Libera sperimentazione
di Luigi Fabbri
introduzione di Pietro Adamo

Così si intitolava un articolo scritto dall’anarchico Luigi Fabbri all’inizio degli anni ’30. Lo riproponiamo con una presentazione di Pietro Adamo.

In genere si usa la locuzione "crisi dell’anarchismo" per indicare da un lato il processo di marginalizzazione politica delle istanze anarchiche che ha avuto luogo, con tempi e modalità diverse, nei primi decenni del secolo in Italia, Francia, Stati Uniti, Spagna, e così via, e dall’altro i tentativi di ripensare - di "revisionare", si diceva all’epoca - i capisaldi del pensiero anarchico nello sforzo di restituirgli pregnanza e capacità di incidere sulla vita politica e intellettuale. Alcuni di questi "revisionismi" giungevano, sull’onda del successo bolscevico o sulla spinta dello scetticismo nei progetti di rivoluzione popolare, sino alla proposta di adottare metodi e fini autoritari. Altri pensatori si concentrarono invece su una sorta di rielaborazione interna, di riflessione e di ricatalogazione: nel 1924 Malatesta di dissociava da ogni revisionismo autoritario spiegando che, lungi dal "voler rinunziare, in pratica, se non in teoria, alle nostre concezioni rigorosamente anarchiche", il suo scopo era semplicemente quello di concentrarsi sullo "sviluppo delle idee" e sulla "loro applicazione alle contingenze attuali". Il più giovane ed entusiasta Berneri dichiarava invece di non temere (in un articolo restato però inedito) "quella parola revisionismo che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi".
Molti i protagonisti di questo percorso e molte le differenti strategie approntate in tale frangente: da Nettlau a Rocker, da Labadie alla De Cleyre, da Armand allo stesso Berneri. Il principale punto di riferimento di questo processo mi sembra però essere proprio il Malatesta degli anni venti, che, prima dalle pagine di
Umanità nova e di Pensiero e Volontà, poi da quelle della stampa libertaria che agiva all’estero, rilanciò un’articolata riflessione sulla natura e gli scopi dell’anarchismo. Questa si svolse lungo tre direttrici. Gli esiti totalitari del bolscevismo, di cui Malatesta fu uno dei primi a prendere atto, gli suggerirono che nella meccanica rivoluzionaria incentrata sul "terrore" si trovava un raccordo tra violenza e dogmatismo irriconciliabile con la concezione anarchica della libertà; la marginalizzazione apparentemente irreversibile degli anarchici lo condusse a pensare la transizione rivoluzionaria in termini nuovi, più come prodromo alla società libera che come compimento definitivo di un processo storico inevitabile; infine, questi due elementi lo portarono a una nuova concettualizzazione del comunismo, non come sbocco economico obbligato del raggiungimento dell’anarchia, ma come scelta volontaria all’interno di una pluralità di opzioni, concetto questo che veniva all’epoca espresso con il termine ‘libera sperimentazione’. Ciò che Malatesta aveva compreso, sulla spinta delle nuove esperienze suggerite dalla rivoluzione bolscevica, era che l’imposizione generalizzata della soluzione comunista avrebbe di per sé implicato la negazione del principio di libertà che era fondamento del pensiero anarchico; al contrario, la libera sperimentazione - ovvero la possibilità per ognuno di sperimentare ogni sistema economico concepibile - avrebbe forse condotto anch’essa alla vittoria del comunismo libertario, ma configurandola come frutto di un’evoluzione libera e spontanea.

Grande lucidità

Le riflessioni di Malatesta costituirono per molti un nuovo quadro concettuale entro cui risituare i valori centrali dell’anarchismo. Alcuni, anticipando le tendenze del dopoguerra, non solo sottoposero a critica le interpretazioni più usuali dei problemi dibattuti da Malatesta, ma si lasciarono alle spalle anche i presupposti culturali più consolidati nella tradizione sino a quel momento: la centralità operaia, lo sbocco insurrezionale, la concezione classista della storia, e così via (l’egoista Armand, l’anarco-liberale Berneri, persino l’ex anarco-sindacalista Rocker, e altri ancora). Tuttavia credo che il tragitto più significativo verso il concetto di libera sperimentazione sia stato compiuto da chi restò fedele sino in fondo agli ideali del comunismo libertario. Per costoro prendere atto della necessità di un’organizzazione economica pluralistica della società significava rinunciare a una delle loro credenze centrali, a uno dei loro presupposti di vita. Insieme a Malatesta, il più rappresentativo esponente di questa tendenza è stato Luigi Fabbri, nella cui riflessione si coglie il senso di uno strappo doloroso, di uno straziante travaglio intellettuale, insomma, potremmo dire, di uno scontro formidabile tra cuore e cervello.
Fabbri era tutt’altro che uno spirito ortodosso, anche se era privo della verve iconoclasta di un Merlino o di un Berneri. Tuttavia le sue analisi erano contraddistinte da grande lucidità e da grande capacità di penetrazione. Si pensi alla sua analisi del terrorismo bombarolo, di recente pubblicata in italiano con il titolo
Influenze borghesi sull’anarchismo. Identificando nell’ethos borghese una delle matrici del (cosiddetto) individualismo anarchico, Fabbri ne scorgeva già nel 1906 la contraddizione con l’anarchismo: "Secondo me gli anarchici che danno un’importanza soverchia ai fatti di rivolta, sono forse dei rivoluzionari e degli anarchici, - ma sono molto più rivoluzionari che anarchici. Quanti anarchici ho conosciuto, che si curano poco o nulla dell’idea anarchica, e magari non si curano neppur di capirla; ma sono ardenti rivoluzionari e la loro critica e la loro propaganda è rivolta solo al fine rivoluzionario della ribellione per la ribellione!"
Come tanti altri, per Fabbri il vero punto di svolta fu costituito dalla rivoluzione sovietica. Nel suo
Dittatura e rivoluzione la disamina del totalitarismo bolscevico comincia ad assumere i tratti di una critica più generale non solo del marxismo (cosa, ovviamente, tutt’altro che rara tra gli anarchici), ma anche dei presupposti culturali del materialismo storico (la centralità della lotta di classe, il verticismo rivoluzionario, e così via). Già nel libro Fabbri teneva presente l’approccio sperimentalista al problema della transizione, accennando all’antipatia bolscevica per la "libera iniziativa" propugnata dagli anarchici e affermando che tra i principi più importanti da proteggere vi era quello per cui "gli uni non debbano per forza subire una forma di organizzazione imposta dagli altri". Tuttavia la prospettiva di Dittatura e rivoluzione era indiscutibilmente comunista, nel senso che era dato per scontato che questo sarebbe stato l’esito - giusto e giustificato - della rivoluzione: "tutti sanno", scrisse Fabbri, "che gli anarchici sono, sul terreno economico, comunisti".
Gli anni venti, con la progressiva affermazione delle ideologie totalitarie in Russia e Italia, quasi costrinsero Fabbri ad affinare sempre più la propria prospettiva, abbandonando in particolare l’impostazione rigidamente classista della sua analisi. Nel 1922 pubblicò
La controrivoluzione preventiva, che Renzo De Felice ha potuto permettersi di citare, non del tutto a sproposito, come esempio classico della lettura marxista del fascismo. Ancora nel 1924 entrò in polemica con Malatesta, difendendo in qualche modo la positività storica dell’esperimento sovietico, pur enucleandone, nel contempo, la natura totalitaria: "La rivoluzione russa resta, malgrado tutto, ai nostri occhi il fatto storico più grande ed ancora più promettente per l’avvenire di questi ultimi cinquant’anni". In questo periodo l’apologia della libera sperimentazione cominciò a configurarsi come uno dei metodi per confutare le pretese autoritarie dei bolscevichi, fermo restando però il "punto di vista sociale e comunista" (insieme al mito dell’aumento della "produzione"): "Gli anarchici non hanno, sul modo migliore di gestire materialmente e tecnicamente la produzione", scrisse nella sua replica al noto libello antianarchico di Bucharin, "alcun preconcetto né apriorismo assoluto, e si rimettono a ciò che l’esperienza, in seno a una società libera consiglierà e a ciò che le circostanze imporranno. L’importante è che, qualunque sia il tipo di produzione adottato, lo sia per libera volontà dei medesimi, e non sia possibile la sua imposizione, né alcuna forma di sfruttamento del lavoro altrui. […] Né gli anarchici escludono a priori alcuna soluzione pratica; e ammettono che vi possano essere anche varie soluzioni diverse e contemporanee, in seguito all’esperimentazione delle quali i lavoratori potran trovare con cognizione di causa la via migliore per produrre sempre meglio e di più".
Dopo il successo fascista e la scelta dell’esilio, l’analisi del totalitarismo di Fabbri assunse fattezze più decise, mentre la sua concezione della libera sperimentazione si fece più positiva. Nel 1926 scrisse un articolo per una rivista russa che restò inedito. Qui negava che nella teoria anarchica si prevedesse l’imposizione della "espropriazione comunista ai piccoli proprietari" e spiegava che, sebbene il programma dell’Unione anarchica italiana del 1920 proclamasse l’"abolizione della proprietà privata della terra", il documento "affermava implicitamente la tolleranza verso la piccola proprietà non sfruttante il lavoro salariato, rivendicando la libertà dei produttori di non far parte delle associazioni di produzione".

Esigenza irrinunciabile

Nella sua recensione al Socialisme liberal di Carlo Rosselli troviamo altri segni di un mutamento di prospettiva. Per esempio, un minore rispetto nei confronti dei ‘classici’ (Bakunin era "sotto molti aspetti teoricamente più marxista che non si creda") e un più accentuato sospetto nei confronti della vulgata anarchica (Rosselli e Malatesta uniti in una "reazione volontarista, contro il fatalismo determinista così comune ai socialisti ed anarchici e derivante in gran parte dal marxismo"). Sorprendente anche il suo commento alla definizione rosselliana di "liberalismo": "sarebbe in sostanza l’anarchia, nel senso socialistico della parola, com’era intesa in seno alla 1a Internazionale; a meno che non si cada in equivoco sul significato della parola ‘libertà’ e non ci si arresti all’interpretazione puramente borghese di una libertà ‘per tutti’ in astratto, ma nei fatti concreti di una libertà ‘di classe’. Ma questo non dovrebbe essere il caso di Rosselli che si dice socialista; e tutta la nostra critica o quasi consisterebbe allora in quella al nome scelto, che si presta ad equivoci". Insomma, negli scritti di Fabbri compresi tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta si registra un peso nuovo dato non alla libertà in sé, ma alla libertà intesa in senso volontaristico, intesa come elemento costitutivo della società libera nella sua interezza. Da qui il nuovo atteggiamento nei confronti dell’esito comunistico, considerato, se applicato integralmente e dogmaticamente, più un ostacolo che un contributo. La sua interpretazione di Malatesta è più che significativa in questo senso: "Nello stesso campo anarchico il comunismo di Malatesta si differenziava alquanto da quello di molti suoi compagni. La differenza forse non è molto visibile, trattandosi più che altro di tendenze nei più poco pronunciate, quasi subcoscienti, di diversità di misura nella propaganda, di atteggiamenti mentali subordinati e, nei punti di partenza, di sfumature. Ma la differenza c’era; e se in principio poté passare inosservata, col tempo acquistò una certa consistenza. Tale differenza era determinata soprattutto dal senso relativista con cui Malatesta accettava il comunismo, mentre altri lo predicavano nel senso più assoluto. Mentre per moltissimi anarchici il comunismo divenne a poco a poco quasi un articolo di fede, fuori dal quale essi non concepivano alcuna anarchia possibile, Malatesta non cadde mai in quella specie di dogmatismo".
A mio parere la riflessione di Fabbri giunse a un punto fermo con il saggio "Libera sperimentazione", apparso su
Studi sociali nel gennaio 1935. Molti elementi del suo discorso impliciti negli scritti precedenti divennero espliciti. Molta carne viene messa al fuoco: l’ammissione che il dogmatismo anarchico costituisce una "tendenza mentale al totalitarismo"; lo stretto legame istituito tra la piena maturazione del concetto della sperimentazione integrale e l’esperienza totalitaria; la percezione dell’evoluzione in senso totalitario del mondo capitalista; e altro ancora. Certo, la libera sperimentazione è intesa in senso malatestiano: da un lato come esigenza irrinunciabile, dall’altro come probabile prodromo della vittoria del comunismo libertario. Ma è significativo che Fabbri lasci l’ultima parola all’esperienza concreta del confronto tra le diverse sperimentazioni economiche. Il comunismo ne uscirà vincitore, si spera; ma se così non fosse il risultato, in una società libera e ‘sperimentale’, concepita come quadro di una concorrenza tra differenti opzioni e sistemi, sarebbe comunque legittimo.
La teorizzazione anarchica della libera sperimentazione è il culmine di una tendenza forse minoritaria, ma affascinante, del pensiero occidentale, che valorizza nel contempo l’autonomia dell’individuo, considerato come essere razionale capace di scelta, e l’interazione sociale, quadro dello sviluppo delle diverse opzioni immaginabili. Se ne possono cogliere echi e suggerimenti agli albori stessi della modernità. A cos’altro pensava John Milton, scrivendo, anche lui nel pieno di una rivoluzione, in favore di una tolleranza integrale in cui tutte le teorie fossero messe alla prova, se non a una "libera sperimentazione" religiosa? "E sebbene tutti i venti della dottrina siano lasciati liberi di agire sulla terra, se la verità è in campo noi facciamo male a metterci ad autorizzare o a proibire per sfiducia nella sua forza. Che essa e la falsità si affrontino: chi ha mai sentito che la verità, in uno scontro libero e aperto, abbia avuto la peggio? [...] Chi non sa che essa [...] non ha bisogno di politiche, di stratagemmi, di autorizzazioni, per vincere? Questi sono i provvedimenti e le difese che l’errore usa contro di lei: ma lasciatele invece spazio, e non legatela mentre dorme, perché allora essa non dice il vero [...], ma prende piuttosto mille forme, eccetto la sua, [...] fin quando è infine ridotta a quella sua vera. E tuttavia non è impossibile che essa abbia più di una forma".

Pietro Adamo

1. E. Malatesta, "Intorno al nostro anarchismo", Pensiero e volontà, 1° aprile 1924, ora nel terzo volume degli Scritti, a cura del Movimento anarchico italiano, Carrara 1975, pp. 51-52; C. Berneri, "Per un programma d’azione comunalista", 1926 circa, ora in Pietrogrado 1917-Barcellona 1937, a cura di P.C. Masini e A. Storti, La Fiaccola, Ragusa 1990, p. 97.
2. Oggi con il termine individualismo non si intende in genere indicare i fedeli all’azione terroristica diretta, ma piuttosto gli esponenti di una scuola di pensiero fondata sull’idea che ogni relazione sociale deve essere fondata "sullo scambio, il contratto o il dono" nell’ambito di una società di mercato libertaria, una tendenza che si è sviluppata soprattutto negli Stati Uniti (vedi per esempio D. Miller,
Anarchism, Dent, London 1984, pp. 30-44, da cui è presa la citazione, p. 30). Mi ha sempre colpito il fatto che le idee economiche della stragrande maggioranza dei cosiddetti ‘individualisti’ nell’accezione tanto diffusa in Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento fossero decisamente comuniste.
3. L. Fabbri,
Influenze borghesi sull’anarchismo, Zero in condotta, Milano 1998, p. 35.
4. L. Fabbri,
Dittatura e rivoluzione, Edizioni l’Antistato, Cesena 1971, pp. 53, 58, 197.
5. R. De Felice,
Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 171-174.
6. L. Fabbri, "Lenin e l’esperimento russo",
Pensiero e volontà, 15 febbraio 1924, p. 3.
7. L. Fabbri,
Anarchia e comunismo "scientifico" (1922), in N. Bucharin, L. Fabbri, Anarchia e comunismo scientifico, Altamurgia editore, Ivrea 1973, p. 43.
8. Si vedano in proposito G. Manfredonia,
La lutte humaine, Edition du monde libertaire, Paris 1994, e L. Pezzica, "Luigi Fabbri e l’analisi del fascismo", Rivista storica dell’anarchismo, n. 2, 1995, pp. 5-22.
9. L. Fabbri, "
I comunisti libertari e la terra ai contadini", manoscritto custodito all’Istituto storico della resistenza di Firenze, con copia nell’Archivio Berneri di Reggio Emilia. Colgo l’occasione per segnalare un mio errore. Nel 1936 Berneri propose a Carlo Rosselli la pubblicazione dell’articolo di Fabbri (deceduto l’anno precedente), consegnandogliene una copia. Nel mio "Il revisionismo di Camillo Berneri", Il presente e la storia, n. 53, 1998, pp. 105-129, ne ho assegnato la paternità allo stesso Berneri (si veda C. Berneri a C. Rosselli (primi mesi 1936), Epistolario inedito, vol. II, a cura di P. Feri e G. Di Lembo, Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1984, pp. 146-147).
10.
Studi sociali, 16 agosto 1931, p. 6. Riporto la definizione di Rosselli: "Nella sua più semplice espressione il liberalismo può definirsi come quella teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola della umana convivenza. Fine, in quanto si propone di conseguire un regime di vita associata che assicuri a tutti gli uomini la possibilità di un pieno svolgimento della loro personalità. Mezzo, in quanto reputa che questa libertà non possa essere elargita od imposta, ma debba conquistarsi con duro personale travaglio nel perpetuo fluire delle generazioni. Esso concepisce la libertà non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigile la coscienza della propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà", Socialismo liberale, Opere scelte di Carlo Rosselli, vol. I, a cura di J. Rosselli, Einaudi, Torino 1973, p. 435.
11. L. Fabbri,
Malatesta. L’uomo e il pensiero, Edizioni RL, Napoli 1951, p. 109.
12. J. Milton,
Areopagitica (1644), citato in P. Adamo, La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella Rivoluzione inglese, Angeli, Milano 1998, p. 249.

Libera sperimentazione
(1935)

di Luigi Fabbri

Lo sviluppo del pensiero e del movimento dell’anarchismo, attraverso la sua incessante elaborazione e revisione, che in questi ultimi anni s’è fatta sempre più pratica e aderente alla realtà sociale, ha messo in luce un equivoco una volta invisibile e trascurabile, quando gli avvenimenti non ne avevano ancora provocata la discussione, ma che oggi risalta evidente ed esige un radicale chiarimento per poter procedere con passo più spedito verso realizzazioni veramente anarchiche.
L’anarchismo è sceso in campo contro il mondo autoritario e borghese, negandolo in pieno, totalmente, su tutti i campi dell’economia, della politica e della morale. Però v’è una delle sue negazioni ch’è la sua caratteristica ed ha determinato, ormai è un secolo, l’adozione del suo nome: la negazione dello Stato, cioè di ogni governo violento dell’uomo sull’uomo. Ciò che soprattutto gli anarchici criticano nello Stato, subito dopo la sua formazione violenta e coercitiva, è la centralizzazione che rende da un lato più cieca e liberticida la violenza statale, e dall’altro lato si traduce in un sempre maggiore sperpero di energie e ricchezze sociali. Quindi, quando dal campo della negazione si passava a quello dell’affermazione, ciò che soprattutto gli anarchici affermarono fu l’iniziativa libera in tutti i campi, non escluso l’economico, e la sua organizzazione sempre più estesa sulla base della solidarietà e del mutuo accordo volontario.
In ciò era logicamente implicita l’esclusione di ogni assolutismo e totalitarismo in materia di organizzazione sociale ed economica. È ovvio che, quanto più si va dall’individuo ad aggruppamenti sociali più vasti, man mano che questi aggruppamenti si allargano e organizzano i loro rapporti su più vasta scala, l’infinita molteplicità delle tendenze, attitudini, capacità, mentalità e bisogni umani determina una varietà sempre maggiore delle funzioni e dei modi e sistemi di esplicarle. allora l’adozione di un qualsiasi sistema "unico" d’organizzazione sociale, politico, economico, od altro, per quanto perfetto lo si possa immaginare, si rende impossibile, o per lo meno inconciliabile con la libertà, cioè con la negazione dello Stato.
Infatti, se un sistema unico può essere possibile, preferibile o indispensabile, sulla base del libero accordo, logicamente, o in aggruppamenti limitati, o in singole organizzazioni omogenee, appena lo si voglia estendere a territori più vasti o in una più larga cerchia di rapporti sociali, non potrebbe essere applicato che per forza e con l’intervento dello Stato. Ed anche in questo caso, dal punto di vista dell’utilità sociale, non solo ucciderebbe la libertà, ma risulterebbe più che mai deficiente ed antieconomico.
Questi concetti erano in certo modo sottintesi fin dai primi tempi dell’anarchismo. In Proudhon, in Bakunin negli scrittori libertari della Prima Internazionale, si cercherebbe invano alcunché di conciliabile con l’idea di un sistema totalitario1 .
Benché, a quanto mi sembra, l’argomento non sia stato trattato fino ad ora esplicitamente e nei termini come si pone oggi, tutto l’indirizzo del pensiero anarchico è stato sempre, fin da allora, in senso diametralmente opposto a qualsiasi soluzione totalitaria del problema sociale.
Bakunin e i primi internazionalisti, infatti, respingevano il comunismo, preferivano dirsi socialisti ed accettavano il collettivismo, -benché nel senso preciso e strettamente economico della formula essi non fossero punto anticomunisti,- non soltanto per avversione al comunismo statale tedesco, ma anche perché vedevano nel comunismo un sistema troppo chiuso ed esclusivo (troppo "totalitario", diremmo ora). Nella loro concezione il collettivismo aveva un senso più largo, più simile a quello che oggi noi spieghiamo con la libera sperimentazione.
Riccardo Mella dava ancora questo significato all’anarchismo collettivista in un suo rapporto al Congresso Anarchico Internazionale che doveva tenersi nel 1900 a Parigi. E Max Nettlau nei suoi scritti storici ne dà la medesima interpretazione.

Infiltrazione subcosciente

Anche dopo che l’anarchismo divenne comunista, dopo la fine della Prima Internazionale, esso non perdette la sua caratteristica, non diventò totalitario. La questione, ripeto, non fu esplicitamente posta sul tappeto. Pure una specie d’infiltrazione subcosciente in senso totalitario dopo di allora si andò insinuando fra gli anarchici a poco a poco, senza essere notata da nessuno, meno che da qualche scrittore individualista con la consueta esagerazione polemica.
Sotto l’influenza di Kropotkin, più per la sua suggestione della sua superiorità scientifica e letteraria che per una intenzione determinata, il comunismo anarchico divenne nelle mentalità più dogmatiche dei suoi seguaci un sistema esclusivo, fuori dal quale essi non ammettevano possibile alcun’altra forma di vita anarchica.
Vari fattori contribuirono a favorire tale tendenza difettosa. Anzitutto la necessità dell’intransigenza rivoluzionaria, forzatamente totalitaria nella negazione della società capitalistica e statale, erroneamente applicata alle concezioni avveniristiche con l’ideare l’organizzazione futura della società come fatto totalitario anch’esso, come sistema unico per la totalità dei rapporti sociali. Inoltre il dover opporre, nella propaganda, alla società attuale che si vuol distruggere un’idea di come potrebbe essere una società senza governi e senza padroni, cosa naturale e imprescindibile, facilmente spingeva i più semplicisti, ad offrire od accettare come unica soluzione quella creduta migliore, nell’illusione che allo scoppio della rivoluzione tutti potessero essere d’accordo o disposti ad accettarla ed attuarla.
Quest’ultima illusione fu anche mantenuta per molto tempo dall’influenza non indifferente esercitata un tempo sugli anarchici dal marxismo, che li spingeva a credere, fra l’altro, che basti l’abbattimento del capitalismo e l’espropriazione a determinare l’adattamento di tutta o quasi la società a un dato tipo di nuova organizzazione economica su basi egualitarie. Con questa differenza che, mentre i marxisti contano assai per ottenere tale adattamento sulla coercizione statale, gli anarchici non possono contare che sull’adesione volontaria.
Ma questa tendenza mentale al totalitarismo, come ho già detto, era molto imprecisa ed inconscia, e tanto trascurabile da non farvisi caso. Essa persisteva quasi soltanto fra elementi dell’anarchismo sindacalisteggiante, in cui di più si continuava a manifestarsi l’influenza dell’economicismo e totalitarismo marxista, malgrado che questo sia stato, già da più di trent’anni, dimostrato erroneo dal punto di vista anarchico della critica esauriente di Merlino, Malatesta, Tcherkesoff, ecc. Forse senza la suggestione e lo stimolo in vario senso degli avvenimenti del dopo guerra, anche oggi la cosa non darebbe nell’occhio e neppure noi vi faremmo tuttora soverchia attenzione.
Ma questi avvenimenti, -in specie i fenomeni totalitari del bolscevismo, del fascismo, dello statalismo economico (economia diretta)- si sono ripercossi, com’era naturale, anche sul movimento ideologico dell’anarchismo, determinandone un maggiore sviluppo in rapporto ai fatti, man mano che si svolgevano. La questione diventò importante e d’attualità immediata fin dal 1919, dopo i primi passi del bolscevismo che era andato al potere in Russia e vi aveva subito messo in pratica il sistema totalitario.
L’esperienza russa mostrò subito come il voler applicare a tutto un popolo e in tutti i campi, non solo in politica (in cui ciò si comprende dal punto di vista anarchico) ma anche in economia, nel campo della produzione, una direttiva unica totalitaria, in base a una teoria preconcetta, è il più grave degli errori, il più contro-rivoluzionario. Esso provoca il massimo disordine e sperpero sul terreno economico; e poiché è impossibile farlo accettare volontariamente da tutti, od anche solo da una reale maggioranza, dà luogo a conflitti senza numero e rende inevitabile, in chi pretende insistervi a farlo accettare, il ricorso alla violenza coercitiva più tirannica che immaginar si possa. Non solo lo Stato diventa allora indispensabile, ma più dispotico ancora delle stesse intenzioni dei governanti che lo dirigono.
Gli anarchici compresero tanto meglio la lezione dei fatti, in quanto ne avevano già l’intuizione. In rapporto ai fatti ed in coerenza con le loro idee, sulla traiettoria di tutto il loro passato, non avevano che da sviluppare ancor più la concezione libertaria verso una maggiore precisazione delle finalità anarchiche e del loro compito rivoluzionario nella rivoluzione. Essi opposero quindi al totalitarismo, forzatamente dittatoriale, del bolscevismo, l’applicazione del metodo sperimentale alla ricostruzione rivoluzionaria, che è il criterio più conciliabile con le leggi dell’evoluzione sociale e col proprio anelito di libertà.
Sul concetto della libera sperimentazione, che non era poi una novità scaturiva logicamente dalle premesse fondamentali dell’anarchismo, si insistette più spesso ed a lungo in special modo dopo la rivoluzione russa, in seguito a estese discussioni, sia tra compagni che con gli avversari, ma soprattutto coi bolscevichi.

Non per forza

Tali discussioni si svolsero un po’ dovunque. Ma più che altrove, credo, in Italia, con la partecipazione di Errico Malatesta, esse concludevano con la proposta pratica della libera sperimentazione, di cui si possono, del resto, trovare numerosi accenni e anticipazioni negli scritti più remoti del vecchio rivoluzionario italiano. Già dal 1884, nel "Fra Contadini" egli prevedeva "quasi con certezza che in alcuni posti si stabilirà il comunismo, in altri il collettivismo, in altri qualche altra cosa... Altro è dire, altro è fare, e solamente all’atto pratico si può vedere qual è il sistema migliore... Quando si sarà visto chi si trova meglio, a poco a poco tutti quanti accetteranno lo stesso sistema".
La maggioranza degli anarchici pensa e desidera che dall’esperienza, attraverso la rivoluzione, trionfi il comunismo-anarchico, che loro sembra più pratico e rispondente ai fini della libertà e solidarietà umana. Per ciò essi ne fan propaganda e si propongono di realizzarlo nella misura delle loro forze e capacità, non appena la rivoluzione lo renda possibile. Ma poiché l’anarchia non può farsi per forza e sarebbe utopistico credere che allo scoppio della rivoluzione tutti vogliano anarchicamente, e poiché in una situazione di libertà assicurata a tutti anche altri sistemi di vita sociale troveranno modo di esistere, è ovvio che l’ultima parola resterà all’esperienza. Come potrebbe essere diversamente?
Pure, a fianco di questo sviluppo logico dell’anarchismo è avvenuto che anche le opposte tendenze cosiddette totalitarie, fino allora inconfessate e latenti, trascurabili e senza importanza fino alla vigilia della Rivoluzione Russa, prendessero piede qua e là, nelle mentalità che v’erano predisposte per le ragioni dette sopra, anche per l’effetto corruttore del successo bolscevico. Il trionfo materiale e politico del totalitarismo bolscevico ha fatto creder ad alcuni che anche l’anarchismo per organizzare la vita sociale debba essere o farsi totalitario, illudendosi di potere, solo perché anarchici, evitare gli errori ed orrori di quello; come se tali errori ed orrori non fossero una conseguenza logica del sistema assai più che dei difetti dei suoi praticanti!
In altri elementi una suggestione deviatrice e nefasta nel senso totalitario la esercita lo stesso impressionante spettacolo dello sviluppo del capitalismo moderno. Essi attribuiscono all’accentramento e razionalizzazione sempre più totalitari delle sue imprese, alla loro trustificazione ed alla crescente organizzazione unitaria con sistemi unici del lavoro sopra una scala sempre più vasta, i risultati veramente meravigliosi nel campo della tecnica e della produzione. Ciò sembra loro una prova che, anche in una società di liberi e di uguali, per avere tutta l’abbondante produzione indispensabile ai bisogni generali e farne una razionale distribuzione, sarà altresì necessario un sistema totalitario di organizzazione economica, unico per le più vaste collettività.
Essi non vedono che ciò che rende necessaria al capitalismo, oggi, l’adozione di sistemi sempre più totalitari nell’organizzazione della produzione, non è tanto lo scopo di raggiungere una maggiore produzione, quanto quello di trarne un maggior profitto, defraudandone le masse lavoratrici e consumatrici. Il sistema totalitario nel campo dell’economia è più una pompa aspirante che una macchina produttiva. In una società di liberi e di uguali di essa non ci sarebbe bisogno.
Il vero e più forte ostacolo alla produzione, dal punto di vista dell’interesse generale, non è questo o quel tipo della sua organizzazione specifica, tecnica e burocratica, ma il monopolio capitalistico. Tolto questo, ogni sistema sarebbe sempre sufficiente ai bisogni di tutti, sia pure con differenze inevitabili fra gli uni e gli altri. Non che la scelta non abbia la sua importanza; ma essa non deve essere subordinata alla sola condizione della maggiore abbondanza possibile dei prodotti, bensì a quella molto più importante che ad una abbondanza sufficiente di beni materiali faccia riscontro il massimo possibile di libertà e la sicurezza che l’organizzazione della produzione non diventi una macchina per schiacciare i produttori.
Tale sicurezza non la darebbe certo una organizzazione economica unica, totalitaria, per le ragioni cui abbiamo già accennato. La darebbe invece una organizzazione economica che, - alla sola condizione di escludere ogni forma di autorità coercitiva e di sfruttamento del lavoro altrui, - permettesse la coesistenza dei tipi più diversi di produzione determinati dalla varietà delle condizioni di tempo e di luogo e della diversità delle tendenze, preferenze, capacità e necessità umane: insomma la "libera sperimentazione".
La sociologia, cioè lo studio della formazione, evoluzione e tendenze delle società umane, ci dimostra che qualsiasi organizzazione sociale, sia politica che economica, non sorge mai sulla base d’un programma o piano prestabilito, ma è sempre il risultato di esperienze successive, alle quali i vari programmi e piani delle singole correnti novatrici portano il loro contributo, e sono quindi necessari; ma dei quali nessuno può pretendere d’essere accettato da tutti a priori, e in realtà non viene mai accettato, a meno che non sia imposto per forza, - il che possono proporsi i partiti autoritari, ma non certo gli anarchici. Il totalitarismo sarebbe quindi non solo antilibertario, ma anche utopistico nel peggior senso della parola, antiscientifico ed in contrasto con le leggi dell’evoluzione sociale.

Una cerchia sempre più larga

Se ci mettiamo dunque non solo dal punto di vista specifico dell’anarchismo, ma anche semplicemente da quello sociologico, - di una sociologia di libertà, intendiamoci, e non di questa che i sociologi salariati hanno confezionato ad uso dei loro padroni e dei tiranni, - l’agognata rivoluzione deve aprire la via alla libera sperimentazione: alla pratica, cioè, dello sperimentalismo sociale liberato dalle pastoie di ogni monopolismo economico e di ogni oppressione politica. Lungo il suo corso l’esperienza eliminerà, sotto la spinta della necessità, mano mano i tipi d’organizzazione che risulteranno più difettosi o meno utili. Sussisteranno invece e s’imporranno per forza di cose in una cerchia sempre più larga, fino a comprendere vaste regioni, nazioni e forse l’umanità intera, quei tipi di organizzazione che offriranno maggiori vantaggi e risponderanno di più alle esigenze di benessere e di libertà delle varie collettività umane.
Noi siamo persuasi e prevediamo che i tipi migliori sotto ogni rapporto siano quelli che più si ispireranno al comunismo anarchico, - che neppur esso potrà essere probabilmente un sistema unico, ma piuttosto l’insieme armonico di forme diverse tra loro solidali e coordinate, - e per ciò siamo comunisti anarchici. Ma il comunismo anarchico per tutti non può essere il punto di partenza, la determinante da cui s’inizierà l’esperimento molteplice e multiforme sarà la rivoluzione liberatrice.
La situazione di libertà creata dalla rivoluzione permetterà anche ai seguaci del comunismo anarchico (come gli anarchici di eventuali tendenze diverse), se ne avranno forze e capacità sufficienti, d’iniziare da parte loro il proprio esperimento; ma l’estensione definitiva di esso a tutta la società non potrà venire che in seguito, solo quando al confronto con gli altri esperimenti avrà guadagnato l’adesione generale. Sarà cioè, se, come crediamo, i fatti ne dimostreranno la superiorità, semplicemente una risultante dell’esperienza sociale.

Luigi Fabbri
Dalla rivista Studi Sociali
di Montevideo, numero 37
del gennaio 1935

1. Bisogna osservare che nel 1935, quando fu scritto questo articolo, la parola totalitarismo, usata quasi esclusivamente in Italia come parte del vocabolario "granitico" del regime fascista, conservava ancora il suo semplice significato etimologico, indicando solo la presa di possesso della vita in tutti i suoi aspetti. E siccome la usavano generalmente i fascisti, che volevano che questo possesso fosse monopolio dello Stato assoluto, il destino della parola seguì le vicende del regime, arricchendo straordinariamente e determinando con esattezza la sua portata. Pure questo termine, usato qui come sinonimo di sistema unico, di pianificazione totale, e applicato a tutti coloro che tali sistemi o piani volessero attuare, ha un’efficacia premonitrice che non ci sembra inopportuna. (N.d.c.)