La
ricerca dell’autosufficienza alimentare delle comunità è
stata fino ad un passato molto recente uno dei caratteri
distintivi della specie umana. Tale ricerca ha, tra
l’altro, comportato una grande diversità nelle abitudini
alimentari in quanto condizionate dai luoghi, dalla
disponibilità di risorse, dalla cultura locale. Ma
queste differenze hanno anche prodotto la ricerca
costante di specie da coltivare o da allevare che
usufruissero al meglio delle condizioni ambientali senza
alterarne i caratteri. C’è stata, insomma, nel tempo una
selezione delle varietà e delle specie da parte degli
uomini al fine di ottenere la massima efficacia del
lavoro per la produzione del cibo nella specificità
delle condizioni ambientali e sociali. La
diversificazione delle colture, per ciò che riguarda
l’agricoltura, ha sempre rappresentato un formidabile
meccanismo regolatore ed equilibratore delle relazioni
tra uomo e ambiente, e ancora oggi risulta essere una
sorta di “patrimonio dell’umanità” irrinunciabile.
Recentemente si sta assistendo ad un fenomeno di
omologazione degli alimenti attraverso la crescente
diffusione di merci, uniformate e controllate da un
numero di produttori e distributori molto ridotto.
Questo fenomeno è sostenuto dalla predisposizione di
prodotti connotati sulla capacità di attrazione del
consumatore, di campagne di pubblicità di sostegno, che
rimandano ad una immagine di “modello di vita”
accattivante ma anche, e forse principalmente, dalla
riduzione della capacità delle società locali di
produrre i propri alimenti.
I principali caratteri di questi cibi sono i costi di
produzione ridotti, che garantiscono consistenti margini
di vendita, e i prezzi non elevati, che rendono
possibile l’estensione del mercato.
Per ottenere costi bassi si ricorre a processi
produttivi altamente industrializzati ed alla
trasformazione delle qualità degli alimenti stessi sia
per permetterne la conservazione, sia per risparmiare
nei costi di produzione.
Il risultato è una miscellanea di sostanze incongrue con
cui artificiosamente si costruisce la forma desiderata.
Avendo questi processi necessità di grandi quantità di
materie prime a basso costo, di fatto si pongono come
maggiore domanda di prodotti agricoli e di questi
influenzano i caratteri. L’agricoltura si industrializza
per rispondere alle esigenze dell’industria
agroalimentare e così facendo viene asservita al mercato
delle merci ed al suo andamento, tagliando il legame con
la comunità produttiva e agganciandosi ad una domanda di
cui non regola né volontà, né richiesta.
Attraverso questo sistema interi ambiti geografici, di
estensione a volte sovranazionale, hanno perduto la loro
autonomia alimentare e sono divenuti dipendenti da un
mercato controllato da aziende e da interessi lontani e
conflittuali con il benessere delle comunità.
Il mercato alimentare è sicuramente quello che comporta
più rischi sociali e ambientali. All’alimentazione sono
collegate le ricerche sulle modificazioni genetiche, il
brevetto della natura, il controllo sociale e tecnico
delle comunità e attraverso l’alimentazione si controlla
politicamente il pianeta, si costruisce il debito
pubblico, si creano i poveri e i ricchi, si crea il
mercato del lavoro e degli individui; in sintesi si
opera l’asservimento culturale, produttivo e sociale.
Nel 1974, alla World Food Conference (Conferenza
Mondiale dell’Alimentazione), tenuta a Roma, il
Segretario di Stato Statunitense Henry Kissinger
dichiarò: “dal 1984 nessuno, uomo, donna o bambino andrà
a letto affamato”.
Nel 2001 un miliardo e cento milioni di abitanti del
pianeta, su sei miliardi, è affamato o denutrito.
Nel 1996, in occasione della medesima conferenza, i
delegati di 186 paesi adottarono l’obiettivo di ridurre
a metà il numero degli affamati. Già nel 1999 le
proiezioni FAO evidenziarono che l’obiettivo non potrà
essere raggiunto in quanto il processo avviato è troppo
lento e i progressi troppo disomogenei.
Certamente questi obiettivi, nella forma in cui sono
stati dichiarati, denotano molta demagogia e la mancanza
di azioni realmente perseguibili, che accompagna
solitamente queste dichiarazioni, avvalora la tesi che
la fame nel mondo non sia solo una condizione non
transitoria (come dichiarato dalla FAO) ma l’esito di
una precisa politica, anche alimentare, finalizzata al
controllo di aree geografiche, di popolazioni e allo
sfruttamento incondizionato delle risorse.
Basandosi sull’emergenza cibo, motivata
dall’esponenziale crescita demografica, da più parti si
è individuato nella produttività industrializzata e
quantitativa la panacea di tutti i problemi. E sull’onda
della necessità si è imposto un modello che, oltre ad
essere produttivo, è anche sociale.
Al di là dell’opportunità di una riduzione significativa
della crescita della popolazione, il problema alimentare
è principalmente distributivo (una maggiore equità) e
sociale (una maggiore autonomia).
Invece la soluzione approntata è derivata dalla volontà
di massimo profitto (elevata produttività,
concentrazione della produzione, ampliamento del
mercato) che si combina con l’interesse al controllo
politico delle risorse; il compatimento dei poveri e
degli affamati è una grande mistificazione, specie se
espresso da chi non vuole intervenire sui meccanismi e
gli interessi di chi alimenta la strategia della fame.
Chi fa il cibo e chi lo mangia
Nonostante circa il 70% della popolazione globale si
guadagni da vivere con la produzione di cibo, nei paesi
industrializzati, che sono i maggiori consumatori di
cibo per unità di popolazione ed in assoluto i maggiori
produttori di merci nel settore agroalimentare, gli
addetti all’agricoltura sono solo il 2% della
popolazione.
Da un lato dunque i produttori delle materie prime, in
parte ancora con le coltivazioni dirette, e dall’altro i
grandi trasformatori: i produttori delle merci.
Oggi 10 multinazionali controllano il 32% del mercato
mondiale dei semi (23 mld di dollari), il 100% del
mercato globale dei semi geneticamente modificati,
dell’agrochimica e dei pesticidi e cinque società
gestiscono il mercato mondiale dei cereali.
La percentuale di bambini malnutriti in India è del 53%,
in Bangladesh del 56%, in Pakistan del 38%, in Africa è
salita dal 26% del 1980 al 28% attuale. Secondo una
stima della Banca Mondiale il 72% del miliardo e
trecento milioni dei poveri, che corrisponde per la
quasi integrità ai malnutriti, vive in aree rurali.
Sebbene parecchie di queste aree siano costituite da
terreni aridi o semiaridi e che in esse il numero degli
insediati è solitamente eccessivo, la constatazione che
la maggior parte degli affamati si trovi nei luoghi dove
è presente la possibilità di accedere direttamente alla
risorsa alimentare, rappresentata dai terreni
coltivabili, è quantomeno stupefacente. La spiegazione
di questo dato è nella quantità delle esportazioni di
alimenti che questi paesi fanno: ad esempio in Brasile
il 23% dei terreni coltivabili è utilizzato per la
produzione della soia, metà della quale è destinata
all’esportazione, in Honduras (80% di foresta pluviale
tagliata) il 60% dei terreni è per il pascolo ed il 30%
della carne è esportata negli Usa, in Nicaragua (30 % di
foresta tagliata nell’ultimo decennio) negli ultimi
venti anni la produzione della carne è triplicata e
l’esportazione quintuplicata.
Alcune aree dei paesi più poveri sono le stesse in cui
viene prodotto il cibo per la parte ricca della
popolazione del pianeta: gli statunitensi sono il 5%
della popolazione mondiale e consumano il 23% della
carne bovina prodotta nel mondo ed una notevole
superficie di altri paesi è asservita alla soddisfazione
di questa richiesta.
La ragione di questi asservimenti si riscontra nella
possibilità di avere costi di produzione più bassi: un
bovino libero al pascolo consuma 499 kg di foraggio al
mese; se vi è la possibilità di avere quasi
gratuitamente la disponibilità di pascoli, si annullano
i costi di alimentazione degli animali.
Nel sud e centro America questa disponibilità di pascolo
è ottenuta grazie ai latifondi (in Brasile il 4% dei
proprietari terrieri possiede l’80% delle superfici
disponibili), o ai minimi costi per le concessioni di
suoli pubblici, i cui terreni per gran parte sono
ottenuti dal taglio delle foreste pluviali.
Nel dopoguerra i governi di quei paesi cominciarono a
convertire milioni di ettari di foreste pluviali in
pascolo per produrre bovini da esportazione e gli
organismi internazionali sostennero questo politica:
solo tra il 1971 e il 1977 fornirono 3,5 mld di dollari
per promuovere in quei paesi l’allevamento bovino.
Una situazione, questa, che palesa i meccanismi di
espoliazione sociale e ambientale, a danno della
popolazione insediata ed a favore di soggetti esterni,
ancora oggi praticati, ad esempio, dal governo
brasiliano che, recentemente, ha predisposto incentivi
fiscali per incoraggiare investimenti nazionali ed
esteri in Amazzonia.
Come in centro e sud America così in tutto il mondo.
Vandana Shiva denuncia: “l’agricoltura indiana è un
obiettivo prioritario delle multinazionali perché il 75%
della popolazione indiana trae la propria sussistenza
dall’agricoltura e poiché nel mondo un agricoltore ogni
quattro è indiano”. Il tentativo è quello di trasformare
queste popolazioni da soggetti a basso consumo, capaci
di autoproduzione, a consumatori di semi, di concimi, di
brevetti predisposti, prodotti e distribuiti dalle
multinazionali. Essi, seppur poveri, per il loro numero
elevato rappresentano una enorme potenzialità di mercato
e, contemporaneamente, il loro assoggettamento alle
logiche del mercato internazionale delle merci e dei
prodotti preconfezionati li renderebbe socialmente
succubi di un sistema da cui fino ad oggi, nonostante ne
subiscano i catastrofici effetti, sono stati tenuti
fuori.
Per facilitare questo tipo di azione si definiscono
accordi internazionali in cui si permette la razzia di
risorse e si abbattono le difese delle economie locali
nei confronti dei prodotti di importazione. A seguito
del Nafta (trattato di libero scambio tra Usa, Canada e
Messico) il Messico ha aumentato le importazioni
alimentari dal 29% del 1992, al 43% del 1996. In 18 mesi
di Nafta 2,2 ml di messicani hanno perso il lavoro e 40
ml sono divenuti poverissimi.
Questo è ciò che comporta il “mangiare a buon mercato”,
slogan delle multinazionali dell’alimentazione e
dell’agricoltura industrializzata: vuol dire creare un
mercato dove prima non c’era, vuol dire dividere la
popolazione in una parte che ne può usufruire e una
parte che ne è esclusa.
I mercati locali sono deliberatamente distrutti per
costruire il monopolio dell’agricoltura e
dell’alimentazione, forzando gli individui e le comunità
ad aderire al mercato globale; cosicché gli agricoltori
sono stati derubati della libertà di scegliere che cosa
produrre, i consumatori della libertà di scegliere cosa
mangiare.
Si sta perdendo l’autonomia alimentare delle comunità:
chi produce il cibo non mangia e, come è stato detto per
il Messico, “mangiare a buon mercato grazie alle
importazioni per i poveri vuol dire non mangiare
affatto”.
Che cosa mangiamo
L’alimentazione mondiale si
sta fortemente omogeneizzando su alcuni tipi di
prodotto. In questo tendere alla omologazione si stanno
privilegiando alimenti che, a parità o a minore capacità
nutritiva, per la loro predisposizione necessitano di un
maggiore impegno di risorse.
Il tipo di cibo che viene consumato determina delle
precise condizioni ambientali e sociali sia nei luoghi
di produzione che di consumo, e la scelta di alimenti
energivori comporta un peggioramento delle condizioni
complessive ambientali e sociali del pianeta.
Un abitante dell’Asia mediamente consuma tra i 130 e i
180 kg di cereali l’anno, mentre uno statunitense medio
circa 1.000 kg/a, di cui 80% non direttamente ma
attraverso il consumo di carni; il primo consuma 56 gr
di proteine al giorno, di cui 8 gr di origine animale,
il secondo 102 gr di proteine al giorno (quantità molto
superiore a quelle indicate come ottimali dalla FAO) di
cui 70% di provenienza animale.
Per produrre 1 kg di carne si usano 12 kg di cereali e
1000 litri d’acqua, un grande impegno di risorse per
ottenere meno di 50 kg di proteine animali consumando
790 kg di proteine vegetali. Se ad esempio al mondo
tutti fossero vegetariani (come lo sono forzatamente
centinaia di milioni di abitanti del terzo mondo) la
fame sarebbe sconfitta; se ad esempio si dimezzassero i
600 milioni di tonnellate di cereali impegnati per
l’allevamento bovino, con l’altra metà si potrebbero
nutrire quasi un miliardo di persone.
Ma non è solo un problema relativo al tipo di
alimentazione, ma anche a quello della qualità degli
alimenti, ed in questo il caso della carne bovina è
esemplificativo. Per programmare la nascita dei vitelli
in ragione delle richieste del mercato, alle fattrici
vengono iniettati farmaci per far giungere l’estro nel
periodo desiderato e sincronicamente a tutta la mandria.
I vitelli appena nati vengono castrati, e, dopo poco,
tolti alle madri e posti in box di misure ridottissime.
Agli animali vengono estirpate le corna (per non
ferirsi). Gli vengono somministrati diffusamente
steroidi anabolizzanti, per aumentare il livello di
ormoni, che garantiscono una maggiore capacità di
sintetizzare proteine e fare crescere i tessuti
muscolari e l’adipe (dal 5% al 20% in più di peso), ed
estradiolo, testosterone, progesterone. Nel 1988, negli
Usa, al bestiame di allevamento sono state somministrate
circa 6800 tonnellate di antibiotici per evitare il
diffondersi di epidemie negli spazi ristretti e
sovraffollati delle stalle; questa pratica lascia
residui nella carne macellata, residui che vengono
ingeriti dall’uomo e comportano assuefazione agli
antibiotici. Il mangime degli animali è pieno di
erbicidi e pesticidi (tale contaminazione costituisce
l’11% del rischio totale di cancro per cause
alimentari). Ai mangimi tradizionali vengono aggiunti
altri materiali: alcuni allevamenti addizionano sterco
degli allevamenti di pollame, altri rifiuti industriali
o olii esausti, altri sperimentano cartone, carta da
giornali, cemento, il tutto per ingrassare le bestie più
rapidamente e ridurre i costi. Nella Kansas State
University hanno condotto sperimentazioni di un mangime
plastico sostitutivo della fibra vegetale: pallini di
etilene e propilene che dopo la macellazione possono
essere recuperate dall’abomaso delle bestie, fuse e
riciclate. Per permettere un livello di igiene
all’interno degli allevamenti intensivi che eviti
epidemie, le stalle, e frequentemente le aree intorno ad
esse, vengono irrorate di insetticidi altamente tossici.
Al peso ideale, che cambia a secondo le razze, e nel
minor tempo possibile, l’animale viene macellato e
smontato industrialmente.
Contenente
Gli alimenti sono trasformati per permetterne
una migliore commercializzazione ed un maggiore
profitto. Senza andare in quegli ambiti che
afferiscono alla mistificazione dei cibi, alla
frode alimentare, quali i casi del pollo alla
diossina o della mucca pazza, di seguito
stiliamo un breve e incompleto elenco sulle
sostanze presenti in alcuni cibi che fornisce
un’idea esemplificativa di cosa ci sia
all’interno delle confezioni alimentari. Nella
carne si trovano residui dei pesticidi
utilizzati nelle coltivazione dei foraggi e
residui di farmaci (estrogeni, androgeni,
progestinici e beta-antagonisti) utilizzati per
fare crescere in fretta la massa muscolare;
negli insaccati e nella carne in scatola, oltre
ai predetti, vi sono conservanti (nitriti,
nitrati e fosfati), tutte sostanze cancerogene.
Le banane raccolte acerbe e maturate a forza in
ambienti chiusi riscaldati, saturi di etilene,
prima della spedizione sono immerse in vasche
con antiparassitari, come il tiobendazolo che,
avendo una persistenza di 18-20 giorni, unito ai
residui dei trattamenti agricoli e assimilato
dalla pianta può essere ingerito. Nella
fabbricazione di gelati industriali si usa uno
spettro di ingredienti molto vasto e non sempre
composto di elementi innocui, quali
emulsionanti, stabilizzanti e coloranti. In una
vasta tipologia di alimenti è presente il
glutammato di sodio, un esaltatore di sapidità
che se ingerito in dosi eccessive (e la presenza
diffusa contribuisce a questo) può scatenare la
“sindrome da ristorante cinese”, mal di testa,
vampate e problemi circolatori; la sua
pericolosità aumenta per i bambini (negli Stati
Uniti è proibito per gli alimenti
dell’infanzia). Gli oli raffinati subiscono
processi che includono la compressione ad alta
temperatura e l’uso di solventi a base di
petrolio; per la loro decolorazione spesso si
usa soda caustica e candeggina; oltre alla
perdita di vitamine, enzimi ed elementi
nutritivi la permanenza di queste sostanze è
nociva. Le margarine sono derivate
essenzialmente da grassi vegetali ricavati
dall’olio di palma e di cocco e subiscono
trattamenti lunghi e complessi: candeggiati,
decolorati, idrogenati, dearomatizzati etc., con
manipolazioni anche strutturali. L’orzo e i
cereali sono quasi sempre provenienti da
coltivazioni intensive in cui si fa largo uso di
fertilizzanti, pesticidi, diserbanti.
|
I cibi transgenici
Attualmente
sono decine le specie transgeniche coltivate in
milioni gli ettari. Ma per quali cibi vengano
utilizzate non è dato sapere.
La concessione di brevetti che coprono tutte le
varietà geneticamente modificate di una specie
lascia nelle mani di un solo inventore la
possibilità di controllare quel che si produce
nelle aziende agricole e negli orti. Con un
tratto di penna è possibile azzerare la ricerca
e il lavoro di un numero infinito di produttori
che hanno operato nel tempo. Il sequestro
economico viene così legalizzato.
A parte la verifica degli effetti sulla salute
dell’uomo, per i quali occorre almeno una
generazione per manifestarsi, la diffusione su
vasta scala di prodotti transgenici produce
effetti micidiali riscontrabili su:
equilibrio ecologico, sottoposto ad una
condizione non prevedibile negli effetti
relativamente all’inserimento di mutazioni
artificiali mai sperimentate prima;
biodiversità, che è stato fino ad ora
elemento fondamentale di difesa e di
salvaguardia dell’uomo e dell’ambiente, ora
esposta alla omologazione delle varietà
genetiche; catena alimentare, all’interno
della quale verrebbero a penetrare geni mutati
che possono compromettere l’intera struttura
della catena, salute animale e umana,
relativamente alla quale sono già noti gli
effetti di reazioni allergiche imprevedibili,
nonché la debolezza degli animali transgenici,
soggetti a malattie e deformità anche mortali;
ordine economico mondiale, le sementi
transgeniche sono di proprietà delle industrie
produttrici, e quindi i contadini debbono pagare
loro i diritti relativi. I semi, anche quando
non sono sterili come avviene in alcuni casi,
non possono essere conservati e ripiantati, il
rischio sono multe insostenibili per gli
agricoltori. E’ evidente che questo proietta i
contadini in una condizione di completa
sudditanza al mercato imposto dai paesi
industrializzati, vedendo diminuire
ulteriormente la loro autonomia produttiva
mentre le grandi industrie accrescono i loro
profitti. |
Chi fa il cibo e chi lo
mangia
Non solo una questione di gusto
I prodotti alimentari sono sempre
maggiormente connessi ad una immagine; la loro forma, le
modalità di consumo, la tipologia del consumatore, il
mondo ideale in cui vengono consumati. Per cui le
merende mattutine possono richiamare la serenità
dell’inizio della mattinata di una famiglia o l’immagine
del single che si ristora prima di applicare la sua
efficienza; nelle forme pubblicitarie la città più
moderna o la campagna più tradizionale sono tutte
immagini di laboratorio, ricostruzioni idilliache per
evocare il contesto in cui la merce si consuma. Questi
contesti stimolano l’acquisizione.I prodotti alimentari
sono anche connessi ad una oggettistica: pupazzi,
regali, vincite che non sono strettamente collegati con
l’alimento ma che divengono richiamo per l’acquisto,
stimolano l’interesse ad ottenere, attraverso il consumo
di quell’alimento, qualche altra cosa.
Il cibo è come una mela stregata: mordendola si ottiene
un mondo diverso o un modo di vedere le cose
diversamente.
Il gusto indotto
Una volta acquisito il cibo
industrializzato garantisce un sapore. Il sapore può
essere il sapore del nulla, che caratterizza i cibi
dietetici e Light, o il sapore fantastico, di cui si
fanno gelati frizzanti, o sapori forti caratterizzati
come le patatine al pollo.
Ma sono sapori senza sapore, tutti ottenuti chimicamente
con inclusione di sostanze che eccitano il palato, non
derivanti dalle modalità, dalle tecniche, dalla
specificità del prodotto ma solo dall’aggiunta di
polverine.
Una quantità di prodotti differenti che si mostra
uniforme e vuota, finalizzata a creare dipendenza da
quel tipo di prodotto nello stesso modo praticato per le
sigarette.
Il mangiare inutile
Per millenni tutte le attività connesse
con l’alimentazione hanno interessato gran parte della
vita delle persone. Oggi i tempi di produzione e consumo
incidono minimamente sul tempo degli individui e oltre
ad essere marginali sono considerati un intralcio alla
svolgimento delle attività. Si mangiano cibi precotti
per risparmiare il tempo della preparazione. Ma l’azione
del mangiare si è estesa temporalmente: si mangia al di
là dei pasti, al di là delle necessità, per consumare,
per passare il tempo in attesa di mangiare: si mangia
inutilmente perché invogliati, martellati sul tema con
prodotti sempre più accorti a stimolare.
In Italia in media ogni cittadino ha bevuto, nel 1997,
133 litri di acqua minerale (8 mld di litri, 8 ml di
tonnellate, 800.000 TIR da 10 t sulle strade) mantenendo
179 aziende, 249 etichette, per un fatturato di 4.000
Mld di lire, poche migliaia di addetti: uno spreco di
energia enorme, un prelievo e una privatizzazione di un
bene comune inalienabile come lo è l’acqua.
L’ignoranza
Il consumatore ignora i processi
produttivi, i contenuti dei prodotti, chi li ha fatti.
Ogni confezione è una lettura per cercare di capire,
attraverso le scarse e microscopiche informazioni
scritte sulle confezioni, chi, come, dove, quando, che
cosa.
Mangiare come
Fuori casa. Negli USA vi sono più di
583.000 punti di ristorazione che servono ogni giorno
100 milioni di pasti. Il 42% della popolazione
statunitense mangia fuori casa almeno 1 volta al giorno.
L’industria della ristorazione ha un fatturato di 297
mld di dollari annui e ha 8 ml di addetti (in termini
occupazionali il più importante settore del paese).
Mangiare dove
Nei fast food statunitensi vengono
venduti ogni anno 6,7 mld di hamburger ma a Tokyo sono
stati venduti hamburger McDonald’s in quantità maggiore
che a New York.
Si intravede una diffidenza verso la fantasia del cuoco
(non c’è il coraggio di abbandonarsi alla capacità degli
altri, non si riconosce loro la capacità) e la ricerca
di una garanzia da manuale (la necessità di esigere
esattamente le garanzie industriali: pulito, preciso,
uguale).
Perché no al sistema
McDonald’s (ma anche agli altri simili)
· produzione industrializzata del cibo
· controlli di qualità igienica ma non della
qualità com plessiva del prodotto
· disinteresse verso le modalità produttive
(conservazione dell’ambiente e della comunità)
· enormi costi energetici per la mobilità delle
merci (le merci vengono da lontano su Tir), per
la gestione
delle strutture distributive (aria condizionata,
illuminazione ecc.), per i materiali (piatti,
bicchieri, posate di carta etc.)
· uniformazione dell’alimentazione mondiale
· connessione del cibo ai giochi (per i
ragazzini)
· sistemi di smercio educati ma alienati (tempi
di vendita e di confezionamento già programmati)
· promozione di una modalità di alimentazione
non salubre (salse, sapori forti, errato
rapporto tra grassi e carboidrati)
· pianificazione produttiva dell’alimentazione
(tempi di consumo programmati)
· sostituzione delle forme di alimentazione
locale, sostenuta dalla pubblicità
· promozione di una modalità di consumo non
connessa alla cultura locale
· pratica di un modello di alimentarsi che vuole
essere un modello sociale
· uso di alimenti transgenici
· uso di alimenti di cui il fruitore non conosce
l’origine (È il marchio del distributore che
garantisce la qualità del processo)
L’hamburger base McDonald’s pesa 45,36 gr, ha un
diametro di 9,68 cm, il panino ha un diametro di
8.89 cm, la cipolla pesa 7 gr. In tutto il
mondo. In tutte le ore. Tutti i giorni.
|
Qualità del prodotto
Il tipo di
alimentazione sostenuto dal modello globale sembra
garantire la qualità delle merci. In realtà ne
garantisce solo l’igiene e la rispondenza ad un teorico
prodotto precedentemente definito (caratteristiche
tecnico-funzionali), assumendo queste come uniche
significative variabili atte a definire la qualità
complessiva di un prodotto commercializzato (tutte le
altre rientrano in procedure volontarie e poco diffuse,
quali i marchi, le certificazioni, etc).
Da ciò scaturisce un tipo di alimentazione che, se da
una parte riduce l’incidenza di alterazione delle merci
in fase di fabbricazione e distribuzione, dall’altra non
garantisce la salubrità della merce stessa (è velenosa
ma disinfettata), e così l’alimentazione contemporanea
uccide più di quanto non facessero i metodi e i prodotti
tradizionali, ma lo fa legalmente. Uccide in maniera più
adeguata a quelle che sono le richieste di garanzia
delle grandi produzioni: più lentamente, per accumulo,
in modo che difficilmente si possa risalire al
responsabile, perché, in realtà, ad essere colpevole è
l’intero sistema alimentare così inteso.
La qualità voluta corrisponde alle richieste di
industrializzazione dei processi produttivi a scapito
delle produzioni locali e tradizionali. Così non si
possono immettere sul mercato salami essiccati in
cantina, cetrioli ricurvi, mozzarelle non in busta, etc.
Per mantenere l’esistenza di prodotti quali il lardo di
Colonnata, la caciotta di Fossa, il gelato artigianale e
molte altre varietà di cibi, in sede di Comunità Europea
si sono sostenute battaglie: se si fossero dovuti
adeguare alle norme di qualità del prodotto per essi non
vi sarebbe stato più spazio.
Se a questo si aggiungono le ripercussioni derivanti
dalle distorsioni del sistema produttivo, il limite
imposto alla cultura alimentare locale è ancora più
evidente. E’ il caso delle restrizioni alla vendita di
interiora dei bovini imposto a seguito della mucca
pazza, limitazione che ha destrutturato, per esempio, la
cucina tipica romana fondata per gran parte sull’uso
delle “frattaglie” (pajata, coratella, budello,
fegatelli, etc.).
Attraverso questi sistemi si danno garanzie alle grandi
industrie, aumentando le difficoltà dei piccoli e medi
produttori che non riescono a ricondurre le proprie
modalità lavorative alle regolamentazioni (solitamente
non rispondono alle richieste di asetticità e alle
procedure di controllo di qualità del prodotto). Così si
eliminano dal mercato i piccoli produttori e migliaia di
prodotti diversi, strettamente connessi ai luoghi, alle
abitudini, all’ambiente e alle comunità, e si allarga il
mercato dei cibi uniformi e industrializzati.
Due “piccoli favori”
La normativa di qualità definita dalla legge
europea del marzo del 2000 autorizza le
industrie a produrre cioccolato con l’aggiunta
del 5% di “materia grassa vegetale”. Questa
condizione ha permesso di ridurre la quantità di
cacao presente nel cioccolato e di sostituirla
con additivi vegetali vari. E’ evidente che
tutto questo si ripercuoterà sulle esportazioni
di cacao dai paesi del terzo mondo, oltre che
sulla qualità del cioccolato, ma permetterà alle
industrie europee di “risparmiare” circa 200
milioni di dollari in acquisto di cacao.
Nonostante siano state predisposte norme europee
e nazionali che obbligano le industrie
alimentari a dichiarare sulle confezioni l’uso
di OGM (organismi geneticamente modificati),
dato che esse hanno verificato un’ostilità da
parte degli acquirenti nei confronti di questi
prodotti, molte normative sono state sospese e
comunque nessun paese attua le verifiche del
caso. |
La qualità permette un po' di
diossina nel pollo
Nel 1999 furono trovate in alcuni polli,
provenienti da allevamenti intensivi belgi,
quantità di diossina superiori a quelle
consentite. La diossina è una sostanza
fortemente cancerogena anche in misure
limitatissime.
Al di là della vicenda e dei modi con cui gli
operatori, pur consapevoli del rischio, immisero
ugualmente sul mercato le carni che sapevano
contaminate e di come le amministrazioni
pubbliche e i garanti della qualità tentarono in
Belgio e in Olanda di minimizzare e non
perseguire le aziende interessate, è utile
comprendere perché vi era diossina presente
nelle carni del pollame.
All’interno delle farine per animali sono
inserite materie grasse al fine di accelerare,
con il loro contributo di proteine, la crescita
degli animali. Nel caso dei polli queste
sostanze permettono di guadagnare una quindicina
di giorni sull’allevamento, rendendo possibile,
a parità di peso, l’abbattimento dopo sei
settimane invece di otto. Il sapore e la qualità
delle carni peggiora ma il profitto aumenta
significativamente.
Vi sono aziende specializzate che raccolgono e
producono grassi che poi vendono ai produttori
di alimenti per animali. Nel caso dei “polli
alla diossina” era la Verkest, azienda che ha
coperto un ruolo fondamentale nella produzione
intensiva dei polli di tutti i Paesi Bassi e non
solo, e nota per pratiche produttive vergognose.
L’operato della Verkest era finalizzato a
ridurre i costi del prodotto finale e ad
aumentare il rendimento della farina. Nel fare
questo integrava i grassi animali prelevati ai
macelli con additivi di diversa natura, ad
esempio con grassi vegetali provenienti da oli
di frittura. Questi possono contenere diossina
in quanto bruciano a temperature tali per cui in
essi si sviluppa, e sono vietati dalle norme.
Tant’è che l’azienda comunque vendeva un
prodotto garantito di esclusiva origine animale.
L’aumento dei prezzi dei grassi animali spinse
nel tempo ad aumentare la presenza tanto di oli
di frittura quanto di altre sostanze, ed in
particolare in una partita di grassi e farine si
aggiunsero 2.200 litri di oli derivati da
perdite dei macchinari, oli già da tempo
proibiti perché contenevano diossina e piralee.
L’insieme di questi comportamenti fece sì che la
presenza di diossina divenne superiore alle
quantità consentite: un percorso tortuoso,
sebbene noto ad un gran numero di operatori del
settore che usano pratiche consimili,
abbondantemente indirizzato dalla grande
tolleranza che si ha nei confronti di sostanze
estranee e spesso nocive consentite per
l’alimentazione animale. |
Mangiare normalmente
Nei paesi industrializzati, chi mangia
“normalmente” introduce ogni anno nel suo
organismo più di 12 chilogrammi di additivi
chimici e conservanti.
Solo pochi di questi sono stati studiati
attentamente relativamente ai loro effetti sulla
salute. Su 72.000 sostanze chimiche circolanti
solo 3.000 hanno alla base studi a questo
riguardo, e spesso questi studi sono stati
verificati solo sugli animali. |
La biunivoca risposta dei consumatori
Le risposte date dai consumatori del nord del mondo a
questo mercato non sono omogenee. Dalla diffusione di
tale tipo di mercato sembrerebbe che siano incapaci di
interpretare i processi in corso: acquistano secondo le
indicazioni della pubblicità, non riescono a vedere cosa
c’è dietro le merci comprate, né si interessano della
qualità alimentare delle stesse, e quando ne hanno
possibilità economica seguono entusiasticamente passo
passo le indicazioni di acquisto al di là della reale
utilità.
Le informazioni derivate dalle indagini sociali mostrano
una popolazione divisa tra un atteggiamento di grande
disinteresse e una capacità di attenzione molto
fastidiosa per i produttori. Il ritiro di un prodotto
dal mercato, ad esempio dopo il caso dei polli, causò la
diminuzione del consumo del 30%, che però nel giro di
qualche mese tornava agli standard precedenti. La stessa
flessione nella vendita della carne, in seguito a mucca
pazza, è stata di gran lunga inferiore nel lungo periodo
alla qualità delle garanzie date dal settore circa il
cambiamento dei processi produttivi che sono causa della
malattia. In una indagine fatta in Francia nel novembre
del 1999, la preoccupazione sulla qualità dei cibi si
riscontrò molto più presente tra le persone che vanno
dai 50 ai 65 anni ed in assoluto meno presente tra le
persone con meno di 35 anni.
In realtà ci sono vari segnali nel comportamento dei
consumatori, specialmente in Europa, che fanno
intravedere uno scenario meno omogeneo di quello che si
vorrebbe presentare. La diffidenza per i transgenici ha
reso necessario affossare, da parte dei produttori, le
norme che li obbligavano alla dichiarazione e,
nonostante la pubblicità passata come informazione
sull’uso a scopi “sociali” degli alimenti trasgenici, la
loro diffusione attualmente è stata rallentata proprio
dal comportamento dei consumatori.
Un’altra indicazione positiva è la continua crescita del
mercato dei prodotti biologici, relativamente ai quali
si dovrà fare attenzione nel futuro che non si speculi
su quello che potrebbe diventare un mercato appetibile
per molti. Sono questi i segnali che fanno intendere
come i consumatori non siano omogenei nelle loro
risposte e che lasciano intravedere come si possa
svolgere una funzione di ostruzione e ridimensionamento
del mercato globale dell’alimentazione evidenziandone le
aberrazioni.
E’ una situazione ancora conflittuale tra due modelli
diversi di alimentazione e di vita individuale e
sociale, e proprio su questo tema, così profondamente
connaturato con la vita privata e le abitudini culturali
e sociali di ciascuno, che la popolazione anche dei
paesi del nord del mondo ha una reazione, forse
inaspettata, e attua una resistenza, forse
inconsapevole, verso un modello che intacca abitudini e
culture, resistenza che potrebbe permettere la
definizione di modelli sociali altri da questi.
Le provviste
Dopo la caduta delle Torri Gemelle, a NY vi è
stato un accaparramento dei generi alimentari
per una diffusa, quanto forse esagerata,
preoccupazione. Una radio ha trasmesso l’elenco
di merci comprate da un signore: 40 confezioni
di patatine fritte, 20 confezioni di latte, 10
confezioni di cereali, 5 confezioni di salse,
...
Una palese perdita di buon senso nel riconoscere
quali sono gli alimenti indispensabili.
|
I grandi produttori
Le politiche aziendali su
vasta scala sono le principali responsabili delle
condizioni alimentari mondiali, sia per quanto attiene
l’iniqua distribuzione degli alimenti, sia per la
qualità dei cibi, sia per le condizioni ambientali e
sociali che la produzione e la distribuzione comportano.
Le grandi multinazionali dell’alimentazione cambiano
carattere a seconda se sono strettamente collegate al
prelievo delle risorse, in tal caso esercitano pressioni
sociali e ambientali o direttamente o indirettamente
sulle comunità locali, o se sono produttrici di merci
che non hanno bisogno di un grande quantitativo di
risorse qualificate.
Quasi tutte le aziende comunque incidono, con la loro
ricerca di nuovi mercati e profitti, negativamente sulla
società e sull’ambiente e grandi responsabilità possono
essere loro attribuite.
Dal confronto tra le tre aziende presentate nel box è
evidente che quelle che hanno un processo di produzione
più semplice e commercializzano un prodotto meno
necessario sono quelle che guadagnano di più in termini
di rapporto tra fatturato e persone occupate.
Le politiche internazionali ed i sussidi
Le politiche internazionali nel dopoguerra si sono
costantemente interessate dell’agricoltura. Quasi tutte
hanno avuto come obiettivo quello di ridurre l’esodo
dalle campagne attraverso l’innovazione delle modalità
produttive e la composizione del mercato.
Negli anni settanta e ottanta ogni progetto agricolo di
organismi internazionali era connesso ad un impianto di
trasformazione agroindustriale, ovvero tale da essere in
condizioni di immettere prodotti sul mercato. In
quest’ottica le tecniche tradizionali e l’autonomia
alimentare delle comunità non sono state l’oggetto
d’interesse quanto la capacità produttiva della comunità
stessa, e l’aver perso i caratteri locali ha reso questi
interventi delle soluzioni ibride, incapaci di sostenere
la concorrenza agroalimentare del mercato e incapaci di
supportare alimentarmente la comunità insediata.
Le politiche internazionali hanno interessato
principalmente i paesi del terzo mondo, nell’ambito di
quella politica di sostegno che veniva praticata quando
il mondo era diviso in due blocchi per mantenere dalla
propria parte i paesi. In questo sostenere tale modello
l’intervento internazionale ha contribuito a
destrutturare le comunità locali: attraverso la ricerca
dell’aumento della produttività in termini di mercato ha
esteso di fatto il controllo della produzione delle
grandi compagnie.
Ed in questo le politiche agricole e alimentari
comunitarie non hanno fatto differenza. Tutta
l’agricoltura europea, il cui problema è stato quello
della riduzione delle superfici agricole e degli
addetti, dal dopoguerra è stata ed è ancora sostenuta da
sussidi per attività che rispondessero ai criteri della
produttività, che si relazionassero alla necessità di
mercato globale, che omogeneizzassero i prodotti. Essa
ha dunque sostenuto un’agricoltura industrializzata,
monocolturale, disinteressata all’ambiente, inquinante,
energivora, con un ridotto uso di manodopera, con un
eccesso di produzione quantitativa (il problema della
sovrapproduzione ha colpito l’intero settore per anni;)
una alimentazione delle grandi quantità e uniforme
nutrita con prodotti non più connessi alle tecniche,
alle modalità ed alle necessità locali.
L’esito sociale è stato l’ulteriore riduzione di uso di
manodopera e la creazione di un profitto in gran parte
concentrato nelle aziende di medie grandi dimensioni,
nonché l’asservimento totale delle produzioni alle
richieste delle grandi compagnie di alimentazione e il
disinteresse nei confronti delle necessità espresse
dalla società.
Tre tipi di aziende a
confronto
Del Monte, sede principale
Florida, attiva in 50 paesi, 3.500 mld di
fatturato, impiega 20.000 occupati (0,175 mld a
occupato).
Produce e vende a livello mondiale frutta
fresca: banane, ananas, meloni, mele. Possiede
circa 25.000 ettari di piantagioni nei paesi
dell’America Centrale e Meridionale e nelle
Filippine.
Non garantisce la libertà sindacale nelle
aziende di produzione, licenzia e riassume i
dipendenti stagionalmente, e quindi in
condizioni salariali peggiori, licenzia e non
riassume i sindacalisti. Dopo l’opposizione ad
un licenziamento illegale di 900 dipendenti in
tre piantagioni (raccolta data in appalto a
ditte che poi hanno riassunto a condizioni
peggiori i dipendenti licenziati, salvo i
sindacalisti), 200 uomini armati hanno attaccato
un’assemblea di dirigenti del sindacato
bananiero intimidendone i partecipanti. Le
aziende sono vigilate da guardie armate che
operano uno stretto controllo; vi è un controllo
sociale dei lavoratori che si estende anche, al
di fuori del luogo di produzione, nei villaggi e
nelle abitazioni.
Nel 1999, nelle piantagioni di ananas di Del
Monte in Kenya, un bracciante guadagnava 3000
lire al giorno, pari al costo di 3 kg di farina.
La politica attuale dei grandi produttori, tra
cui la Del Monte, è quella di cedere la gestione
della produzione in modo da rinfrescare il
proprio aspetto commerciale appesantito da anni
ed anni di prepotenze sulle popolazioni locali.
Utilizza pesticidi classificati come “molto
pericolosi” dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità, e di cui l’utilizzo è in parte vietato
in Europa. L’elevata quantità di pesticidi e di
altri trattamenti per le banane contamina i
suoli e i fiumi, avvelena le acque ed è nociva
alla salute degli addetti.
Uno dei più pericolosi pesticidi è il DBCP,
vermifugo che in Costa Rica e Honduras ha reso
sterili circa 4000 lavoratori.
Coca Cola sede principale Atlanta.
Fattura circa 60.000 mld e impiega 29500 persone
(2 mld a dipendente), ha filiali in 30 paesi.
Possiede i marchi Schweppes, Canada Dry,
Dr.Pepper, Fanta, Kinley, Sprite, Beverly,
Bonaqua, etc. Ha accordi commerciali con Nestlè
e Danone.
Utilizza, in alcuni prodotti dietetici,
aspartame, sostanza che se assunta in grande
quantità può causare danni al cervello, in
particolare nei bambini e ancora di più nei
feti; l’uso di un fungicida, rimasto nelle
lattine come residuo delle lavorazioni
precedenti, ha nel 1999 portato
all’intossicazione e ricovero di più di 90
persone in una settimana e al ritiro dei
prodotti in alcuni paesi europei.
Ha avuto atteggiamenti scorretti nelle relazioni
sindacali, finalizzati anche a indebolire le
organizzazioni dei lavoratori, utilizza il
licenziamento di massa per regolare la
produzione, ha messo in atto alcuni
comportamenti (poi multati) tesi a danneggiare
la concorrenza.
La Nestlè è presente in 81 paesi,
è al 36° posto tra le società a maggior
fatturato, è la maggiore società agroalimentare
del mondo, fattura circa 100.000 miliardi e
impiega 232.000 persone (0,431 mld a occupato),
possiede 522 stabilimenti produttivi; la sua
produzione è di 28% di bevande, 27% derivati del
latte, 26% piatti pronti e ingredienti
alimentari, 14% dolciumi e cioccolato, 5%
prodotti farmaceutici. Possiede tra gli altri i
marchi Friskies, Felix, Fido, Kit Kat, Vitto
Doko, Claudia, Giara, Giulia, Levissima, Limpia,
Lora Recoaro, Panna, Pejo, Perrier, Pracastello,
San Bernardo, San Pellegrino, Sandalia, Tione,
Ulmeta, Vera, Acqua Brillante Recoaro, Beltè,
Chinò, Gingerino, Mirage, Nestea, One-O-One,
Sanbitter, After Eight, Alemagna, Baci,
Ciocoblocco, Galak, Motta, Perugina, Quality
Street, Rowntree Macintosh, Smarties, Le ore
liete, Lion, Orzoro, Cheerios, Chocapic,
Buitoni, Pezzullo, Surgela, Mare fresco, La
valle degli orti, Mio, Fruttolo, Antica
gelateria del corso, Berni, Sasso, Maggi,
Vismara, ...
La Nestlè fa parte dell’associazione industriale
EuropaBio il cui scopo è intervenire a tutti i
livelli per legittimare l’impiego delle
biotecnologie; dichiara di essere convinta della
capacità delle biotecnologie di migliorare la
qualità nutritiva degli alimenti... ”tuttavia
nei paesi in cui l’opinione pubblica rifiuta gli
OGM, Nestlè rispetterà le scelte dei
consumatori, e nei limiti delle possibilità
offerte dalla tecnica, offrirà prodotti esenti
da OGM” (Ethical Consumer 60/99); dichiara di
non utilizzare soia geneticamente modificata
negli alimenti in polvere per l’infanzia ma nel
maggio del 2000 si trovarono proteine isolate di
soia geneticamente modificata nel prodotto Alsoy
(alimento per l’infanzia). Un risparmio che per
dimensione d’impresa, costo dell’alimento e
sensibilità del fruitore avrebbe potuto essere
evitato.
La Nestlè, per vendere maggiori quantitativi di
latte in polvere, trasgredisce il Codice
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
attraverso informazioni distorte e promozioni
che mirano alla sostituzione del latte materno
con latte di produzione anche in situazioni
economiche e sanitarie estreme (nei paesi in via
di sviluppo, ad esempio, dove l’acqua per
diluire le polveri è inquinata).
Nel marzo 2000 è stata condannata dall’Antitrust
italiano insieme a Milupa, Nutricia, Heinz,
Humana e Abbott per violazione delle leggi sulla
concorrenza, avendo congiuntamente orientato la
vendita dei prodotti solo nelle farmacie (con
una triplicazione del prezzo) e dividendosi il
mercato del latte in polvere fin presso ospedali
e cliniche con distribuzioni gratuite iniziali.
Ha finanziarie nelle Bahamas, Panama, Svizzera,
Lussemburgo. |
L’azione della FAO
La Fao (Food and Agricultural Organisation) è
una agenzia dell’ONU. Raccoglie informazioni sui
livelli di alimentazione mondiale e sugli
effetti che questi comportano nelle comunità
locali, denuncia situazioni di squilibrio,
predispone le politiche internazionali,
interviene per migliorare le condizioni
riscontrate sia con azioni direttamente
finanziate sia attraverso la sensibilizzazione
delle politiche degli stati.
Il limite dell’organismo è che esso si muove
all’interno dei criteri operativi del modello
vigente e quindi non riesce a definire uno
scenario effettivamente alternativo risolvendo,
quando possibile, le situazioni locali
all’interno dei meccanismi di mercato e degli
interessi vigenti.
L’azione della Fao si inserisce sempre nel
contesto delle politiche nazionali che regolano
l’uso dei territori e che controllano ambiti
geografici e società insediate.
Ad esempio la FAO negli anni settanta ha
incoraggiato i paesi in via di sviluppo a
produrre cereali per l’alimentazione animale,
sostituendo così produzioni tradizionali e
sostenendo la politica di sudditanza ad un
mercato non controllato da quei paesi, e questo
solo a fronte di una domanda di quel tipo di
merce momentaneamente esistente sul mercato.
Gli interessi dei produttori recentemente hanno
marginalizzato l’azione della FAO: da un lato
attraverso la riduzione dell’attenzione dei
paesi ricchi nei confronti del benessere di
quelli poveri, dall’altro dando maggiore spazio
operativo al WTO (organizzazione mondiale del
commercio). Nonostante ciò e nonostante
l’incapacità di attuare politiche che
inficiassero gli interessi delle grandi
produzioni e che sostenessero prioritariamente
l’assetto culturale, sociale, ecologico locale,
la FAO è comunque un soggetto che ha svolto un
ruolo propositivo e critico ed è soggetto
istituzionale all’interno del quale possono
sussistere diverse interpretazioni del modello
di sviluppo perseguibile (cosa che non è
presente, ad esempio, nel WTO). |
Un esempio di una politica
errata
Esemplificativo dell’appiattimento verso criteri
produttivistici è l’intervento attuato nel Sahel
negli anni settanta e sfociato nella tragedia
ambientale e sociale degli anni Ottanta.
Il Sahel è una regione arida a sud del deserto
del Sahara. In essa era insediato stabilmente un
numero ridotto di individui la cui principale
attività era l’allevamento del bestiame.
La quantità e il tipo delle attività presenti
erano regolati dalla quantità di acqua
disponibile. L’acqua veniva prelevata da pozzi
profondi al massimo dieci metri. Il progetto
ipotizzò di aumentare la quantità delle acque
prelevate approfondendo i pozzi e
meccanizzandoli.
Questo rappresentava il superamento di quelle
condizioni che limitavano lo sviluppo dell’area.
L’aumento dell’acqua rese possibile l’aumento
dei capi di bestiame allevati, produsse maggiore
ricchezza e richiamò altra popolazione in quelle
aree.
In breve tempo il numero degli abitanti e dei
capi di bestiame si incrementò: solo tra il 1975
e il 1984 nell’area del Sahel la popolazione
bovina aumentò del 25%.
Il sistema originario era stato sostituito con
uno più produttivo che però, pur non consumando
tutta l’acqua disponibile, era testato per una
quantità media di acqua che non teneva conto
delle possibili grandi siccità.
Quando si manifestò il fenomeno siccitoso il
sistema collassò; l’acqua prelevata secondo le
nuove necessità si esaurì. Ciò provocò una
carestia spaventosa con la morte di centinaia di
migliaia di persone e di animali (250.000 morti
di fame nelle siccità del 1968-73 e del
1982-84), che indusse un massiccio esodo e
completò un processo di desertificazione così
lungamente ostacolato dalle modalità originarie
di uso delle acque.
Il limitato consumo delle acque presente nel
sistema originario e il ridotto numero di
popolazione e bestiame insediato erano in realtà
il modo per mantenere quel sistema al massimo
livello di sviluppo materiale consentito da
quelle condizioni ambientali, ma la tracotanza
della modernità e di erronee immagini di
sviluppo non avevano fatto prendere in
considerazione tali condizioni. |
Le strategie
La presenza di profitti
elevati, di un apparato di ricerca scientifica sostenuto
dagli interessi economici, la diffusione dei due
principi liberisti, di non interferire con chi produce
denaro e di consentire ogni azione se non esplicitamente
vietata, l’uso strumentale del mercato per finalità
geopolitiche per il controllo delle risorse da parte dei
paesi ricchi, e dei loro imprenditori, rende difficile
ipotizzare il miglioramento della situazione riscontrata
attraverso l’esclusiva azione regolamentativa.
Nella critica diffusa al sistema produttivo
contemporaneo è necessario estendere l’attenzione dal
mondo sociale della produzione al mondo sociale
dell’utilizzazione, e ciò è ancora più indispensabile
nel nord del mondo, dove si concentrano i consumi e dove
meno evidenti, seppur sempre presenti, sono i guasti
sociali della produzione.
Sono questi ambiti che creano e sostengono la domanda di
merci e quindi l’accumulo di ricchezze da parte delle
multinazionali, sono questi ambiti che sostengono il
modello vigente.
Scegliere un alimento invece di un altro comporta di
fatto il sostegno al modello produttivo e quindi sociale
che definisce quella merce, e togliere anche un piccolo
sostegno contribuisce direttamente a indebolire il
modello.
Inoltre dalla critica dell’ambito del consumo è
maggiormente semplice operare una critica al modello
sociale e ambientale produttivo e sociale in quanto la
critica si fonda su un diffuso ed ancora riscontrabile
interesse alla salute da parte della popolazione e alla
comprensione di concrete possibilità alternative.
Al fianco della denuncia e della critica politica,
l’azione diretta sulla distribuzione e
commercializzazione è dunque fondamentale per garantire
le comunità locali e tornare a gestire un rapporto tra
chi produce e chi consuma, rapporto che gli interessi
delle multinazionali vogliono recidere.
Numerose sono le iniziative che si stanno attuando: dal
commercio equo e solidale, alla banca etica, dalla rete
di produttori biologici, alle volontarie attenzioni
poste da alcuni distributori alla qualità sociale e
ambientale dei cibi commercializzati, ai gruppi
d’acquisto.
Oltre a ciò è anche necessario ricomporre una relazione
con i soggetti locali. In Italia vi sono 3 ml di
autoproduttori, ovvero di persone che affiancano alla
loro attività principale la cura di un orto da cui
traggono alimenti che utilizzano direttamente o
distribuiscono limitatamente a pochi soggetti familiari
e amici. Questa è una condizione anomala nel panorama
dei paesi ricchi e denota tutta la capacità di
resistenza della popolazione del paese ai modelli che
vengono imposti.
E’ necessario mantenere in vita questa relazione con la
terra e con prodotti di sicura qualità di cui si conosce
il produttore, il terreno, il modo di coltivazione, le
semenze e l’interesse dello stesso produttore ad
ottenere alimenti di qualità di cui vantarsi; è questo
un dato fondamentale per permettere il superamento dello
stato di appiattimento a cui le multinazionali ci
spingono.
Ogni autoproduttore è una spina nel fianco del modello
commerciale attuato, in quanto erode parte del mercato
potenziale dell’alimentazione e mantiene una capacità di
autoalimentarsi che appunto il modello vuole eliminare
per raggiungere la totale dipendenza delle comunità
dalle merci commercializzate.
L’azione da praticare dunque riguarda molte scelte e
molte attività quotidianamente svolte: l’acquisto al
mercato delle erbe e non al supermercato, la scelta del
supermercato che offre garanzie di qualità ambientale,
che non commercializza prodotti transgenici, l’acquisto
diretto da colui che produce, la predisposizione di un
piccolo orto in cui autoprodurre qualche cosa, anche
poco, il ricorso alle catene commerciali a cui
direttamente partecipino i produttori del terzo mondo.
Ma la scelta può essere volta sia alla selezione di una
merce voluta sia alla decisione di non acquistare una
merce, ovvero al boicottaggio delle merci.
Negli ultimi anni sono stati operati boicottaggi alla
Shell, alla Del Monte e sono in corso quelli alla Nike e
alla Nestlè e a molte altre aziende di dimensioni
ridotte. I frutti di queste azioni si rileggono
immediatamente, perché il commercio risente direttamente
della perdita di immagine, ma anche in termini di
vendite di prodotto.
In seguito ai boicottaggi, le aziende non sempre
arrivano a definire delle soluzioni condivisibili ma
comunque modificano il loro comportamento.
Infine, sono circa 180.000 le varietà di alimenti
provenienti da gran parte del mondo che si possono
trovare sugli scaffali dei supermercati. Ma sono una
piccola parte della grande quantità di produzione
locale. Nel momento in cui passano dal consumo locale al
supermercato questi prodotti perdono le loro
caratteristiche, si uniformano alle richieste della
produzione e della distribuzione di massa, incominciano
a contenere tutti le stesse sostanze, per essere
conservati incominciano a subire gli stessi processi
produttivi, per essere igienici, per ottenere le
quantità volute, incominciano ad assumere forme omogenee
in relazione alla richiesta del mercato. E’ su questo
che bisogna porre attenzione...
Allora come attenzione particolare bisogna andare alla
definizione di una modalità di nutrimento che non
avvantaggi i grandi produttori, modalità che, guarda
caso, comporti contemporaneamente un aumento della
qualità degli alimenti. E’ dunque un’azione che fa bene
alla nostra saluta ed è volta al sostegno delle
comunità, salvaguarda l’ambiente e lede gli interessi
delle multinazionali: è il massimo del piacere.
La costituzione di una rete di
comercio alternativo: il caso delle Banane
Uno dei passaggi fondamentali per garantire la
qualità e la diversità dell’alimentazione, la
vita delle comunità produttrici, l’attenzione
verso condizioni di lavoro e ambientali che non
alterino gli ecosistemi e non danneggino le
comunità è la gestione o il controllo della rete
distributiva e di commercializzazione.
Attraverso di essa infatti si possono favorire
modalità produttive adeguate divenendo
committenza di una produzione qualificata e di
soggetti autonomi e si possono organizzare
sistemi di vendita diretta o semidiretta
connettendo maggiormente i fruitori con i
produttori.
Questo sistema, praticato dalle reti di
commercio equo e solidale in gran parte del
mondo occidentale garantisce un maggiore utile
ai lavoratori, che non operano sotto le
multinazionali ma in diretto contatto con il
mercato.
Caffè, tè, prodotti artigianali, riso sono già
da tempo commerciati e i risultati sono
clamorosi: si creano cooperative che riescono ad
ottenere guadagni nettamente superiori a quelli
non garantiti dalle multinazionali, cooperative
di persone che possono programmare la loro
esistenza in ragione di una domanda stabile,
conosciuta, con interessi comuni, si riescono a
ridurre gli effetti negativi sull’ambiente con
produzioni meno impattanti e di qualità.
La commercializzazione delle banane è stata
avviata da poco in ragione della difficoltà di
fare pervenire un alimento che, in quanto
fresco, ha tempi di distribuzione ridotti.
Nelle “repubbliche delle banane”, gli stati del
centro America in cui le ditte che controllano
la produzione e commercializzazione delle banane
controllano lo stato e la società, lavorare in
una piantagione può essere l’unica possibilità
di lavoro, lavoro che per molti incomincia a
13-14 anni. Nelle piantagioni controllate dalle
grosse multinazionali vengono negati ai
lavoratori anche gli elementari diritti e
garanzie sociali: salari bassi, mancanza di
contrattazione sindacale, aumento delle ore
lavorative, lavoro svolto in condizioni di
pericolo per la salute dei lavoratori. Un
lavoratore di piantagione può arrivare a
guadagnare solo l’1% del prezzo finale delle
banane.
Fungicidi, nematicidi, erbicidi e insetticidi
vengono somministrati ai banani in dosi massicce
tramite irrorazione aerea, anche in presenza di
lavoratori nelle piantagioni. Le caratteristiche
di somministrazione fanno sì che circa il 90% di
questi veleni venga disperso nell’ambiente.
In Europa vengono importati sei milioni di
tonnellate di banane annue, con un impatto
ambientale notevolissimo per il trasporto (in
navi frigorifere), la maturazione (in locali
riscaldati e gasificati) e la distribuzione.
Sarebbe meglio consumare le mele in Trentino e
le arance in Sicilia piuttosto che fare
pervenire da così lontano un cibo pieno di
sostanze tossiche coltivato con fatica e con
danni sociali e ambientali locali enormi.
Ma il boicottaggio nell’acquisto delle banane,
se perseguito, rischierebbe di portare alla fame
migliaia di persone in America Latina: sono in
questo caso in corso forme di
commercializzazione, distribuzione e produzione
che aggirano le multinazionali e dando maggiore
guadagno ai lavoratori tentano di ridurre
l’impiego di inquinanti e di meglio
salvaguardare la salute dei lavoratori.
L’importante è avere chiaro il fine ultimo di
queste azioni: ridurre i traffici,
regionalizzare i consumi alimentari, rendere
autonome le comunità. |
Il biologico
Intendere come biologico non solo quello che non
usa pesticidi e anticrittogamici ma anche quello
che ha una modalità di conduzione di tipo
naturale (conformazione del campo non
monocolturale, presenza di ambiti naturali,
lotta integrata, no alle primizie etc.) ma anche
socialmente corretto: no latifondo, no alle
grandi aziende, no alle aziende esterne al
tessuto sociale locale. Si alle conduzioni
comuni dell’agricoltura, si alla vendita
diretta, si alla gestione da parte dei
produttori del mercato.
In questo è necessaria una particolare
attenzione alla verifica dei marchi di qualità
ambientale dei prodotto e alla definizione di
biologico che viene applicata sui cibi.
Molti di questi marchi sono delle
autocertificazioni, ovvero le aziende dichiarano
autonomamente la biologicità degli alimenti
senza definire parametri né caratteristiche di
qualità del cibo. In tale maniera è difficile
comprendere il reale senso dell’etichettatura.
Altro problema è l’inserimento di suffissi tipo
“bio” o “eco”, o l’uso di termini come
“naturale” sulle confezione degli alimenti: in
moltissimi casi l’uso di queste terminologie non
comporta nulla o pochissimo in termini di reale
qualità del prodotto e viene messo in atto
millantando credito e cercando di captare un
settore del mercato maggiormente sensibile a
tale tema.
Anche in questo caso si rilegge una grande
distrazione da parte delle amministrazioni: tale
distrazione non è casuale ma è programmata.
Infatti, allineandosi alle richieste delle
multinazionali, i controlli e le limitazioni
vengono adottate solo dopo che siano stati
esplicitamente individuati motivi di intervento,
e non definendo delle indicazioni a cui le
aziende si debbono uniformare (in sintesi: se
una nuova sostanza in un cibo fa male può essere
usata fin quando non si costituisce una parte
lesa che richieda la modificazione del cibo o i
danni dopo averne dimostrato la nocività). In
questo anche gli organismi nazionali e
internazionali della sanità sono marginalizzati
alla verifica di poche garanzie per la comunità,
e tutto viene affidato all’abilità dell’azienda
di mistificare.
Il ruolo del fruitore e la sua capacità a
distinguere è anche in questo caso fondamentale:
assumere consapevolezza e capire che cosa si
mangia selezionando e rifiutando. |
|