri simili.
In quanto essere naturale, l'uomo è un complesso insieme di "istinti",
governati dalla bipolarità dolore/piacere. Tanto il modello generale di
comunicazione, quanto lo schema di apprendimento si muove secondo la logica:
a) contatti-segnali che provocano piacere: da perseguire.
b) contatti-segnali che provocano dolore: da eludere.
In natura due sono i segnali forti: cibo e sesso. L'uomo umano delle origini
non si scontrò con la scarsità di cibo: segni di rachitismo sugli scheletri
umani compaiono solo con le civiltà delle grandi imprese edificatrici. La
miseria è un prodotto della civiltà. L'uomo umanizzato si scontra ed entra
in conflitto con il proprio gruppo per il disordine provocato dal segnale
forte sesso. La rinuncia al piacere sesso: agli stimoli e ai segnali del
piacere del sesso, diventavano tanto più intollerabili quanto più appariva
evidente e presente l'a priori tempo: ora tempo sotto il segno della morte.
La copresenza del sesso e della morte dovevano essere tanto più forti in
quanto l'uomo non aveva ancora imparato a eludere la morte nel mito. Tra
l'uso del fuoco e le cure funerarie corre un vuoto di oltre 300.000 anni.
Una sorta di inspiegabile arresto nell'evoluzione della specie. Il fuoco,
come abbiamo visto, prova tecnicamente la presenza di una coscienza umana
ormai maturata. La ragione dell'arresto sta nel tipo di conflitto che l'uomo
sperimentò: conflitto dentro la propria società. Con l'uso di strumenti
litici, ogni conflitto dentro il gruppo poteva diventare immediatamente
conflitto mortale. Se noi consideriamo che, come abbiamo già visto, l'uso di
asce in pietra è vecchio di oltre 2.600.000 anni: noi non ci troviamo
davanti ad uno spazio di tempo più che sufficiente perché la specie umana
potesse sviluppare una serie di rituali di lotta dove il più debole si
sottomette: e potesse svilupparli a livello istintuale. Perché questo non è
accaduto? Perché lo vietava la rappresentazione del mondo che i tre a priori
costruivano come luogo della coscienza. Non è accaduto perché la coscienza
umana è nata e si è definita come coscienza della morte. Se l'uomo non ha
sviluppato l'istinto gregario subalterno dell'orda, tipico di tutte le
specie predatrici in branco, non è perché, come ritengono gli etologi, era
una grande scimmia antropomorfa. Deambulazione eretta, un forte estro
sessuale, la manipolazione degli oggetti, con un conseguente sviluppo di un
patrimonio di osservazione, hanno certamente giocato un ruolo determinante
per il prodursi della coscienza. Ma la coscienza si produce innanzitutto
come coscienza della morte. Infatti tutta la socialità dell'uomo si
svilupperà come socialità che si legittima in quanto contrasta la morte, ne
allontana il significato e il fatto. Ma perché così accada, gli uomini
devono sentire la loro società come società che consola e protegge, società
che tutela ed aiuta. Società di fratelli. Condizione raggiunta solo quando
gli uomini postulano un'eguaglianza. Società di eguali.
Come abbiamo visto, in un gruppo primitivo c'era solo un tipo di
diseguaglianza: la diseguaglianza sessuale. Diseguaglianza naturale tra
maschio e femmina, non modificabile, accidentale ma simmetrica. Intorno a
questa diseguaglianza, la natura costruiva una diseguaglianza all'accesso
del godimento. I miti primitivi si sono spinti tanto avanti nell'insegnare
la necessità dell'eguaglianza da produrre l'immagine naturale
dell'androgino: l'essere con i due sessi, che la tradizione alchemica
celebra come la perfezione. Essere superiore: essere che ha trasceso la
natura. Tale fu l'aspirazione, proprio in ragione della violenza del
conflitto, che minacciava di distruggere l'orda tribale: viversi
androginamente. Il primo passo verso l'androginia è l'onanismo. Il
masturbarsi è rinchiudersi in sé stessi. Masturbazione stupro e sodomia
dovevano essere le forme generali del sesso tra gli esclusi, in un perenne
riesplodere di conflitti, che misero in forse la stessa esistenza della
specie, fin quando non fu prodotto il tabù dell'incesto: forma generale
dell'eguaglianza nella società umana infine prodotta. Non solo la natura non
vieta l'incesto, ma in natura l'incesto è comunemente praticato. Producendo
il divieto all'incesto l'uomo si separa dalla natura e inventa un atto
simbolico che gli permetterà il suo ulteriore sviluppo. Innanzitutto il tabù
tutela il più debole: pone il più debole su un piano di parità con il più
forte. Inoltre, solo con questo tabù è data una stabile norma di
cooperazione dentro la famiglia, perché qui innanzitutto sono aboliti gli
antagonismi. Ma proprio perché l'orda umana primigenia doveva già aver
raggiunto una sorta di comunismo sessuale tra i dominati di una certa classe
di età, che esercitavano il dominio contro e sui più giovani: una sorta di
matrimonio di gruppo, le cui tracce sono ancora ampiamente presenti e nella
mitologia e nei popoli protostorici, il tabù dell'incesto coinvolgeva
immediatamente tutto il gruppo matrimoniale, esigendo un allargamento della
sfera tribale.
Solo ora, prodotto il tabù dell'incesto, l'uomo poteva prodursi uomo nella
libertà. Ora gli uomini potevano rappresentarsi esseri che abitano la buona
società.
Il tabù dell'incesto è la forma simbolica che garantisce l'eguaglianza tra gli uomini, ma evidentemente non ancora sufficiente a tutelare la donna dallo stupro. A tutela del femminile si sviluppò tutto quel complesso di regole i cui relitti furono interpretati, soprattutto dal Bachofen, come l'esistenza di una fase matriarcale. Questo il quadro generale del movimento verso la libertà, che nel suo svolgersi provocò conflitti profondi e drammatici, in quanto costrinse ad una rivolta contro gli "istinti" della socialità naturale. Se questi istinti furono dominati senza che la grande specie cadesse in una sorta di conformismo genetico universale, o imbocasse la strada della specializzazione, percorsa dagli insetti sociali, per cui la società finisce per diventare l'organismo, e il singolo una cellula di un organismo di ordine superiore: si pensi ai termitai o agli alveari; questo accade per l'incomparabile ricchezza del patrimonio genetico, che oppose una tenace resistenza all'uniformità. Si può tranquillamente affermare che tutta la cultura selvaggia, quale ci è documentata dalle raccolte di favole e miti, tenda a insegnare essenzialmente una cosa: che gli uomini devono aiutarsi tra di loro, che là dove si tendono reciproci inganni, là si finisce sempre molto male. Miti che insegnano a vedere il valore decisivo dell'eguaglianza. Ma non un'eguaglianza astratta, ideologica. Eguaglianza rispetto a un ben preciso spazio, la cui funzione strategicamente decisiva per una buona vita gli uomini avevano ormai ben chiara: la socialità. Tra loro diseguali geneticamente: per differenze sessuali caratteriali e intellettuali, per conquistarsi una buona vita gli uomini dovranno impedire lo svolgersi sociale di tali differenze secondo il modello naturale: gli uomini dovevano rappresentarsi uguali tra loro entro la comunità. Oltre le diseguaglianze genetiche, attraverso il tabù dell'incesto, le regole matrimoniali, il patrimonio di tecnologie, e soprattutto la comunanza del linguaggio, gli uomini produssero una socialità fondata sull'eguaglianza. Ma poterono produrla solo perché il combinarsi del lavoro umano non è una somma aritmetica, ma geometrica; detto sociologicamente, il cooperare paga. Ma perché ci sia cooperazione efficace, deve innanzitutto esserci armonia. E la strada dell'armonia passa per l'eguaglianza: eguaglianza rispetto allo spazio sociale. Ecco la libertà: concetto contenuto in nuce in ogni proposta egualitaria, che per tradursi operativamente esige un progetto politico, un linguaggio simbolico il cui segno è appunto il concetto di libertà.
Solo la cecità degli etnologi e antropologi, affannati nelle loro letture
economiciste strutturaliste e psicoanalitiche impedisce di comprendere la
lezione ultima e decisiva del pensiero mitico, che non fa che ripetere
insistentemente due ammonimenti: a) tu non devi mai lavorare per te ma per
la tua società; b) tu non devi mai presupporti superiore ai tuoi simili, per
quanto grandi siano i tuoi meriti o, per quanto grandi siano questi meriti,
andrai alla rovina.
Il comunismo del paleolitico e del primo neolitico sono stati oscurati da
due ordini di fattori: a) la religione; b) la concentrazione e la crescita
demografica dei grandi gruppi umani. Due fattori questi che interagiscono e
reciprocamente si rafforzano. La religione sorge a placare l'angoscia della
morte, ma insegnando una redenzione che estrania gli uomini dal sociale.
Nell'universo religioso la socialità diventa un momento contingente e
transitorio; la riflessione e modificazione del sociale - l'azione politica
- evento inessenziale. La religione distrugge la politica, così producendo
l'uomo umanamente castrato, perché insegna, in primis, a guardare oltre e
fuori la società, ora vissuta dagli spiriti religiosi come momento
inessenziale. Così predicando, la religione perverte la catena causale: il
conflitto tra religione e pensiero - dove la scienza è un esempio clamoroso
- non sono per nulla degli incidenti come vorrebbero i marxisti o il nostro
caro Giovanpaolo II. I vantaggi dell'eguaglianza sono immediatamente
intuibili in un piccolo gruppo, non così in una grande comunità, che si
regge intorno a complessi commerci, trasferimenti di lavoro che si
rappresentano simbolicamente come movimenti finanziari. Cooperare significa
lavorare di meno per avere di più. Ma decisivo perché così accada è che
tutti i sodali abbiano chiaro il piano generale. Sappiano perché, e a che
cosa collaborano.
Questo è il problema della nostra epoca. Lottare contro il potere, come ben
vide Vittorio Alfieri nella sua satira contro la massoneria, significa
innanzitutto lottare contro ogni forma di linguaggio e/o associazione
iniziatica. Ma il nostro potere è la forma contingente ed evoluta del potere
religioso, che confiscò a proprio vantaggio, per la costruzione di piramidi,
palazzi e templi, il lavoro collettivo. E questo evento fu possibile proprio
per l'ascesa di una casta iniziatica. Non è senza significato che tale casta
- notissimo è il caso dei faraoni - abbia sistematicamente violato il tabù
dell'incesto, insegnato la radice naturale della diseguaglianza. Lezione che
il liberalismo trasferisce, in un mondo impoverito di risorse, all'economia:
libertà "naturale" di sottrarre agli altri. Questo ritorno alla "naturalità"
dei comportamenti è però una regressione nel movimento della specie, un
ritorno a forme arcaiche e superate, che aggredisce l'uomo nella sua
dimensione specificamente umana, e gli sottrae la capacità di
auto-evoluzione. Il potere sorge da errori umani nell'elaborare il progetto
culturale. Solo una serie di errori culturali potè portare ai faraoni e alle
piramidi, agli inca, allo stato in generale, ma tali errori liberano forze
arcaiche che aggrediscono la tendenza specificamente umana, producendo un
arresto evolutivo della specie, il ritorno di un uomo arcaico: preumano.
Se così è, il potere è un prodotto dell'errore umano, ma si perpetua in
quanto poggia su dati interni alla natura umana. La sua pericolosità è
quindi tanto maggiore e più nefasta, in quanto la sua presenza significa un
arresto nel farsi umano dell'uomo, una ricaduta nel bestiale.