La (mia) lezione del Diana
Sta per uscire, per le edizioni Samizdat, la ristampa del
volumone di Vincenzo Mantovani Mazurka Blu, edito nel 1978 da Rusconi:
uno studio ed un affresco dell’Italia degli anni ’20, con al centro
l’attentato al Teatro Diana. La riedizione è preceduta da uno scritto di
Paolo Finzi, che qui proponiamo.
Quando Vincenzo Mantovani iniziò a lavorare intorno al progetto ed ai primi
materiali che, vari anni dopo, si sarebbero concretizzati in Mazurka Blu,
prese contatto con gli anarchici milanesi. Ci incontrammo – un dopocena nei
primissimi anni ’70 – nella redazione della rivista anarchica “A”: Vincenzo
mi apparve subito come una persona gentile, discreta e molto efficiente. Su
di un quadernino aveva stilato, in piccola calligrafia, decine di domande di
ordine generale (sul contesto storico, sul ruolo del movimento anarchico,
ecc.) e soprattutto specifiche (avevamo sentito nominare il tal dei tali? E
la compagna di Malatesta? Era ancora vivo quell’anarchico che nel ’20 faceva
l’editore? e via discorrendo).
Noi eravamo sanamente prevenuti. L’attentato al Teatro Diana era sì avvenuto
mezzo secolo prima, ma - per svariate ragioni - era ancora di bruciante
attualità. Basti ricordare che all’indomani dell’attentato di piazza Fontana
(12 dicembre 1969), nell’immediato indirizzarsi verso gli anarchici non solo
delle indagini poliziesco-giudiziarie ma anche del battage dei mass-media,
subito era stata ritirata fuori – e con quanto clamore! – la strage del
Diana. Nelle prime giornate successive a quella che sarebbe poi passata alla
storia come “la strage di stato” per antonomasia, più che le rivelazioni
sensazionali su Pietro Valpreda (“la belva che ci ha fatto piangere” titolò
un giornale) fu proprio il parallelo con il Diana, dato in pasto
all’opinione pubblica, a incidere negativamente sull’immagine del movimento
anarchico.
Se già noi anarchici eravamo stati capaci di seminare la morte tra gli
innocenti, e poi proprio a Milano, e poi proprio in un luogo di pubblica
affluenza (allora un teatro, oggi una banca), allora...
Noi di “A” – che eravamo anche militanti del Circolo anarchico “Ponte della
Ghisolfa”, quello cui aveva appartenuto anche Giuseppe Pinelli – non
potevamo che essere preoccupati dal fatto che una persona a noi finora
sconosciuta, estranea al nostro movimento, mettesse le mani in quella
vicenda che certo non conoscevamo nei minimi dettagli, ma che assomigliava
tanto ad uno “scheletro nell’armadio”. Volere o volare, gli autori
dell’attentato al Diana erano anarchici e l’attentato si era trasformato
(contro la volontà degli autori, certo: ma é poi davvero decisivo?) in una
strage. Il Diana, in poche parole, era la conferma storica più eclatante che
l’equazione “anarchia = bombe” non era solo il parto della vile stampa
borghese...
Non avrebbe potuto il nostro cordiale interlocutore occuparsi d’altro? Tra
le tante pagine sconosciute, e tutte più belle, della storia degli anarchici
italiani, perché scegliere proprio quella che, nel pieno della campagna di
contro-informazione sulla strage di Stato, poteva ritorcersi contro di noi?
Questo il senso – inespresso – delle nostre obiezioni di fondo al progetto
di Vincenzo Mantovani. Gli altri compagni, comunque scarsamente interessati
alla ricerca storiografica perché in altre vicende impegnati, augurarono
buon lavoro a Vincenzo – e stop.
Io – invece – avevo cominciato in quei mesi a lavorare alla tesi di laurea:
una ricerca – che anni dopo sarebbe stata pubblicata (La nota persona.
Errico Malatesta in Italia, dicembre 1919 - luglio 1920, Edizioni La
Fiaccola, Ragusa 1990) – sul rientro in Italia di Errico Malatesta nel
dicembre 1919 e sui successivi mesi di impegno sociale fino al congresso
dell’Unione Anarchica Italiana (luglio 1920). Prima della strage del Diana,
certo. Ma le mie letture, lo spoglio della stampa anarchica dell’epoca, le
mie conoscenze in generale potevano incrociarsi utilmente con quelle di
Vincenzo.
Nacque così una collaborazione stretta, che ci vide per uno o due anni
incontrarci frequentemente, discutere di aspetti generali, scambiarci le
fotocopie fatte negli archivi di stato, ecc. Io ero poco più che un ragazzo,
Mantovani aveva quasi il doppio dei miei anni, teneva famiglia, due figli.
Io ero assorbito, con l’intensità che molti vissero in quell’epoca, nella
militanza politica, lui era certamente un progressista, con un occhio di
simpatia per gli anarchici (ed il suo libro ne fa ampiamente fede): ma
eravamo molto diversi.
Ricordo che i miei genitori, preoccupati per l’intensità della mia
partecipazione alle iniziative pubbliche anarchiche, vedevano con occhio
particolarmente benevolo le ore che trascorrevo in casa con Vincenzo –
ferrarese come mia madre, che nel capoluogo emiliano era stata attiva già
negli anni ’30 nel Soccorso Rosso e che lì venne arrestata dalle autorità
fasciste. L’impegno storiografico era visto da loro come un’alternativa
tranquilla e non rischiosa alla militanza.
Nel 1975 mi laureai: Vincenzo venne alla discussione della tesi che, nelle
sue parti più originali (penso alla ricostruzione dei rapporti tra Errico
Malatesta, Giuseppe Giulietti e Gabriele D’Annunzio, e più in generale alla
“congiura anarco-fiumana”) era ampiamente debitrice nei confronti delle
ricerche di Vincenzo. Qualche anno dopo, infine, uscì – dopo varie vicende
legate soprattutto alla ricerca di un editore disposto a pubblicare
integralmente il massiccio libro di Mantovani – Mazurka Blu, che
personalmente ritengo una delle opere più interessanti ed oneste sulla
storia del movimento anarchico in Italia.
Grandi sono i meriti di Mantovani: primo fra tutti quello di aver saputo
descrivere bene, con chiarezza di intenti e precisione terminologica,
un’epoca lontana della nostra storia, sempre inquadrando gli avvenimenti
specifici di cui si occupava nel più generale quadro di quegli anni
intricati e tormentati. Non c’è traccia di sensazionalismo nelle sue pagine,
che pure affrontano episodi e personaggi che si sarebbero prestati ad un
simile approccio.
Come il compianto Pier Carlo Masini, che non aveva alcun titolo accademico
“ufficiale” (anzi, era del tutto estraneo all’Università, e da molti
cattedratici per questo snobbato), anche Mantovani era un outsider.
Lo scrupolo meticoloso che ha messo nella sua ricerca non ha cancellato
quella verve che anima le pagine di Mazurka Blu e ne rende così
godibile la lettura.
Reso il dovuto omaggio all’amico Mantovani, resta il Diana. Il suo libro,
certo, aiuta molto a comprendere il clima nel quale maturò quel fatto. Ma
non dice, non può dire, l’ultima parola, la verità, tutta la verità. Credo
che non la si saprà mai.
Resta la coscienza di quanto quell’attentato – come altri attentati compiuti
da anarchici o sedicenti tali – oltre a spargere sangue, morte, lutti, abbia
contribuito al rafforzamento di un’immagine negativa dell’anarchismo. Troppe
volte, nella storia del movimento anarchico, i gesti più o meno sconsiderati
di alcuni – pochissimi – hanno fatto ricadere le loro conseguenze
sull’intero movimento.
Questo è stato – a mio avviso – il Diana. In un periodo di forte riflusso
della conflittualità sociale e di parallela crescita del movimento fascista,
quella bomba finì con il favorire lo sradicamento sociale di un movimento,
come quello anarchico, che pure aveva ancora una base di massa – anticipando
di mesi, forse di qualche anno, la sorte che sarebbe toccata anche agli
altri movimenti antifascisti. Le conseguenze del Diana – insieme ad altri,
anche più importanti, fattori – si sarebbero fatte sentire anche in esilio
ed al confino, fino a condizionare pesantemente la ripresa anarchica nel
secondo dopoguerra.
Come il Diana, numerosi altri episodi diversi ma assimilabili hanno
caratterizzato la storia dell’anarchismo a livello internazionale, e non
solo a fine ’800.
La lezione che personalmente trassi già allora, in quelle lunghe ore
trascorse a lavorare con Mantovani, e che poi ho sviluppato nei tre decenni
che ci separano da allora, mi ha portato ad aborrire sempre più la violenza
terroristica (ché di questo si tratta), le bombe, gli attentati, la mistica
della vendetta, la mitologia della lotta dura, il “colpo su colpo” e quant’altro.
Credo che il nostro movimento abbia già dato – e pagato – anche troppo.
Esattamente come scrisse pubblicamente uno degli autori dell’attentato del
Diana, Giuseppe Mariani – il caro Peppino che conobbi e frequentai negli
ultimi anni della sua vita –, all’indomani della propria scarcerazione, dopo
aver trascorso un quarto di secolo in carcere condannato all’ergastolo e
averne scritto un libro che meriterebbe anch’esso di venire ripubblicato.
Quel libro (edito a Torino nel 1953 dalle Arti Grafiche Fratelli Garino) si
intitolava Memorie di un ex-terrorista. “Ex”, appunto. E non a caso.
Paolo Finzi